LETTERATURA E IMMAGINE
NEL ROMANCE SALGARIANO
di Fabrizio Foni, Claudio Gallo
La letteratura è sempre stata in relazione con
l’immagine. Il valoroso Achille e l’astuto Ulisse
nei poemi omerici, il viaggiatore Dante nella Commedia,
il prode Orlando nell’opera di Ludovico Ariosto, Gulliver in
Jonathan Swift, il naufrago Robinson Crusoe in Daniel Defoe (e
l’elenco potrebbe ovviamente continuare), suggeriscono al
lettore immagini forti, immagini indelebili dei protagonisti, delle
situazioni, talvolta dei luoghi e degli oggetti (lo scudo di Achille,
per limitarsi a un esempio). Il romance, la
letteratura popolare e di genere sono da sempre stati ben consapevoli
di questa relazione. Un caso emblematico e
“limite” al tempo stesso è rappresentato
dal corpus illustrativo di Gustave Doré, grazie al quale – oppure, per qualcuno in un certo senso definibile “apocalittico”, si potrebbe dire
“a causa del quale” – le cosiddette
letterature “alta” e “bassa”
sono state accostate, anzi, più rivoluzionariamente
uniformate e fuse insieme in un unico, grande patrimonio immaginifico.
Doré ha raffigurato di tutto: Jules
Verne e Honoré de Balzac, John Milton e Charles Perrault,
George Gordon Byron e la Bibbia, Sinbad
il Marinaio e Dante Alighieri, Miguel de Cervantes e La
Fontaine, Samuel Taylor Coleridge e Sofia Rostoptchina, meglio nota
come la Comtesse de Ségur. In sintesi, dalle storie di fate
al Libro dei Libri. Incisioni che non possono essere dimenticate
persino da chi le ha viste soltanto di sfuggita, magari
nell’infanzia. Un bagaglio pittorico che ha fissato molta
letteratura nella fantasia delle masse, coprendo il ruolo di
“mediatore culturale”. Ciò che sorprende
osservando le opere di Doré è la mancanza di una
vera restituzione storica, e il tratto che, benché minuzioso
e accurato, risulta tutto sommato “seriale”, dando
vita a una realtà alternativa immediatamente codificabile
dal lettore/osservatore. Alberto Abruzzese ha giustamente messo in luce
come il lavoro di Doré
descriv[a] un vero e proprio universo letterario che riunifica il tempo e lo spazio […]. Si tratta cioè di un repertorio di testi di diversa qualità e funzione, di diverso – o parzialmente diverso – pubblico, di diversa lingua e tradizione culturale, che vengono illustrati con un linguaggio che non ha bisogno di traduzione e che può tornare alla universalità della cultura letteraria in termini pratici, concreti, effettivi. Opera di divulgazione dunque che produce modalità nuove dello sguardo e della rappresentazione; produce una internazionalità che prepara quella del cinema; produce persino un nuovo modo di leggere i testi illustrati […] e i testi che verranno: produce quindi un nuovo ordine della scrittura. E infatti, esaminando tutto il materiale delle illustrazioni di Doré, ci accorgiamo ben presto che le modalità compositive della pagina disegnata si possono raggruppare in alcune soluzioni standardizzate.
(Abruzzese, 2007, p. 31).
Volendo sintetizzare, la produzione del grande illustratore
“… può essere ridott[a] a schemi
estremamente semplici: sono il risultato di un lavoro in serie che ha
investito con un flusso costante, direttamente ritmato
dall’editoria e dalle leggi di mercato della diffusione della
cultura, gli elementi eterogenei di ciascun testo” (ivi,
p. 32). Un sogno irrealizzabile di ogni salgarofilo sarebbe
senz’altro gustare un’edizione delle Tigri
di Mompracem, del Corsaro Nero o
– perché no? – delle Meraviglie
del Duemila con le inconfondibili incisioni di Gustave
Doré.
Nella seconda metà
dell’Ottocento l’affermarsi di nuove tecniche di
stampa, l’avvento della fotografia, del cinema,
dell’illustrazione a colori e del fumetto consolidarono la
possibilità di riprodurre all’infinito –
Walter Benjamin docet (Benjamin, 1966) –
parole e immagini combinate tra di loro, talvolta (inizialmente) e poi
sempre più spesso (con il passare degli anni).
