Amsterdam, Rijksmuseum Amsterdam
LA CULTURA GASTRONOMICA
TRA SAVOIR VIVRE
E COLLEZIONISMO
di Tito Vagni
Meno la forza umana è occupata, più tende all’eccesso;
il pensiero ve la porta irresistibilmente.
Honoré de Balzac, Trattato degli eccitanti moderni
Il collezionista intraprende una lotta contro la dispersione.
Walter Benjamin, I «passages» di Parigi
Le forme narrative, dal romanzo alla serialità
televisiva, hanno avuto e hanno la capacità di raccontare
un’epoca, ma per essere all’altezza del proprio
ruolo, per raggiungere l’autocoscienza del presente, devono
provenire da penne sensibili, come lo sono stati i grandi scrittori
realisti dell’Ottocento, disegnando personaggi fatti di
materia plastica, capaci di tenere insieme particelle della psiche
individuale ed embrioni della società civile per fare in
modo che una storia che si dipani sulle pagine di un romanzo sia in
grado di autodeterminarsi senza essere vincolata al suo ideatore.
Personaggi dall’alto valore simbolico, in grado di mantenere
una costante tensione tra la propria intimità e
l’ambiente sociale, rendendo palpabile lo spirito di
un’epoca. Tipi, secondo la celebre
definizione di Gyorgy Lukács, in cui “confluiscono
e si fondano tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente
essenziali, di un periodo storico” (Lukács, 1976).
Anche i galatei sono uno strumento prezioso, seppure meno indagato, per
chiunque voglia conoscere minuziosamente un momento storico, ma, al
contrario della finzione, essi hanno la caratteristica di doversi
attenere strettamente alla realtà, divenendo spesso
più rilevanti di molte riflessioni straordinarie di geni
intellettuali (Elias, 1982). I codici come La scienza in
cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino
Artusi non devono temere la resistenza dell’autore, la
possibilità che quest’ultimo ne alteri la
capacità conoscitiva, perché il loro contenuto
è un coacervo di stereotipi, abitudini, passioni,
imposizioni, storture che la classe sociale dominante ha maturato nella
propria esperienza quotidiana e posto come elementi di condivisione e
di appartenenza, facendoli divenire norma. La psiche
dell’autore è l’oggetto del compendio,
lo determina singolarmente, ne sporca il contenuto e, facendolo, lo
rende vivo, vibrante. Tali codici si potrebbero chiamare fisiologie,
rubando, come ha fatto Honoré de Balzac, questo termine alla
medicina: studi analitici, attenti, ad esempio, alle norme e ai
funzionamenti della toletta, dell’andatura o della tavola,
che tradiscono lo spirito di un’epoca, lasciando affiorare i
costumi, come riflessi inconsci e incontrollabili di una cultura. Il
sussidiario di Artusi è nel novero di tali opere
perché è un galateo che, al pari di quelli
dedicati alle buone maniere nelle relazioni sociali o
nell’abbigliamento, è in grado di rendere al
lettore contemporaneo l’immagine di un tempo passato, a patto
che non si arrenda all’evidenza dei fatti, considerandolo un
ricettario o un complemento d’arredo.
L’Artusi
è significativo per la sua forma, ancor prima che per il suo
contenuto. Esso aveva un pubblico specifico, si rivolgeva alle
“signore gentili” e alle loro famiglie,
contribuendo ad uniformare, in questo modo, la cultura gastronomica
della borghesia italiana – rafforzandone la coerenza
complessiva, partendo dalle abitudini alimentari. Il libro è
infatti una tecnologia che consente il “nuovo raggrupparsi di
vecchie élite” (Eiseinstein, 2003)
perché funge da collante, uniformando il proprio pubblico,
la propria comunità di lettori. D’altro canto, La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene ha
dilatato ulteriormente la distanza tra le classi sociali
perché, nonostante la sua diffusione, agli albori del XX
secolo in Italia “i contadini veneti continuarono a mangiare
la polenta di sempre e i braccianti del Sud le olive, le fave e i
pomodori” (Camporesi, 2007). Mangiare secondo certi dettami
prescritti dal buon tono significava appartenere a una
società di tipo più stretto, intimo, come nella
Parigi degli stessi anni, portare un bastone lavorato o un orologio da
taschino, indossare dei guanti finissimi e avere un portamento
raffinato, erano segni distintivi di un’appartenenza etica ed
estetica ad un’élite sociale. Il cibo e la moda
erano aspetti differenti della medesima necessità di
riconoscersi in un legame di tipo nuovo, fondato sulla forza
dell’effimero, del piacere, del gusto.
