Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
NAPOLI
BARCELLONA
MILANO
LONDRA
TRIESTE
ISTANBUL
GARWAL
DENVER
ORTA SAN GIULIO
MIAMI
BOMARZO
GIZA
|
|
[MILANO]
di Francesco Zago
“… la metropoli, luogo centrale della
poesia moderna,
diventa in Fargue la mappa di percorsi visionari,
di camminate instancabili alla ricerca di niente”
(Pontiggia,
2005, p. 156).
Sono parole tratte da una recensione di Giuseppe
Pontiggia, apparsa nel 1981 sul “Corriere della
Sera”, di un volume di poesie di Léon-Paul Fargue,
poi ripubblicata nel Giardino delle Esperidi con il
titolo di La grande sera. È come se lo
scrittore, celato dietro i panni del recensore, volesse dirci: Fargue
sta a Parigi come Pontiggia sta alla Milano della Grande sera,
l’ “interlocutrice muta”, la
“scenografia mobile” del romanzo. È lo
scrittore stesso a fornirci obliquamente una chiave di lettura,
parlando di “archeologia del presente”,
di “vetrificazione del mondo in una collezione di parole, in
cui si rifletta l’emozione di essere esistiti”. E
ciò che Pontiggia dice di Fargue si potrebbe tranquillamente
dire del suo stile, fatto di “frasi brevi e di rinunce, di
allusioni e di silenzi, di reticenza e di precisione”
(Pontiggia, 2005, p.157). Da tempo teatro di molti noir,
Milano sembra pure lo scenario ideale dei “gialli”
(mai virgolette furono più necessarie) di Pontiggia. Nel Raggio
d’ombra, e ancor più
nella Grande sera, il “crimine”
assume contorni vaghi, metafisici, e si traduce nell’enigma.
Immancabilmente, il personaggio chiave è
“assente”: indecifrabile e sfuggente, come nel Raggio,
o di fatto irreperibile, come nella Grande sera.
L’investigazione, anziché “assicurare
alla legge il colpevole”, finisce per mettere in luce
l’opposto, ossia l’insolubilità
dell’enigma. È proprio Pontiggia che scrive, a
proposito di un maestro di enigmi, J. L. Borges: “Niente
è meno misterioso che la soluzione del mistero”. La
città si trasforma in una mappa mentale a più
livelli, inscatolati l’uno dentro l’altro:
“… un reticolo di indirizzi, di portoni chiusi o
spalancati, di rampe di scale” (Pontiggia, 1988, p. 83). La
Milano disegnata da Pontiggia appare più austera di quella,
per fare due esempi altrettanto illustri, di Scerbanenco, che vi vede
un teatro di cronaca nera, descritto con la freddezza burocratica dei
rapporti della questura o dei quotidiani della sera, o di Buzzati, come
nell’inferno delle Solitudini (Buzzati,
1966), nei vicoli gotici e cupamente fiabeschi di Un
amore (Buzzati, 1963) o nell’ossessione per i
condomini “dove succedono tante cose”.
L’autore della Grande sera, al contrario,
predilige albe e crepuscoli, preferisce lo svanire della luce alla
notte piena, il ricomporsi delle sfumature alla pienezza (o, viceversa,
all’assenza) del colore.
|