VOUCHER, TOTEM E BAMBOO
di Gennaro Fucile
Armi, pietanze, suoni, piante, animali, paesaggi, aromi,
abiti, bevande, spezie, guerrieri, per secoli le cronache del
viaggiatore veneziano Marco Polo non hanno avuto concorrenti. Il Milione,
però, avrà un grande pubblico solo molti secoli
dopo, quando, invece, si saranno moltiplicate le narrazioni avventurose
di luoghi tanto lontani quanto fantastici, rivolte a un numero di
lettori ben più vasto, che iniziava anche a viaggiare per
conto proprio, sebbene su distanze minori di quelle che gli eroi della
letteratura popolare percorrevano nei loro universi paralleli ai
nostri.
L’immaginario coloniale e il
turismo di massa iniziano a prendere il largo solo negli ultimi decenni
dell’Ottocento. Da allora non si sono mai più
fermati. Mondi perduti, terre lontane, avventurieri, l’animo
umano messo a nudo, la natura selvaggia, le anime nobili e i cuori
palpitanti, le visioni immaginarie dei territori extraeuropei hanno
celebri cantori, tra cui Rudyard Kipling, Sir Arthur Conan Doyle,
Henry Rider Haggard, Edgar Rice Burroughs, e
quest’ultimo, seguendo la medesima rotta di Jules Verne,
stabilì inequivocabilmente l’equivalenza tra le
terre inesplorate del pianeta Terra e gli altri corpi celesti,
perché l’avventura e l’intrattenimento
hanno bisogno di spazio e di novità. Penne avventurose,
qualcuna incline a viaggiare in Asia, qualcun’altra in
Africa, oppure a fare rotta verso le Americhe. C’era poi chi
andava ovunque, uno dei primi ad illustrare paesaggi tanto reali quanto
immaginari in chiave avventurosa, antesignano di gusti, preferenze e
orientamenti culturali che avrebbero assunto proporzioni gigantesche
nel Novecento, ma inimmaginabili ai suoi tempi, lui, che oggi sarebbe
un hit-maker, Emilio Salgari, un altro veneto, circa sei secoli dopo
Marco Polo rapito dagli orizzonti sconfinati, dalla giungla e
dall’oceano. Salgari è la cifra originaria della
fascinazione di massa che l’uomo occidentale ha inseguito
lungo tutto il Novecento. Ne detta i temi e ne anticipa i dettami.
Salgari come Claude Debussy, che rimase ammaliato dal suono del gamelan
giavanese. L’incontro fatale data 1889 e avvenne in un
padiglione dell’esposizione universale di Parigi. Strano
intreccio quello che musica e letteratura tesserono alle soglie del
Novecento, la dimensione popolare e quella accademica si concessero
primi incontri fugaci scegliendo fondali esotici, tra spartiti e storie
avventurose da cui nacque l’immaginario collettivo sotteso a
diversi ambiti (e mercati) della piena modernità: la
letteratura d’evasione, la musica colta e popolare, il
turismo di massa. La fantascienza sarà la prima a farsi
carico di ampliare le frontiere, dalle prime battaglie spaziali, dalla
cosiddetta space opera all’epica di Jack Vance, i superuomini
creati da Philip José Farmer, il clangore delle armi, le
interminabili navigazioni, l’invincibilità dei
buoni, il susseguirsi di paesaggi che noi umani non abbiamo mai visto.
Insomma, tutto nella science fiction, classica e post, in quella
orientata allo spazio esterno sembra muoversi lungo le rotte
salgariane. In particolare, lo scorrazzare tra le varie epoche
dell’immaginario che Farmer consente ai Signori (nel primo
episodio del serial The maker Of Universes) nel
pianeta a forma di torta nuziale, il mondo creato da Jadawin, discende
per linea diretta dalla disinvoltura salgariana
nell’avventurarsi ai quattro angoli del mondo. Due
scribacchini d’ingegno che sapevano far stare al mondo gli
eroi.
Anche le vacanze e la musica di massa, in gran parte,
nascono sotto il segno zodiacale di Sandokan, e Mompracem è
il luogo ideale celato in tutte le direzioni di viaggio, quella zona
del desiderio che anni dopo verrà ribattezzata exotica
e che comprende le terre e i mari dove la civiltà
industriale non ha ancora messo le radici. L’Africa, le isole
del Pacifico, il Sudamerica e la sconfinata Asia. I punti cardinali
sono le quattro S che conducono allo svago, al divertimento e al relax:
Sun, Sea, Sand and Sex.