Il libro
mostrava la sua natura anfibia: mezzo di divaricazione – che
escludeva la maggioranza della popolazione a causa del censo e
dell’analfabetismo, e così facendo rafforzava il
principio secondo il quale la civiltà è eretta
sull’alfabetismo (McLuhan, 2002) – ma anche medium
della mobilità sociale: accedere alle informazioni
attraverso la lettura era per la borghesia europea un passaggio
indispensabile ma non sufficiente per colonizzare lo spirito del tempo.
Il libro, come nel caso dell’Artusi, non era un prontuario
ove sbirciare, per riprodurre grossolanamente la vita
dell’aristocrazia. Conoscere il menù adeguato per
un pranzo di magro o per il capo d’anno non faceva di un
borghese un uomo di mondo, ma un impostore. La lettura dei galatei
doveva essere profonda e volta a cogliere l’anima
dell’autore. Penetrando gli archivi della sua mente, il
borghese avrebbe interiorizzato l’insegnamento fondamentale
che si celava dietro gli oleati meccanismi di funzionamento
dell’etichetta: la conquista del proprio tempo da riempire
non già di vita in abstracto, ma di vita
vissuta. Disporre del tempo per leggere, per realizzare correttamente
ricette elaborate, per selezionare con cura i prodotti migliori, per
vestirsi, per conciarsi i capelli. Tempo liberato dal lavoro, tempo in
cui l’arte del mangiar bene si affianca all’arte
della toletta, a quella della conversazione, della flânerie,
a quello che i francesi definiscono in maniera generale savoir
vivre. Il tempo è sottratto
all’ossessione produttiva del capitalismo industriale
– il cui spirito è sintetizzabile, secondo la
ricostruzione weberiana, con l’espressione di Benjamin
Franklin “il tempo è denaro” –
assecondando una propensione alla dépense
(Bataille, 2003) tipica di quei soggetti che non avendo la
necessità di lavorare per provvedere alla propria
sussistenza, sono impegnati in una ricerca interminabile del
piacere.
Questi esseri non hanno altro stato che coltivare l’idea del bello nella propria persona, soddisfare le proprie passioni, sentire e pensare. Possiedono così, a loro piacimento e in larga misura, tempo e denaro, senza i quali la fantasia, ridotta a fugace fantasticheria, non può tradursi in azione. È sin troppo vero, ahimè, che, senza tempo e denaro, l’amore può essere al più un’orgia plebea o il compimento di un dovere coniugale. Anziché capriccio ardente e sognante, diventa ripugnante utilità (Baudelaire, 1994).
Le parole di Charles Baudelaire, intimamente coinvolto dalla
descrizione degli abitanti della metropoli, fa chiarezza su un
atteggiamento, latente nell'Artusi ed esplicitato dall'autore
nell'introduzione: “con le tendenze del secolo al
materialismo e ai godimenti della vita, verrà giorno, e non
è lontano, che saranno maggiormente ricercati e letti gli
scritti di questa specie; cioè di quelli che recano diletto
alla mente e danno pascolo al corpo, a preferenza delle opere, molto
più utili all’umanità, dei grandi
scienziati” (Artusi, 2007).
La
scienza in cucina e l’arte di mangiare bene rinnova
ad ogni lettura la sua importanza storica, quella di segnalare
l’ingresso dell’Italia nella cultura dei consumi.
