UNA COINCIDENTIA OPPOSITORUM
IN VERSIONE DA
OSTERIA
di Livio Santoro
In una massima murale del signor Naoshige
era scritto: «Considera le cose
di grande importanza non troppo seriamente».
Yamamoto Tsunetomo
Hagakure
Nell’Aleph di Jorge Luis Borges (2003)
c’era (c’è) ogni cosa, la
possibilità di ogni cosa e di ogni sua prospettiva.
Nell’Aleph, quella piccola sfera nascosta nella cantina di un
appartamento di via Garay, in Buenos Aires, né luminosa
né buia in cui ci sono tanto la luce quanto
l’oscurità, le contraddizioni convivono senza che
più le si possa considerare tali, in una coincidentia
oppositorum ipertrofica, accogliente e totale. La grandezza
di oggetti come l’Aleph, che esistano o meno, ha fatto la
fortuna della narrativa, e ha ispirato il pensiero quando questo si
trovava a dover rappresentare quell’ente fantasioso che
comunemente, e da più parti, è stato chiamato con
il nome di Dio. La possibilità da essi offerta sta in quella
gratificante necessità umana di dover pensare
all’annullamento delle differenze; annullamento che
è in Dio, nell’assoluto o, alla maniera di
Plotino, nell’Uno: “vita immutabile,
tutt’intera, infinita, completamente stabile”
(2004).
Non una descrizione paesaggistica della
realtà che opera per separazione, che settorializza gli
elementi e gli attributi di un ente, ma una definizione operata dal
pensiero che assume nell’ente unico il peso
dell’eterogeneo, facendone cifra dell’assoluto.
D’altronde
l’eterogeneo è proprio la misura del possibile
come manifestazione del mutamento, pur nella fissità
dell’istante. L’eterogeneo di cui parliamo
è contemporaneità totalizzata, è
sovrapposizione, mai gerarchica, di una serie indefinita di attributi
coevi ma qualitativamente distanti. E sono numerosi gli oggetti totali
che l’intelletto umano ha creato, tutti dispositivi, come
l’Aleph, in grado di sconfiggere l’incertezza
terrena che accompagna l’umano nella lenta recita della sua
lunga tragedia.
Ma in quanto oggetti del pensiero, della
narrativa o della religione, queste totalizzazioni uniche
dell’eterogeneo restano immagini, rappresentazioni,
simulacri. Proiettano l’uomo nell’oltre-mondano, lo
disarcionano dalla sua dimensione terrena, spesso dalla sua
corporeità.
Che allora si rintracci invece nel
concreto, nel palpabile, la stessa natura degli oggetti totali del
pensiero; si cerchi scavando nella più sensoriale delle
piattaforme: tattile, gustativa, olfattiva. Quella piattaforma in cui
si riproduce il corpo stesso di quell’uomo il cui pensiero
s’arrovella. Naturalmente in questa dimensione non è possibile
ricercare l’assoluto come cifra dell’eterogeneo, ma
si può cercare l’eterogeneo come cifra
dell’assoluto, purché i suoi elementi siano
contemporanei nella stessa localizzazione. Una traduzione
dell’assoluto oltremondano sulla scena del concreto, potrebbe
dirsi. Si ricerchi quindi un oggetto totale visibile, al di fuori della
narrativa e della filosofia (che probabilmente sono la stessa cosa).
Ma
prima si ricordi brevemente quanto due filosofi del passato hanno detto
sull’uomo, che in fin dei conti è sempre il
protagonista di questa nostra storia. Martin Heidegger l’ha
descritto come quell’ente che, unico, è in grado
di porsi il problema dell’Essere (dunque, diciamo noi, anche
di Dio); Ludwig Feuerbach, invece, ha ancorato l’uomo alla
dimensione della carne e dei nervi, secondo quell’adagio
abusato e un po’ mal interpretato che recita
“l’uomo è ciò che
mangia”.
In queste due versioni dell’uomo
stanno esattamente due possibilità (se abbiamo ancora
intenzione di seguire il ragionamento che sopra abbiamo cominciato):
quella di rappresentarsi l’oggetto totale, sintesi
dell’eterogeneo, come un fatto del pensiero; quella di
rappresentarselo come fosse invece un fatto della materia palpabile, la
stessa che abbiamo sotto gli occhi, nelle mani o tra i denti. Ma tra le
due, sia detto con franchezza, seguendo l’opposizione
Heidegger-Feuerbach che abbiamo proposto forse con troppa leggerezza,
è la seconda a precedere la prima: perché
l’uomo che non mangia non può pensare;
l’uomo che mangia può invece pensare (o allo
stesso modo può non farlo), e solo di conseguenza
può porsi il problema dell’Essere,
dell’Uno, di Dio e di tutte queste cose che hanno bisogno
della maiuscola per vestirsi di grandezza.