Eroi e musiche già abitano
questi luoghi, Tarzan, King Kong, la jungle music
composta da Duke Ellington dal 1927 al 1939, a partire dalla Creole
Love Call del 1927, con i vocalizzi africaneggianti di
Adelaide Hall e le sonorità animalesche sprigionate dalle
sordine degli ottoni di Bubber Miley e Joe “Tricky
Sam” Stanton. Un genere che troverà mirabile
sintesi nella celeberrima Caravan registrata nel
1937, quando l’ombra cupa sta oramai per
scendere un po’ ovunque. Ma finita la guerra i sogni esotici
diventano realtà... televisiva.
Le avventure (incomplete) di Sandokan - disegni di Hugo Pratt, testi di Mino Milani per il Corriere dei Piccoli
Il laboratorio dove nasce adulto questo sogno è uno
studio televisivo californiano, che trasmette quindici minuti di musica
proveniente dalla lontana India: lo show di Korla Pandit, Adventures
in Music with Korla Pandit che sul finire degli anni Quaranta
infrange i cuori delle donne americane. Korla esegue sempre il suo Magnetic
Theme, le inquadrature si soffermano sulle mani che scorrono
sulla tastiera dell’organo Hammond B2, sul viso, lo sguardo,
tutto molto ipnotico, c’è l’India nel
salotto di casa, Korla non parla, è una scelta della regia.
Questo è il primo programma televisivo dedicato alla musica,
l’anno è il 1949. È solo
l’inizio, musica e televisione plasmeranno
l’immaginario del viaggio di massa della seconda rivoluzione
industriale, quella made in Usa. La musica, in
particolare, disegnerà nuove mappe subentrando ai libri, e
quanto avrà inciso nell’immaginario
sarà chiaro solo dopo qualche decennio, quando
l’”etnico” sarà un business e
la tecnologia permetterà di portarsi dietro librerie
musicali, un po’ come il Kien dell’Auto da
fé di Elias Canetti, che immaginava di portare
nella testa la sua biblioteca.
Ai tempi di Korla Pandit i
mercati erano ancora da costruire all’est e da ricostruire a
ovest, le mappe tutte da ridisegnare e i nuovi cartografi furono
proprio i musicisti. La magnifica ossessione salgariana per i mondi
lontani si riversa sui pentagrammi.
Dal Sudamerica
è un fiorire di mambo, rumba e cha-cha-cha, con Perez Prado
e Xavier Cugat ad aprire le danze anche in Italia (ma non sono i soli).
La grande orchestra americana (come dice lo stesso nome), The 101
Strings inizia il suo tour nel mondo, snocciolando
album/cartoline dedicati alle musiche di ogni latitudine. Dalle Ande
risplende l’ugola d’oro di Yma Sumac, che entra in
scena vantando una discendenza dall’imperatore inca
Atahualpa, ma di andino c’era più che altro
l’altezza prodigiosa che l’estensione della sua
voce le consentiva di raggiungere. Il suo primo album, Voice
of the Xtabay venne prodotto dal fine compositore Les Baxter,
a sua volta creatore di musiche ispirate a luoghi fantastici, terrestri
ed extraterrestri. Les Baxter scrisse in particolare un brano che
divenne poi un anthem dell’exotica,
Quiet Village, divenuto un hit nella versione di un
altro muscista chiave di questa scena, Martin Denny. L’album Exotica
già dalla copertina segna un’epoca: due grandi
occhi di una splendida ragazza hawaiiana ci guardano da dietro una
tenda di bamboo. La ragazza si chiama Sandy Warner, in
realtà è americana e la si ritroverà
in altre copertine di Denny, ora nei panni di un’indiana, ora
in quelli di una mediorientale… l’immaginazione
occidentale dell’esotico.