Emilio
Salgari, al pari di Robert Louis Stevenson, di cui molto probabilmente
conosceva la produzione romanzesca ma non i saggi letterari, ne era
perfettamente cosciente, tant’è che la sua
collaborazione con l’editore genovese Antonio Donath, di
origine tedesca, segnò la nascita di un certo modello di
libro che aveva come elemento fondamentale l’illustrazione:
una a colori per la copertina e una ventina in bianco nero
all’interno del romanzo. Un modello che sarebbe stato fatto
proprio dalla quasi totalità degli editori italiani e, in
particolare, dal fiorentino Enrico Bemporad, che non solo sottrasse a
Donath Salgari, ma anche i suoi principali illustratori, (Alberto Della
Valle, Gennaro Amato, Arnaldo Tanghetti e altri ancora) che davano
visibilità e un volto preciso ai suoi eroi. Per Salgari si
deve parlare in effetti di scrittura visiva, in quanto nei suoi romanzi
egli realizza scene immediatamente traducibili in immagini.
Abilità presumibilmente derivata dal suo amore per il
melodramma (senza dimenticare quello per il teatro e per i balletti).
Il
narratore veronese aveva per l’appunto uno spiccato interesse
per le sceneggiature, gli allestimenti, i fondali. Disegnatore
dilettante, capace di tratteggiare con maestria una carta geografica,
considerava le immagini come delle fonti indispensabili (disegni,
incisioni, fotografie...). Al pari dei testi consultava scrupolosamente
gli apparati iconografici di riviste, di repertori scientifici e
naturalistici, di diari di viaggio, e simili. La rappresentazione
grafica, l’aspetto visuale tout court,
permeavano la sua scrittura. Il West di Salgari, per esempio,
influenzerà non poco lo spaghetti-western italiano degli
anni Sessanta del Novecento. Del resto il romanziere aveva scritto di
Buffalo Bill (che Della Valle aveva ritratto in modo superbo) e,
soprattutto, aveva preso parte allo spettacolo del Wild West Show, di
stanza a Verona nel 1890. La sua attenzione si era concentrata
sull’azione, sui caratteri degli artisti, sui pellerossa, i
bisonti, i cow boys incontrati nei giorni in cui il circo americano si
era trattenuto, coinvolgendo proprio l’allora cronista
Salgari quale passeggero della diligenza Deadwood,
assalita dagli indiani e salvata dai cow boys.
Negli anni Trenta, e non a caso, la potenza delle immagini
suggerite dalla scrittura salgariana la si ritrova nei primi fumetti
d’avventure che per ispirarsi ricorsero ai suoi romanzi, ai
suoi scenari, per dar vita a un originale filone italiano,
contraddistinto da pregevoli interpreti come Rino Albertarelli, Walter
Molino, Angelo Bioletto. E così avvenne anche nel cinema,
dagli anni Trenta in poi e, successivamente, nella televisione, a
partire dai Cinquanta. La scrittura richiamava fulmineamente le
immagini: una potenza narrativa di cui Salgari era conscio,
perché marchio ricorrente e non episodico del suo narrare.
Evidenziamo
qui solo due aspetti, essenziali, della sua scrittura visiva. In primo
luogo le descrizioni, frutto di minuziose ricerche e accurati studi,
che evocavano realtà altre, un mondo di carta che al lettore
appariva reale, in barba alle involontarie inverosimiglianze in
più punti presenti: una splendida Terra di Mezzo, in
verità, che della realtà aveva la concretezza ma,
per la propria iperbolicità, ne era di fatto una possente
metafora. La descrizione in Salgari si limitava a fornire rapidi
affreschi, arricchiti di dettagli, che però lasciavano al
lettore il compito di completare il quadro percependo il movimento. Una
cooperazione che, rudimentale quanto si vuole, è comunque
alla base dell’interazione multimediale e dei sistemi
cosiddetti immersivi.
Non si può trascurare poi la figura
dell’eroe: il protagonista, erede dell’epica
classica e di quella cavalleresca, è una fondamentale
rivisitazione moderna del mito. Nell’avventura,
l’eroe si preparava a superare ostacoli e prove grazie alla
propria forza titanica, e alla prontezza necessaria per affrontare
imprevisti e perigli. In esso si è da sempre – ora
consapevolmente, ora sotterraneamente – identificato il
lettore, raffigurandolo a proprio piacere, talvolta scegliendolo fra i
molti ritratti offerti da illustratori, attori, interpreti, registi, e
persino ‘voci’ radiofoniche. Si pensi a Yanez che,
per Della Valle, era un canuto e anziano europeo con tanto di casco
coloniale, mentre per Pipein Gamba, alias Giuseppe
Garuti, il portoghese era tratteggiato giovane e agile, e con queste
fattezze talmente apprezzato dai lettori da essere, in seguito, in tale
forma adottato nel cinema e nella televisione.
