di Fiorenza Gamba
Niente risulta essere più lontano dalle immagini da
cartolina, fatte di elaborati ed armonici accordi cromatici, alle quali
il turismo di massa ci ha ormai assuefatti, della Istanbul raccontata
da Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura e cittadino di
Istanbul. Non vi si ritrova, infatti, il blu dell’omonima
moschea, né i contrasti lucidi degli azzurri e dei rossi
delle ceramiche di Iznik. Così come mancano del tutto
l’oro abbagliante del Palazzo Topkapi e lo sfolgorio del Gran
Bazar. E ancora meno vi si può percepire la luce umida e
suggestiva della Grande Cisterna. Il viaggiatore occidentale,
consumatore di una vista preconfezionata e tutto
sommato forzata della millenaria porta dell’oriente,
non potrà riconoscere nelle pagine dell’autore la
città frettolosamente sfogliata nella
corsa frenetica alla ricerca di un altrove, di un esotismo ormai sempre
più difficile da localizzare (Kracauer, 1996). Il libro di
Pamuk, come ricorda il sottotitolo I ricordi e la
città, tiene insieme la struttura della
città, le cui trasformazioni hanno avuto luogo in condizioni
urbanisticamente, storicamente e politicamente complesse, e i ricordi
– personali e corali – sulla e della
città. In questo senso ci si trova di fronte ad un vero e
proprio trattato sulla memoria, in cui le interazioni tra i diversi
tipi, come gia indicato da Halbwachs, determinano quei
“quadri sociali” che definiscono il ricordo
individuale e privato in maniera del tutto dipendente da quello
sociale, collettivo, pubblico (Halbwachs, 1994 e 1997). Il fil
rouge che tiene insieme i ricordi è la memoria di Orhan
bambino, che nel dipanarsi del racconto diventa adolescente, giovane
pittore di belle speranze e, finalmente, approda alla consapevolezza di
non potere essere altro che uno scrittore. È grazie a questa
raccolta di ricordi, propri ed altrui, che affiora a poco a poco la sua
Istanbul. In questo senso la città è un
caleidoscopio di immagini che prendono la forma di racconto, ma anche
di disegni – non a caso un capitolo del libro è
dedicato e riproduce i panorami del Bosforo di Melling – e di
fotografie, le quali, provenienti in gran parte dall’archivio
personale dell’autore e da quello di Arä
Güler a Beyoğlu, costituiscono la struttura emotiva del testo,
i punti di snodo attivatori dei ricordi. Si trova, nel libro
di Pamuk, una personale ricostruzione letteraria di Istanbul,
risultante dalle sue letture, dalle sue curiosità, ma anche
dalle sue identificazioni letterarie. Non solo quindi, lo sguardo
occidentale su Istanbul così come lo hanno restituito
Gustave Flaubert, con le sue descrizioni del freddo e dei cimiteri,
Téophile Gautier, con la malinconica scoperta dei sobborghi
poveri e sporchi, ma anche delle moschee, dell’ippodromo e
del Palazzo Topkapi, Gérard de Nerval, che nel suo Viaggio
in Oriente passeggia a Beyoğlu per quella che sarebbe
diventata, dopo la Repubblica, Istiklal, la via principale che arriva
fino alla piazza Taksim, o Edmondo De Amicis (secondo Pamuk, autore del
libro occidentale più approfondito e completo sulla
città). Nel libro, infatti, si trova anche la tormentata e
triste poeticità, derivante dalla consapevolezza della
continua oscillazione tra occidentalizzazione e tradizione, di autori
nazionali come Yahya Kemal, il poeta più grande e
più importante di Istanbul, o Ahmet Rasim, scrittore e
giornalista che in Lettere della città e
Lettere del Ramadan descrive la vita urbana
quotidiana. Si ritrova in questa autobiografia a
più strati una sensibilità acuta per la storia
della città, la quale ha imposto alla stessa quella
tristezza incancellabile che trasuda dalle pagine del libro ed
è legata irrimediabilmente alla trasformazione della
Costantinopoli ottomana nella metropoli turca Istanbul razionalizzata
da Atatürk. C’è una cartografia minuziosa
dei quartieri della città e della loro trasformazione
urbanistica, sia che si declini come selvaggia espansione
urbanistica sia che si concentri sul declino culturale e
materiale delle ville di legno sul Bosforo, che negli anni Cinquanta,
prima di ridiventare un patrimonio da recuperare, venivano lasciate
bruciare davanti agli occhi, insieme curiosi e indifferenti, degli
abitanti della città. Ma tutti questi frammenti,
che accarezzano la superficie di Istanbul, anzi, delle diverse Istanbul
che si sono succedute nel tempo, vanno a comporre un immaginario della
città in cui la memoria di Pamuk colloca la sua storia
familiare e la sua infanzia, così come le relazioni sociali
e i momenti importanti della città. Così
l’infanzia nel palazzo di famiglia è il quartiere
di Nişantaşi, le passeggiate in tram con la madre sono il percorso che