Prendiamo allora la
seconda strada sopra indicata, e in essa cerchiamo
l’eterogeneo nell’oggetto unico, che annulla e
accoglie, concettualmente, le contraddizioni e le aporie. Siamo partiti
da un libro, L’Aleph, in cui si racconta
di un oggetto totale, e arriviamo adesso ad un altro libro, in cui,
all’atto della concretizzazione dell’immaginario,
incontriamo proprio un altro oggetto totale.
La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a firma
di Pellegrino Artusi, è il libro di cui parliamo; il
pasticcio di maccheroni è invece il nostro oggetto totale.
Questa
la storia che ne parla e lo presenta:
I cuochi di Romagna sono generalmente molto abili per questo piatto complicatissimo e costoso, ma eccellente se viene fatto a dovere, il che non è tanto facile. In quei paesi questo è il piatto che s’imbandisce nel carnevale, durante il quale si può dire non siavi pranzo o cena che non cominci con esso, facendolo servire, il più delle volte, per minestra.
Ho conosciuto un famoso mangiatore romagnolo che, giunto una sera non aspettato fra una brigata di amici, mentre essa stava con bramosia per dar sotto a un pasticcio per dodici persone che faceva bella mostra di sé sulla tavola, esclamò: - Come! per tante persone un pasticcio che appena basterebbe per me? - Ebbene, gli fu risposto, se voi ve lo mangiate tutto, noi ve lo pagheremo. - Il brav’uomo non intese a sordo e messosi subito all’opra lo finì per intero. Allora tutti quelli della brigata a tale spettacolo strabiliando, dissero: - Costui per certo stanotte schianta! - Fortunatamente non fu nulla di serio; però il corpo gli si era gonfiato in modo che la pelle tirava come quella di un tamburo, smaniava, si contorceva, nicchiava, nicchiava forte come se avesse da partorire; ma accorse un uomo armato di un matterello, e manovrandolo sul paziente a guisa di chi lavora la cioccolata, gli sgonfiò il ventre, nel quale chi sa poi quanti altri pasticci saranno entrati.
Questi grandi mangiatori e i parassiti non sono a’ tempi nostri così comuni come nell’antichità, a mio credere, per due ragioni: l’una, che la costituzione dei corpi umani si è affievolita; l’altra, che certi piaceri morali, i quali sono un portato della civiltà, subentrarono ai piaceri dei sensi.
Questa la storiella. Ma dov’è
l’eterogeneo? Nell’accorpamento di una classica
opposizione binaria simile a quelle che hanno sempre foraggiato
l’antropologia e un’altra manciata di scienze
dell’uomo: il dolce e il salato. Tutto quello che
c’è dentro il pasticcio, infatti (rigaglie di
pollo, meglio se con uova non ancora mature, creste e barbigli della
stessa bestia, funghi, prosciutto crudo e cotto di maiale, animelle di
un’altra bestia ancora, tartufo, balsamella e maccheroni),
sta chiuso in un involucro di pasta frolla, come quella che
s’usa per le crostate anche se un po’
più magra. Questo un primo elemento della nostra
dimostrazione.
Inoltre è oggetto totale, il nostro
pasticcio, per numerosi altri argomenti. Innanzitutto la coincidenza
degli opposti (salato e dolce) che annulla le opposizioni
antropologiche di cui abbiamo già parlato. In secondo luogo
perché racchiude, nelle sua densità, proprio come
l’Aleph, l’essenza dell’eterogeneo e del
mutamento: le uova ancora non mature del pollo sono
micro-localizzazioni staminali, che si danno senza ancora rilanciare
nella pratica sulla scommessa delle possibilità, sono
generative di soggettive prospettiche, non ancora compiute nemmeno nel
loro essere germinative. In terzo luogo perché con
metodologia casistica, sezionando una parte arbitraria
dell’enumerazione completa del mondo animale, il pasticcio
racchiude in sé elementi di quattro bestie differenti
(maiale, vacca, pollo e agnello), allo stesso modo di un’Arca
costruita per solcare la rabbia di un Dio irrequieto. In
quest’ultima evidenza sta anche la possibilità di
avvicinare la rappresentazione del nostro pasticcio a quella
metodologia irrequieta che anche il già citato Borges ha
utilizzato nella sua lista non esaustiva degli animali cinesi
dell’Emporio celeste di conoscimenti benevoli
(Borges, 2009).
Soprattutto, però, è
necessario soffermare la nostra attenzione sulla chiusura della
storiella, e in questo modo torniamo alle ipotesi che sopra abbiamo
formulato. Artusi sostiene, parlando del tracotante mangiatore di
pasticci: “Questi grandi mangiatori e i parassiti non sono
a’ tempi nostri così comuni come
nell’antichità, a mio credere, per due ragioni:
l’una, che la costituzione dei corpi umani si è
affievolita; l’altra, che certi piaceri morali, i quali sono
un portato della civiltà, subentrarono ai piaceri dei
sensi”.
