Una conversazione con Alberto Capatti
IL VERBO,
ANZI I VERBI DI ARTUSI:
SCEGLIERE, FARE,
SERVIRE, SCRIVERE
di Daniela Fabro
Pellegrino Artusi è un personaggio che mette
d’accordo tutti. Dalla donna di casa, che sul suo ricettario
ha imparato a cucinare, ai cuochi professionisti che lo citano come
ispiratore delle ricette della “vera” cucina
italiana, da cui non si può prescindere pur innovando. Ma
è un fatto che Artusi sia stato soprattutto un personaggio
la cui cultura, culinaria e non, e il cui culto della lingua italiana,
hanno vietato di scadere nella retorica, andando piuttosto sempre
all’essenza delle cose, che si trattasse di spiegare una
ricetta o che si trattasse di spiegare la vita. Vero? Falso? Ne abbiamo
parlato con il professor Alberto Capatti. Lui, Capatti, lo conosce bene
Pellegrino Artusi, lo conosce come nessun altro.
Parli di Artusi e citi
Capatti: è inevitabile perché Capatti, un tempo
direttore della rivista La Gola, ha anche curato la
Autobiografia di Pellegrino Artusi (Slow Food,
Bra,1999) e la recentissima edizione critica con commento e note del
celeberrimo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene dell’uomo
di Forlimpopoli. Il professor Capatti oggi dirige
il periodico Slow edito dall’associazione
Slow Food, insegna Storia della cucina e della gastronomia
all’Università di Scienze Gastronomiche di
Pollenzo (Cuneo) ed è anche autore di diverse pubblicazioni
in materia di gastronomia, tra cui ricordiamo il recente Il
boccone immaginario. Saggi di storia e letteratura gastronomica
(Slow Food, Bra, 2010). Così, parli di Artusi e citi
Capatti, (come è capitato di recente a chi scrive, in un
post nel suo blog: www.pianetacibo.blogspot.com) e
questo incontro è una di quelle portate che non
può mancare a tavola, pena essere bacchettati da Artusi e
dallo stesso Capatti, naturalmente…
La
scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, scrive il prof.
Montanari nella postfazione all'ultima edizione da lei curata (Bur,
Milano, 2010), non è un documento storico ma il fondamento
teorico e pratico della tradizione gastronomica italiana. A quali
soggetti storici si deve soprattutto questa codificazione in sapere
tradizionale per eccellenza?
Una cultura culinaria (preferirei evitare il termine
tradizione) è una rete di cuochi/cuoche,
scrittori/scrittrici e beati o inquieti fruitori. Pellegrino Artusi
è una maglia, forse la prima maglia di questa rete che si
sviluppa nei vent’anni in cui ristampa e aggiorna La
scienza in cucina (1891-1911). I suoi corrispondenti, i suoi
stimatori ed emuli, sono le altre maglie della rete, in gran parte nati
nella metà del XIX secolo e sono: Alberto Cougnet, nato nel
1850 (L’Arte cucinaria in Italia, Wilmant,
Milano, 1910-1911), Giulia Lazzari Turco, nata nel 1848 (Manuale
pratico di cucina, Emiliana, Venezia, 1904), Adolfo
Giaquinto, nato nel 1847 (La cucina di famiglia,
Roma, 1899) ed altri di cui è in corso
l’individuazione. Le grandi cuoche-scrittrici degli anni
Venti, si innestano su questa trama e, con ago e filo e cucchiaio di
legno, contribuiscono ad infittirla: Ada Giaquinto Boni, la
più nota, con Il talismano della
felicità (Preziosa, Roma, 1925). Così
procede la didattica culinaria e la cucina, sino agli esiti
più vicini a noi: Il cucchiaio d’argento
(Domus, Milano, 1950), Le ricette regionali italiane di
Anna Gosetti della Salda (Solares, Milano, 1967), o Quando
cucinano gli angeli! di Suor Germana (Piemme, Casale, 1983).
Ogni ricetta è replicata con varianti, circola con nuovi
termini, si riproduce continuamente, pur essendo sempre riconducibile a
prototipi e modelli.
Artusi,
però, non (ab)usa mai della parola tradizione, dimostrando
di ignorare il concetto alla base dello scenario odierno
dell'alimentazione: quello del marketing che orienta i rapporti tra
agricoltori, industria della trasformazione e chef. Questo vuol dire
che per fare della buona cucina, classica, intramontabile come quella
delle sue ricette ci vuole forse altro, che cosa?
Ogni mercato ha dietro le sue spalle una agricoltura e un
commercio, e davanti a sé monete, sporte, servi e
gastronomi. Quello di Firenze, del 1891 non faceva eccezione, e non era
comparabile con quelli attuali. Artusi riceveva polli vivi dalle sue
terre, il suo cuoco Francesco Ruffilli comprava i lamponi ad agosto
quando il loro prezzo calava (per farne conserve), i suoi
corrispondenti ignoravano alcune delle erbe de La scienza in
cucina, per esempio, in Veneto, l’origano. Questa
diversità di conoscenze e consumi, difficilmente
è riconducibile a quella che Allan Bay chiama ironicamente La
mistica del territorio (Cuochi si diventa,
Feltrinelli, Milano, 2009, p.17). Oggi il
“territorio” è un’etichetta di
un marketing rigido quanto quello “industriale” e
sta alla base di organizzazioni, profit e no profit come Slow Food, che
ne mettono a frutto il valore economico e simbolico. Nella macilenta
agricoltura dei tempi d’Artusi, il territorio non
c’era e i poderi di Romagna potevano contenere una miseria
(contadina) e una povertà (qualitativa) oggi impensabili,
nel nostro contesto di leggi, marchi, tutele. D’altro canto,
si fa cucina con gli ingredienti reperibili ed attuali; La
scienza in cucina ha determinato scelte e insegnato piatti
continuamente diversi dal 1911 ad oggi, con la conseguenza di
stabilizzare alcune operazioni e di offrire esiti evolutivi, scontati o
imprevedibili, e di incoraggiare alcune ricette e farne tacere altre.
