Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline


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  [ISTANBUL]
di
Fiorenza Gamba


Nel libro, infatti, si trova anche la tormentata e triste poeticità, derivante dalla consapevolezza della continua oscillazione tra occidentalizzazione e tradizione, di autori nazionali come Yahya Kemal, il poeta più grande e più importante di Istanbul, o Ahmet Rasim, scrittore e giornalista che in Lettere della città e Lettere del Ramadan descrive la vita urbana quotidiana.
Si ritrova in questa autobiografia a più strati una sensibilità acuta per la storia della città, la quale ha imposto alla stessa quella tristezza incancellabile che trasuda dalle pagine del libro ed è legata irrimediabilmente alla trasformazione della Costantinopoli ottomana nella metropoli turca Istanbul razionalizzata da Atatürk. C’è una cartografia minuziosa dei quartieri della città e della loro trasformazione urbanistica, sia che si declini come selvaggia espansione urbanistica  sia che si concentri sul declino culturale e materiale delle ville di legno sul Bosforo, che negli anni Cinquanta, prima di ridiventare un patrimonio da recuperare, venivano lasciate bruciare davanti agli occhi, insieme curiosi e indifferenti, degli abitanti della città.
Ma tutti questi frammenti, che accarezzano la superficie di Istanbul, anzi, delle diverse Istanbul che si sono succedute nel tempo, vanno a comporre un immaginario della città in cui la memoria di Pamuk colloca la sua storia familiare e la sua infanzia, così come le relazioni sociali e i momenti importanti della città. Così l’infanzia nel palazzo di famiglia è il quartiere di Nişantaşi, le passeggiate in tram con la madre sono il percorso che va dalla piazza di Taksim alla torre di Galata, il fallimento economico del padre è la casa a Cihangir, il divertimento della giovinezza fatto di cinema e dei chioschi di cozze fritte e di ayran è Beyoğlu.
Pamuk pratica una psicogeografia che consegna al lettore una mappa affettiva della città secondo quella modalità di esteriorizzazione di cui abbiamo appreso le dinamiche e l’importanza grazie a Walter Benjamin (Benjamin 2007). E se l’immagine che più si diffonde in una città è, come scrive l’autore, quella creata dai suoi abitanti, l’immagine in bianco e nero di Istanbul, velata di tristezza, risplende della stessa tristezza di Pamuk e di quella di chi come lui – ad esempio i quattro scrittori tristi e solitari (p. 106) – ha vissuto, scritto e amato una città che è rimasta sconfitta, dove tutto è lacunoso e insufficiente e che, proprio per queste ragioni, consente una perfetta osmosi tra le diverse tristezze. Ma tutta la forza e il lirismo del ritratto di Istanbul attraverso i ricordi che ci offre Pamuk, sta proprio nel precario equilibrio, sempre sul punto di infrangersi tra disagio e amore incondizionato; tra la tristezza delle rovine, fatta di luoghi incendiati, di muri crollati, di legno marcito, di strade sporche, e l’amore per la complessità della città che deriva proprio dalla sua insufficienza e dalla sua incompiutezza.


 
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