va dalla piazza di Taksim alla torre di Galata, il fallimento economico
del padre è la casa a Cihangir, il divertimento della
giovinezza fatto di cinema e dei chioschi di cozze fritte e di ayran
è Beyoğlu. Pamuk pratica una psicogeografia che
consegna al lettore una mappa affettiva della città secondo
quella modalità di esteriorizzazione di cui abbiamo appreso
le dinamiche e l’importanza grazie a Walter Benjamin
(Benjamin 2007). E se l’immagine che più si
diffonde in una città è, come scrive
l’autore, quella creata dai suoi abitanti,
l’immagine in bianco e nero di Istanbul, velata di tristezza,
risplende della stessa tristezza di Pamuk e di quella di chi come lui
– ad esempio i quattro scrittori tristi e solitari
(p. 106) – ha vissuto, scritto e amato una città
che è rimasta sconfitta, dove tutto è lacunoso e
insufficiente e che, proprio per queste ragioni, consente una perfetta
osmosi tra le diverse tristezze. Ma tutta la forza e il lirismo del
ritratto di Istanbul attraverso i ricordi che ci offre Pamuk, sta
proprio nel precario equilibrio, sempre sul punto di infrangersi tra
disagio e amore incondizionato; tra la tristezza delle rovine, fatta di
luoghi incendiati, di muri crollati, di legno marcito, di strade
sporche, e l’amore per la complessità della
città che deriva proprio dalla sua insufficienza e dalla sua
incompiutezza. E ancora, tra il senso di appartenenza totale alla
città e la contemporanea sensazione di
estraneità, la stessa che permette di descriverla e di vederla
così intensamente. Non è forse un caso
che sia ancora un luogo della città a indicare questa
fragilità, intesa non come debolezza, ma come categoria
interpretativa della paradossale condizione postmoderna (Sloterdijk
2006). Il Bosforo, infatti, incarna questo fragile equilibrio
resistendo al trascorrere del tempo, infatti “… il
Bosforo – scrive Pamuk – in tutti questi anni non
è mai cambiato: per me lo stretto è una fonte di
speranza e di ottimismo senza fine, che tiene in piedi la vita della
città e dà salute e ristoro agli
uomini.” (p. 61). In questo breve passaggio
è svelato, in tutta la sua bellezza, il legame di Pamuk con
la sua città. Si manifesta qui quella poetica della
città che Pierre Sansot ci ha abituati a vedere.
Ciò sottolinea un doppio e profondo legame: se da un lato la
città è il prodotto dei suoi abitanti, delle loro
azioni, dei loro sogni e delle loro disillusioni, dall’altro
l’uomo è generato dalla città,
è il suo prodotto, suo figlio (Sansot 1973). Tale legame di
carne e di suolo, di immagini e ricordi, di desideri e azioni, di
pensieri e sensazioni, conferma, se ancora fosse necessario, che la
vita dell’uomo – l’essere che abita
geograficamente (Berque 2000) – assume il proprio senso nelle
strade e nei percorsi della città. Per Pamuk:
Contemplare
i paesaggi della città vuol dire unire le proprie sensazioni
alle immagini di Istanbul quando si passeggia per le strade o si gira
con i battelli: vuol dire poter accordare il proprio stato
d’animo ai panorami che la città offre. E tale
operazione, se fatta con naturalezza e sincerità, conduce a
unire, nella propria memoria, le immagini della città ai
sentimenti più profondi e sinceri, al dolore, alla tristezza
e di tanto in tanto alla felicità, alla gioia di vivere e
all’ottimismo. Se impariamo a guardare una città
in questo modo, e se ci viviamo così a lungo da trovare
l’occasione di unire in un legame stabile i
panorami ai nostri sentimenti più veri e profondi, dopo un
po’ – proprio come succede con alcune canzoni che
ci riportano alla memoria determinati ricordi, amanti, delusioni
– le strade, le immagini, i paesaggi della nostra
città si trasformano, uno dopo l’altro, in
realtà ci fanno ricordare alcuni nostri sentimenti e stati
d’animo. (pp. 338-340).
Noi non possiamo far altro, affascinati dalla lettura e da
Istanbul, che immergerci, seguendo l’autore, nella magia
della città.
:: letture ::
— Benjamin W.,
Das passagen-Werk, 1982, I passages di Parigi,
Torino, Einaudi, 2007.
— Berque A., Écoumène.
Introduction à l’étude des milieux
humains, Paris, Belin, 2000.
— Kracauer S., Le voyage et la danse, Paris,
PUV, 1996.
— Halbwachs M., Les cadres sociaux de la
mémoire, 1925, I quadri sociali della
memoria, Ipermedium, Napoli, 1996.
— Halbwachs M., La mémoire collective,
1949, La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 2001.
— Pamuk O., ?stanbul: Hat?ralar ve ?ehir,
2003, Istanbul. I ricordi e la città,
Torino, Einaudi, 2006.
— Sansot P., Poétique de la ville,
Paris, Klincksieck, 1973.
— Sloterdijk P. (2003), Écumes,
Sphères III, Paris, Hachette, 2006.
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