È il segnale di
carica, l’inizio della seconda conquista del Pacifico, un
oceano che infiamma l’immaginario turistico (ed erotico)
degli americani, mentre altri musicisti come Arthur Lyman o Robert
Drasnin si impegnano a ricostruire sonorità e magie degli
atolli, delle palme e delle statuette tiki, etno music
tutta inventata (musicalmente si tratta di invenzioni geniali,
beninteso, così come quelle salgariane). Un impegno cui
corrisponde, negli Usa, la crescita esponenziale delle vendite, negli
anni Cinquanta, delle riviste di viaggi (National Geographic
in testa). Seduzione corallina ben viva nel 1962, quando inizia il giro
del mondo di 007, la più grande operazione di co-marketing
tra cinema e turismo mai concepita. Sarà, infatti, una
spiaggia del Pacifico ad incorniciare la Venere/Ursula Andress che
lascia tutti senza fiato. Ora il paesaggio è più
a fuoco: tempo di lavoro/tempo di consumo/tempo libero, la musica di
sottofondo, l’easy listening, l’exotica,
la space age pop music. Musiche che segmentano il
quotidiano, musiche da impiegare a seconda delle circostanze, ed
è solo l’inizio. La conquista delle spiagge (exotica)
e dei pianeti (space age music) è
parallela. Il denominatore comune è il cocktail, ideale per
accompagnare queste escursioni mentali. Un’operazione
così raffinata da fare allora del turista uno status symbol,
come mai più in futuro.
Si sa, ogni viaggio ha una fine. Quello iniziato a Mompracem
finisce nel gennaio 1968.
Fu allora che le terre
dell’estremo oriente persero il fascino misterioso di cui si
era fatto ambasciatore Korla Pandit e assunsero le sembianze macilente
e ostili di uomini armati, sporchi, nascosti ovunque, impegnati a
fronteggiare i marines. Elicotteri, napalm, trappole nelle giungla,
risaie e B52. L’offensiva del Tet condotta dalle forze
regolari dell’allora Nord Viet Nam e dai guerriglieri
vietcong spazzò un sogno dalle case degli occidentali. I
botti del capodanno (vietnamita) risuoneranno per tutto
l’anno: gli studenti francesi scenderanno nelle piazze di
Parigi, i carri armati occuperanno le piazze di Praga, Robert Kennedy e
Martin Luther King verranno assassinati e i Beatles andranno in India.
Loro, i Fab Four avevano inciso nel 1965 Norvegian Wood
(brano incluso in Rubber Soul), utilizzando come
accompagnamento uno strumento popolare indiano: il sitar.
Il
successo, la popolarità del sitar negli anni Sessanta
racconta il radicamento profondo del mito India/Estremo Oriente
nell’immaginario occidentale, quella fascinazione che Salgari
avvertì anzitempo, al punto che tale Lord Sitar, al secolo
Big Jim Sullivan trascriveva bellamente hit dell’epoca beat
per sitar (!) come Daydream Believer dei Monkees, I
Can See For Miles degli Who e Black Is Black
dei Los Bravos.
Il jazz, a sua volta, nel pieno della free
music e della riscoperta delle radici afro, si lasciò
catturare nuovamente dall’Oriente. Tony Scott con la sua Music
For Zen Meditation e John Coltrane con India
disegnarono un’affascinante traiettoria, che verrà
più e più volte ripercorsa e re-immaginata da
musicisti come Don Cherry e Colin Walcott con gli Oregon. Un nugolo di
musicisti “d’avanguardia”
s’incamminerà sulla medesima via, da La Monte
Young a Terry Riley e John Hassell.
L’anno
dopo l’offensiva del Tet e il viaggio dei Quattro,
riaccendendo la televisione, si vedrà andare in onda un uomo
sulla Luna. Da questo cocktail riprendono i viaggi in oriente ma al
Martini è subentrato l’acido lisergico, si parte
ma sono trip, non più esclusiva dei
giovani californiani, e la meta simbolo dei primi Settanta è
Katmandu. Sono anni che vedranno un’invasione di sitar e
tablas, di raga blues/jazz/rock, mantra cosmici e meditazioni
elettroniche. Tre nomi giusto per avere dei riferimenti: Paul
Butterfield Blues Band, Mahavishnu Orchestra, Popol Vuh.
L’etnico è freak. Tornano in
auge i libri di viaggio/formazione, Siddharta su
tutti, ma l’Oriente è tanto magico quanto
popolare, cosicché in anni di totale impegno spunta lo
sceneggiato televisivo Sandokan, diretto da Sergio
Sollima.