Qui l’autore introduce una nuova
opposizione dicotomica: piaceri morali contro piaceri dei sensi. E
attribuisce, allo stesso tempo, un primato
“moderno” e “civile” ai primi
(piaceri morali), etichettando di conseguenza i secondi (piaceri dei
sensi) come fonte di degenerazioni (il parassitismo)
dell’umano. In sostanza, in un libro che parla essenzialmente
di cibo (o che dal cibo parte per raccontare di un pezzo di mondo), si
insinua l’idea che il piacere da questo ingenerato
nell’uomo sia minore (o quantomeno più barbaro)
rispetto a quello ingenerato dal pensiero, e dall’azione
morale, e la dimostrazione di questa teoria sta anche nella costruzione
del personaggio, protagonista della storiella, connotato
tendenzialmente da attributi negativi: la tracotanza, come detto, la
presunzione, la maleducazione, la negazione del limite nelle
capacità dell’uomo.
Ma tornando al
principio della storia del timballo, e alla collocazione temporale che
la ospita, la questione si stravolge un’altra volta, e la
costruzione negativa del personaggio si rovescia grazie al contesto: il
Carnevale. Nell’incipit della storia sta allora la nostra
soluzione, poiché grazie a questo dato possiamo rivoltare il
primato nella dicotomia sopra proposta (piaceri morali vs piaceri dei
sensi). Cos’è per noi, infatti, il Carnevale?
È di certo più cose: il sovvertimento delle
regole, l’epoca dell’opulenza, ma anche quella del
sacrifico, del sangue.
In questo modo il nostro mangiatore di
pasticci impertinente è un soggetto che si affianca in
maniera più che adeguata all’oggetto totale (il
pasticcio, appunto) che incontra nel racconto dell’Artusi.
Perché il Carnevale è il luogo
dell’opulenza e del sacrificio allo stesso tempo,
è sovvertimento della verità, mascheramento e
dunque nascondimento, dispositivo negativo in una piattaforma a-letheiologica.
Ricapitoliamo:
nella storiella dell’Artusi che abbiamo citato
c’è un oggetto totale, il pasticcio (luogo della
nostra coincidentia oppositorum);
c’è un protagonista, un personaggio bieco e
parassita costruito attraverso parametri negativi per dimostrare la
supremazia civile del piacere morale su quello dei sensi;
c’è un contesto, il Carnevale, sovvertimento delle
regole della verità, apertura temporanea dei chiavistelli
infernali e celesti.
Inoltre, ricordiamo, con Feuerbach
(strizzando brutalmente anche Cartesio) abbiamo già
sostenuto il primato del corpo sul pensiero, e la necessità
che il pensiero ha di subordinarsi proprio alla piattaforma corporea.
Allora
che possiamo trarre da queste nostre brevi meso-conclusioni,
nell’ermeneutica del testo che abbiamo riportato?
Francamente
è difficile dirlo. E anche in questo caso le
possibilità sono due, e si contraddicono a vicenda pur
essendo conseguenza logica l’una dell’altra. La
prima è questa: Artusi ha voluto riportare una storia per
dimostrare come, in una sequenza di elementi che negano le opposizioni
binarie e si danno all’eterogeneo come cifra
dell’assoluto, la verità possa essere sovvertita
quando la contestualizzazione scenografica della storia è
carica di contraddizioni ed opposizioni come lo è il
Carnevale. In questo modo il nostro protagonista mangione, da che
poteva essere considerato come un incivile e bifolco abitante della
scostumatezza e della tracotanza, diventa invece un testimone del
primato del sensibile (e del corporeo) sul morale (il pensiero).
Ma
allo stesso tempo (e siamo alla seconda possibilità) la
furia con cui il nostro protagonista assume in sé la
totalità dell’oggetto pasticcio, rappresenterebbe
la tendenza dell’uomo a ricercare nella negazione delle
differenze in quanto tali, e nel loro adeguamento in un contenitore
singolo che rispetti l’eterogeneo, dunque rappresenterebbe
ancora un rivolgimento alla dimensione extracorporea
dell’assoluto, coniugabile solo sulla dimensione del pensiero
attraverso i nomi maiuscoli di Uno, Essere o Dio (per restare su quelli
che già abbiamo citato). In sostanza l’uomo del
racconto, mangiando tutto l’oggetto in questione, fin quasi a
scoppiare, assume in sé proprio l’eterogeneo come
cifra dell’assoluto, riconciliandosi con il suo stesso
assoluto, che presumibilmente possiamo chiamare Dio. Che poi
quest’essere maiuscolo sia indigesto, riguarda
un’altra storia.
LETTURE
× Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Edizioni BUR, Milano, 2010.
× Borges Jorge Luis, L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2003.
× Borges Jorge Luis, Altre Inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 2009.
× Plotino, Enneadi, Bompiani, Milano, 2004.