Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[TRIESTE]
di Daniela Fabro
“A
Trieste, ove son tristezze molte
E bellezze di
cielo e di contrada
C’è
un’erta che si chiama via del Monte…”
Umberto Saba, Trieste, da Trieste e una
donna, 1910-1912
E su per quella strada ripida si arriva al
Castello di San Giusto. Ma è l’itinerario,
più che la meta, a interessare Saba, perché
intorno a via del Monte ci sono le lapidi del cimitero ebraico e quelle
dei caduti della Prima guerra mondiale. Camposanti che assumono un
aspetto ancora più sinistro in questa città, per
la quale entrambe le tragedie, la Grande Guerra, con i suoi milioni di
inutili morti, e quella successiva dell’Olocausto, hanno un
significato particolare. Una storia molto contrastata, dalla
sottomissione all’Impero asburgico ai martiri dell’
irredentismo, dalla lotta tra fascisti e partigiani di Tito, con il
tragico corollario delle foibe, al dramma dei profughi
istriani, ha fatto di Trieste – nota soprattutto per essere
stata, all'inizio del secolo scorso, uno dei crocevia della cultura
mitteleuropea – il cuore italiano che più batte
per la nazione. E a poco è valsa l’intelligente
bonifica della psicologia individuale del triestino tipico,
metà italiano e metà tedesco, da cui lo
pseudonimo Italo Svevo, di una delle pietre miliari del romanzo dei
primi del Novecento, quella Coscienza di Zeno che
fa piazza pulita di tutte le disfunzioni
dell’identità, su cui campano gli psichiatri, con
l’arma del sorriso. Affascinante e
misterioso come tutte le città di mare, ma posto
sull’estremo confine orientale della Penisola, il capoluogo
giuliano si è sempre trovato a dover fronteggiare quelli
che, con buona pace di tutte le singole individualità, siamo
soliti chiamare gli altri, e che rappresentano invece
null’altro, secondo Igor Sibaldi, che la nostra
auto-costrizione. Preferendo ad un certo punto, come tutti i troppo
sensibili, ammalarsi e morire, piuttosto che disturbare. Così,
anche se aveva detenuto un ruolo economico e sociale di primo piano
negli anni della dominazione di Francesco Giuseppe, perché
unico porto, sull’Adriatico, dell’Impero
austroungarico, nel 1915-1918 rivendicò a viva forza la sua
italianità. E, pur ottenendola, ne uscì sconfitto
per l’enorme tributo di sangue di quel terribile massacro per
affrontare il quale non erano preparati i soldati, ma soprattutto
inadeguati i comandi.
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