Lo fa indicando la strada più semplice per una nazione priva
di vere metropoli – in cui la sola Napoli sembrava essere
paragonabile alle altre capitali europee – ovvero quella del
cibo, uno tra i più effimeri dei piaceri. Attraverso questa
lettura del libro di Pellegrino Artusi è possibile
proiettare il ragionamento sulla società contemporanea che,
fuori da ogni casualità, sta facendo
dell’attenzione per la cultura gastronomica uno dei suoi
tratti distintivi. La proliferazione di programmi televisivi dedicati
alla cucina, la fortuna di alcuni ricettari, la nascita di corsi di
laurea in Scienze Gastronomiche, sono solamente alcuni indicatori di
una crescente attenzione al tema del cibo. Se si vogliono rinvenire,
invece, le tracce della sensibilità emergente
nell’opera artusiana occorre prestare particolare attenzione
ai blog di chi si dedica con passione ai piaceri della tavola. I
mutamenti delle pratiche e dei comportamenti rispetto alla fase
aurorale della civilizzazione moderna sono notevoli, ma questi nuovi
soggetti – che prendono il nome di gourmet,
tradendo e rivendicando in questo modo una discendenza non casuale con
la nazione europea, la Francia, in cui prese forma con anticipo e con
straordinaria potenza la società dei consumi –
possono essere considerati gli eredi di quella cultura
perché sono in grado di assecondarne le pieghe, sfruttandone
massimamente le possibilità.
Alcuni
studiosi come Nicola Perullo hanno meritoriamente posto
l’accento sulla figura del gourmet,
proponendo una distinzione con quella del “gastronomo
edonista”, caratterizzato da un atteggiamento che:
… non chiama in causa quegli elementi formativi e culturali direttamente scelti e coltivati dal percipiente. È l’atteggiamento di chi ama il piacere del cioccolato senza conoscerne la storia, l’origine, la varietà, il modo di lavorazione. Come abbiamo visto, questo atteggiamento è tendenzialmente ricettivo, poiché si lascia soprattutto “invadere” dall’oggetto; tuttavia, ricettivo non significa passivo, perché la percezione ricettiva è relazionale e contestuale, tanto nelle esperienze più intense e sensuali quanto in quelle più blande e ordinarie. L’esplosione e l’espressione del piacere dipendono, in questa esperienza di piacere immediato, dalla trama di cui è composta la materia prima (Perullo, 2010).
Quella descritta da Perullo sembrerebbe un’esperienza ingenua e asociale, che si fonda sul valore primordiale del piacere gustativo, sorvolando le sovrastrutture della storia. Di conseguenza divenire gourmet significherebbe incamminarsi lungo un sentiero di progressiva castrazione, in cui l’animalità del desiderio, la propensione edonista al consumo, è coscientemente mortificata attraverso una formazione sul campo che trasforma le passioni più selvagge in uno stimolo conoscitivo. In realtà questa distinzione è frutto di un fraintendimento: il gourmet è lo stadio avanzato di un consumatore edonista sopraffatto dai piaceri della tavola. Come scrive Walter Benjamin riportando le parole di Eduard Fuchs:
… bisogna rendersi chiaramente conto che l’orgia rientra tra quelle cose […] che ci distinguono dall’animale. A differenza dell’uomo, l’animale non conosce l’orgia […]. L’animale abbandona il suo istinto più succulento e la fonte più limpida una volta che la sua fame e la sua sete sono appagate, e in genere il suo istinto sessuale è limitato a brevi e ben determinati periodi dell’anno. Tutt’altro per l’uomo, specialmente per l’uomo creativo. Questi non conosce il concetto dell’abbastanza (Benjamin, 2000).
L’orgia educata che si celebra nelle sale da pranzo
è il segno che il piacere non è più un
elemento eversivo ma può essere una componente integrata del
vivere contemporaneo.