Come
lei stesso ricorda, l'edizione critica la Scienza in cucina
di Piero Camporesi nel 1970 palesava il timore della scomparsa della
cucina genuina, del “sogno di felicità domestica”
dell'Artusi a favore del cibo precotto e surgelato dell'industria.
Oggi, invece, assistiamo a una riscoperta dei sapori dell'orto, dei
prodotti freschi e rari, delle verdure di stagione e di
prossimità e La Scienza in cucina come
scrive lei, è sopravvissuto a tutte le rivoluzioni
alimentari del XX secolo: in che modo si intreccia con la storia
dell'industria dell'alimentazione?
Oggi, accade di tutto: Benedetta Parodi consiglia ai suoi
telespettatori di approvvigionarsi al supermercato e di eseguire una
ricetta con prodotti surgelati sempre a portata; viceversa Allan Bay
ricerca e consiglia il “buono” in una visione ad un
tempo empirica e critica, a sua misura. La “riscoperta dei
sapori dell'orto, dei prodotti freschi e rari, delle verdure
di stagione e di prossimità” è
un approccio fra i tanti che discrimina e incrimina, che promuove
realtà e mito. L’industria garantisce la base
alimentare alla popolazione italiana, con una gamma di prodotti
scalare, per costo e valore gastronomico, ma tutto il suo marketing non
basta a renderla riconoscibile e accettata in tutte le sue componenti.
L’esistenza dell’orto e quella delle coltivazioni
estensive, della passata casalinga e di Pomì
sono le due facce di un sistema che dagli anni Novanta non riesce a
trovare un equilibrio, almeno da un punto di vista culturale, e che
richiede, per il futuro, una nuova visione. Che c’entra
Artusi? Artusi esprime i molteplici significati contenuti nei verbi:
scegliere, fare, servire, scrivere, nel corso di un secolo, ed ha
guidato, in Italia, la famiglia, l’industria, il mercato, i
consumi. Come qualsiasi classico letterario, è eccentrico e
intrinseco al nostro gusto, anche al mio.
Oltre
al carattere sperimentale e non prescrittivo delle ricette di Artusi
(le famose ricette parlate) e alla capacità di definire
ingredienti e mosse dei procedimenti di base con una chiarezza e una
precisione linguistica senza pari, cosa manca ai manuali di
cucina che sono venuti dopo e al modo di descrivere le loro ricette
degli chef, magari anche stellati, di oggi?
Non manca nulla, perché ogni ricettario in
commercio (a nome di Parodi, Bay, Marchesi o Cracco) esprime un
approccio attuale-universale al fare cucina. Anche gli errori,
didattici o linguistici, sono parte di una visione immanente della
cucina, e li ho sempre considerati preziosi per capire il dettato.
Così pure le opinioni di tanti autori. Quando Benedetta
Parodi scrive: “mi sono dedicata alle mie spese via Internet:
molto più riposante!” (Benvenuti nella
mia cucina, Vallardi, Milano, 2010, p.73), esprime un
giudizio da politico sul mercato, e cerca voti, audience, come in una
campagna elettorale. Anche questo è “essere in
cucina”, “fare cucina” e invocare Artusi
per zittirla sarebbe errato. Se Artusi intingeva la penna
nell’inchiostro e con la sua grafia pulita ed esatta fino al
novantesimo anno di età, redigeva una ricetta che gli era
stata raccontata, annotata, il suo stile ha influito sugli/sulle eredi
molto di più di quanto non si pensi e molte formule cliccate
su internet portano un po’ della sua grazia e qualche eco
della Scienza in cucina. Quanto agli errori, lui
stesso ne commetteva, a partire dal soufflé scritto
soufflet, da matita rossa per un professore di francese quale sono
stato.
Ai suoi tempi, come ha
scritto lei, l’Artusi costruì il suo sapere grazie
ai mezzi allora emergenti che fecero anche l’Italia unita,
come la rete ferroviaria e il servizio postale che gli diedero
l’opportunità di conoscere i vari prodotti. Oggi,
un novello Artusi come dovrebbe interagire con la Rete, con i social
network e l’e-commerce?
Questa domanda, l’accetto positivamente
perché, come nel formulare la risposta alla precedente,
permette di liberare la letteratura culinaria da pretesi vincoli
stilistici, dalla sudditanza all’inchiostro e alla stampa.
Televisione, pubblicità, internet, telefonia, blog, sono i
linguaggi della cucina di oggi, e semmai sarebbe interessante tradurre La
scienza in cucina in tali codici, come Alberto Rebori
l’ha tradotta in fumetti (Corraini, Mantova, 2001). Invito a
guardare solo le immagini di Rebori…
La cucina domestica e
l'amore: per i gatti, per le donne, per la scrittura in un
italiano correttissimo imparato da autodidatta. Un personaggio
singolare, lei come se l’immagina Artusi?
L’ho sempre visto, a distanza, come un manichino
dell’Italietta, per poi considerarlo, da vicino, come una mia
identità, fra le più profonde. Ereditato da mia
nonna Giulia, e da mia madre Camilla, è il germe della mia
vita, della mia anima, indissociabile da quello che sono. Ma, con
questo, non oserei mai risponderle, io sono Artusi, temendo di vedermi
crollare addosso, in un incubo, tutta la genealogia domestica.