Sul finire
degli anni Ottanta dell’Ottocento, la decisione di Salgari di
chiudere con l’appendice fu lungimirante. Era dettata
dall’aver compreso che le storie raccontate a episodi sui
quotidiani, dopo tanti successi e affermazioni, stava ormai divenendo
superata. Occorreva utilizzare nuovi strumenti di comunicazione e
diffusione: le riviste più o meno specializzate e i libri
illustrati e dalle riconoscibili collane. Non c’è
infatti romanzo o racconto salgariano, raccolto in una qualsivoglia
forma editoriale, che ignori l’importanza
dell’immagine. È opportuno ricordare che le
appendici di Salgari (basti ricordare La Tigre della Malesia
o I drammi dell’India) si tramutarono in
popolari drammi teatrali, portati in scena dall’amico
Francesco Serravalli, nelle piazze di molte città italiane.
Ulteriore testimonianza della possibilità dei testi
salgariani di migrare facilmente in altre forme espressive.
Salgari
è una figura centrale nella storia della letteratura, della
cultura e del comune sentire del nostro paese. È al centro
di un grande crocevia letterario che si confronta con i temi e i filoni
affascinanti e sorprendenti, imprevedibili prima di farsi, per il
successo, stereotipo: dall’Oriente misterioso alla Storia,
dalla conoscenza del mondo in genere al teatro, dalle grandi correnti
letterarie (quali la Scapigliatura) alle dominanti correnti di pensiero
(il Positivismo), dalle conquiste geografiche e letterarie al topos
dell’uomo che affronta il suo destino.
Salgari apre
le porte di un mondo nuovo che accanto alla parola introduce la
suggestione dell’immagine. Si è portati
erroneamente a pensare che quest’ultima si sia imposta nella
nostra cultura relativamente da poco tempo, in coincidenza con
l’affermarsi delle moderne conquiste tecnologiche e
informatiche legate al mondo dello spettacolo, dell’editoria
e dell’informazione in genere. Lo straordinario dispiegamento
di forze della contemporaneità non ha modificato poi troppo
lo stato “essenziale” delle cose. Un pugno di
scrittori, non personalmente in contatto tra loro, ma uniti da un
comune sentire (Robert Louis Stevenson, Alexandre Dumas, Jules Verne &
co.), e nei quali Salgari a suo modo si riconosceva, mirava
al futuro, alla riproducibilità dei testi e delle immagini,
alla grande democrazia dei lettori, aliena alle aristocrazie delle
accademie. Riproducibilità e potenza dell’immagine
sancivano l’uscita della letteratura dalla ristrettezza,
dalla riservatezza e dalla settaria esclusività dei circoli.
Una vera e mirabile rivoluzione con cui ancor oggi dobbiamo fare i
conti.
Per essere convinti della potenziale ‘cinematograficità’ di Salgari – e qui chiudiamo – invitiamo a leggere un passo da Il Re dell’Aria, in cui lo Sparviero, portentosa macchina volante, plana sul mare al largo dell’isola di Sakalin, in una giornata umida e caliginosa:
Una massa nera scendeva dal cielo, agitando rapidamente due immense ali e portando, lungo i suoi fianchi, disposti in senso orizzontale, due traverse di dimensioni gigantesche.
Pareva un enorme uccellaccio, d'una struttura nuova, scendente sul mare.
– È meraviglioso – mormorava Boris, che non staccava un solo istante i suoi sguardi dallo Sparviero, il quale ingrandiva a vista d'occhio. – Quel Ranzoff è riuscito dunque a strappare ai volatili il segreto della loro vertiginosa direzione?
– Non ti stupire così presto – disse Wassili. – Vedrai ben altre meraviglie, quando noi fileremo attraverso la Siberia colla velocità dei condor e delle aquile. Pronti amici: agganciare forte la scialuppa.
La macchina volante era discesa sul mare e s'avanzava verso la scialuppa sfiorando quasi le onde.
Giunta a dieci o dodici metri si fermò quasi di colpo, lasciando cadere le enormi ali e le traverse e si coricò dolcemente sull'acqua, lasciandosi dondolare dai piccoli cavalloni che s'avanzavano attraverso lo stretto di Tartaria.
Sembrava un piccolo vascello in riposo, in attesa d'un colpo di vento favorevole per riprendere la corsa, avendo la sua parte principale o meglio vitale, la forma d'un lunghissimo fuso arrotondato nella sua parte inferiore e perciò in grado di reggersi benissimo anche sull'acqua
(Salgari, 2002, pp. 58-59).
LETTURE
× Abruzzese A., La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, Roberto Napoleone, Roma, 1979 e poi Luca Sossella, Roma, 2007.
× Benjamin W., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936, trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
× Salgari E., Il Re dell'Aria, Firenze. Bemporad, 1907; Fabbri, Milano, 2002.