L’elogio della
lentezza, come tributo alla ricchezza di tempo da dedicare al piacere,
è celebrato dai gourmet di tutto il
mondo: i loro pranzi hanno una durata spropositata rispetto a quelli
delle genti comuni, i prezzi che sono disposti a pagare potrebbero fare
arrossire un commensale ordinario, le conversazioni che intrattengono
sulle proprie performance culinarie richiedono immensa pazienza da
parte di un involontario interlocutore. Ma il cultore dell'alta cucina
non trova completamente soddisfazione facendo esperienza dell'oggetto
nel mondo – intrufolandosi anonimamente in un ristorante per
consumare il proprio pasto – vuole inglobarlo, fagocitarlo,
portandolo in casa propria. Per tale ragione riproduce i piatti che
consuma attraverso la fotografia, a cui aggiunge sofisticate didascalie
per privare la foto di ogni tipo di ambiguità e sottrarla
alla libera fantasticheria dell’utente. Il gourmet,
riproducendo l’esperienza gastronomica nel suo blog
– nell’intimità di un diario digitale
– la ingloba nel proprio spazio simbolico ottenendo il
duplice obiettivo di spettacolarizzare la propria esperienza edonista,
rendendola, al contempo, costantemente presente a se stesso. Le
pratiche del gourmet si sviluppano, quindi, su due
piani differenti in costante tensione: la soddisfazione individuale e
il riconoscimento sociale. Egli, come il collezionista analizzato da
Benjamin, ha un tesoro conservato nel proprio spazio digitale e sente
per tale ragione di essere un “milionario”.
È custode di una bellezza che ha fatto sua e di cui dispone
liberamente, come libero è l’acceso per ogni
visitatore, ma tale “orgoglio” non lo induce a
rinunciare ad altre forme di bellezza, perché è
il mondo quotidiano della persona, delle identità singolari,
a sentire crescere sempre più la propria vicinanza alla
bellezza e ai suoi antichi privilegi. “Una bellezza che
è appunto aperta a grandi rivoluzioni, a nuove
soggettività, dunque – seppure in forme
interrogative – a nuove etiche e nuove politiche”
(Abruzzese, 1998).
Oggi è difficile
imbattersi in un gourmet “vestito molto
miseramente” come i collezionisti descritti nei romanzi di
Balzac, perché questi soggetti dalla libido incontrollabile
hanno interiorizzato lo spirito del consumismo moderno e tentano di
assaporare ogni piacevole frutto della vita, contemplando una stringa
di passioni potenzialmente inesauribile. Rispetto all’epoca
in cui scriveva Pellegrino Artusi, la strettissima società
che sapeva vivere così bene da destare ammirazione nelle
persone che escludeva, si è disarticolata da un punto di
vista sociale, allargandosi notevolmente, almeno quanto il ventre del
più umile dei gourmet.
LETTURE
× Abruzzese Alberto, La bellezza per te e per me, Bompiani, Bologna, 1998.
× Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, Einaudi, Torino, 2007.
× Balzac Honoré, Patologia della vita sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
× Balzac Honoré, Illusioni perdute, Garzanti, Milano, 2009.
× Bataille Georges, La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
× Baudelaire Charles, Il pittore della vita moderna, Marsilio, Venezia, 1994.
× Benjamin Walter, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2002.
× Benjamin Walter, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000.
× blog.paperogiallo.net
× Campbell Colin, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, Edizioni Lavoro, Milano, 1992.
× Camporesi Piero, Il paese della fame, Garzanti, Milano, 2000.
× Colaiacomo Claudio, Post-etica rivoluzionaria. La
conquista dell’insensibilità nel discorso
leopardiano,
in Critica del testo,
VIII/1, 2005.
× Eiseinstein Elizabeth, Le rivoluzioni del libro, Il Mulino, Bologna, 1995.
× Elias Norbert, La società delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 1982.
× lacatana.wordpress.com
× Leopardi Giacomo, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano, 2008.
× Lukács Gyorgy, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino, 1976.
× Maffesoli Michel, La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna, Luca Sossella Editore, Roma, 2003.
× McLuhan Marshall,Gli strumenti del comunicare, Net, Milano, 2002.
× Perullo Nicola, Filosofia della gastronomia laica, Meltemi Editore, Roma, 2010.
× Rafele Antonio, Figure della moda. Metropoli e riflessione mediologica tra Ottocento e Novecento, Liguori, Napoli, 2010.
× Weber Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991.
× www.passionegourmet.it/