Tra mille contraddizioni, la seconda rivoluzione industriale stava portando a termine la sua rivoluzione culturale. I giovani iniziavano ad essere un prodotto maturo, stavano diventando produttori (part time), consumatori (a tempo pieno) e turisti (a progetto). Sul finire dei Settanta arrivano anche il Walkman, registratore portatile della Sony e i primi compact disc brevettati dalla Philips. Rendono la musica trasportabile e archiviabile in data files che presto si trasformano più o meno creativamente in ogni tipo di etno-ambient, punto di confluenza della new age e della ambient music. La novità è che i paesaggi immaginari ora sono distanti anche nel tempo, scivolano indietro, ad esempio, fino al dreamtime degli aborigeni australiani, quelli delle Vie dei canti di Bruce Chatwin, de L’ultima onda di Peter Weir e di Cobra verde di Werner Herzog. Il didgeridoo è ovunque nella musica degli anni Novanta, frammisto a canti provenienti dai minareti, drone elettronici e tutto quanto è campionabile. Insomma, a ciascuno la sua musica e la sua meta di viaggio personalizzata. Profonda è la modificazione in atto. L’immaginario collettivo relativo al viaggio e alla scoperta si è frammentato, non esiste più un medium privilegiato, il libro, il brano musicale, il film, ma combinazioni possibili, che incessantemente ridisegnano l’immaginario occidentale. Così tutti disegnano paesaggi in base a nuovi punti cardinali che sono ora alimentari, legati al ristoro e/o al benessere, garantiti da cibi/luoghi iperreali, come la dieta mediterranea ri-scoperta da uno studioso americano, il professor Ancel Keys, che scelse come sua residenza Pioppi, nel Cilento, dove oggi sorge il Museo Vivente della Dieta Mediterranea. Keys ha riportato nel Mediterraneo l’immaginario occidentale, ha azzerato il giro iniziato con l’oltrepassamento delle colonne d’Ercole. Così si ricomincia daccapo, con l’attrazione fatale dell’Oriente, non solo in testa ma anche nella pancia. I paesaggi salgariani (dove, in fondo, Oriente e Occidente sono interscambiabili, si direbbe ante postmodernità) non sembrano scalfiti dal tempo. Intanto, circolano strambe colonne sonore di film dove la musica è nel cast dei protagonisti: l’Occidente si infatua di Bollywood e nel settembre del 1996 un gigantesco Buddha fa il suo ingresso all’interno di un ristorante parigino. Ambiente originale, sofisticato, una cucina si potrebbe dire fusion, tutta un mix di occidente ed oriente. Le serate sono animate da abili Dj che agitano e scuotono con maestria suoni da tutto il mondo. Selezionano il meglio e iniziano le pubblicazioni delle compilation intitolate come il ristorante: Buddha Bar. Un boom mondiale e frotte di imitatori. Il Buddha Bar è marca, ristorante, colonna sonora, ambiente rilassante e distintivo, un caso esemplare di non luogo, denso di assenze, un pieno di nulla, dove spesso transitiamo dove sempre più spesso immaginiamo di viaggiare di questi tempi. L’anno precedente Ludovico Einaudi aveva pubblicato un disco che per atmosfere, per ritmi e timbri appartiene alla medesima stirpe. S’intitola Salgari, quel Salgari, proprio lui, Emilio, l’autore di storie avventurose di terra e di mare, lui, sciamano che avvertì lo spirito della world music, come la si chiama oggi, lui, che si cela dietro i vari campioni eterni della fantascienza, gli immortali che scorrazzano in tanta letteratura di massa, gli invincibili di carta e quelli in 3D, il turista immaginario che si spostava “senza la seccatura dei bagagli”, un viaggiatore tra le epoche che evitò la seccatura di portarsi dietro una macchina del tempo. Lui, Emilio Salgari, che anticipò l’ultima e più radicata forma d’incantamento avvertita in Occidente: l’esotico. Un idea dell’altro che abita ovunque, che non privilegia alcun punto cardinale. Lo sapeva bene, ne avvertiva le good vibrations, ce le regalava e lo fa ancora.