[ conversazioni ]
Gillo Dorfles, un flâneur
della contemporaneità
di Antonello Tolve
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rieste, 10 aprile 1910. Sono il
luogo e la data che indicano una nascita.
Quella di Gillo Dorfles. Personalità – dallo spirito mitteleuropeo – tra le più straordinarie del secondo Novecento. Dorfles, lo sappiamo, è una figura poliedrica. Egli è pittore e scultore, musicista, critico e teorico dell’arte, psichiatra ed estetologo (per citare soltanto alcuni dei campi nei quali il suo pensiero si è dislocato). Amante, tra l’altro, delle buone maniere. E non dimentichiamo “critico del gusto” che è l’indicazione a cui più tiene. Flâneur della contemporaneità, Dorfles è una persona il cui rarissimo sguardo ci aiuta a vedere conoscere e capire i problemi socio-antropologici (e non solo) del nostro tempo; un tempo in cui bisogna ritornare a quell’intervallo necessario della vita quotidiana, che è interruzione critica rispetto alle cose del mondo. Il dialogo inedito che segue, nasce da un incontro avvenuto a Milano. Comincerei con quello che dichiara in un’intervista rilasciata a Eugenio Miccini nel 1985. Lei dice che è, fondamentalmente, un “autodidatta”; pertanto ha “autodidatticamente” apprese alcune nozioni filosofiche senza esserne impigliato o appressato. E questo ha dato vita alla sua propria teoria estetica. Le andrebbe di delineare alcune linee che hanno dato vita a questo suo pensiero?
Credo che parlare del mio pensiero estetico sia un
po’ difficile anche perché non penso di
rappresentare nell’estetica contemporanea una voce decisiva.
Quello che posso dire è che la mia formazione filosofica è anomala; cioè io mi sono presentato alla libera docenza in estetica senza aver fatto le solite trafile. Sono partito decisamente da quella che possiamo chiamare una filosofia fenomenologica. Anche perché, essendo molto amico di Enzo Paci, e avendo con lui fondato la rivista Aut-Aut, la filosofia che più ci interessava in quel periodo era la filosofia di Husserl, di Heidegger, quindi praticamente una filosofia post-idealistica vicina alla fenomenologia da un lato e, per conto mio, vicino anche alla psicologia e alla psicanalisi. Ernst Gombrich e Rudolf Arnheim – del quale ha tradotto nel 1962 per Feltrinelli Art and visual perception. A psycology of the creative eye. Quanto hanno influito le loro linee psicologiche nel suo lavoro critico?
Naturalmente io ho guardato con molto interesse il lavoro di
Gombrich che, effettivamente, era abbastanza vicino al mio. E devo dire
che, per quello che riguardava soprattutto la critica,
l’impostazione psicologica, psicoanalitica e percettivistica,
per conto mio è stata sempre molto importante.
Un mio amico, e forse anche il più importante percettologo italiano, cioè Gaetano Kanizsa, che è stato anche mio collega a Trieste, ha influenzato abbastanza il mio sistema critico: e cioè quello di dare molta importanza all’aspetto percettologico. Nel suo lavoro sono sempre vive e presenti analisi sociologiche e antropologiche. Queste due categorie metodologiche sono altrettanto importanti?
L’antropologia per conto mio è una delle
basi dell’estetica. Difatti nel mio libro L’intervallo
perduto (1980) io ho fatto specificare in sopracoperta che si
trattava di un testo di estetica antropologica
proprio perché penso che sempre di più
è importante che l’estetica non sia esclusivamente
una branca filosofica tanto più che, dai veri filosofi,
è considerata come qualcosa di poco filosofico; e invece
è fondamentale una base psicologica, antropologica, per
l’approccio all’opera d’arte.
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photographs courtesy Enrico Grieco Non c’è dubbio che, sia creativamente che tecnicamente, un’opera d’arte ha bisogno di uno strumentario psico-antropologico. Passiamo alla semiotica. Pensa che un corretto studio semiologico possa svolgere appieno la lettura di un’opera d’arte?
Certo. La semiotica è stata una disciplina che ha
avuto un grande sviluppo una ventina d’anni fa e ha in un
certo senso influenzato quella che era la critica degli ultimi tempi.
Tuttavia un’interpretazione puramente semiologica
dell’opera d’arte credo sia insufficiente,
perché in fondo è utile per distinguere quello
che è l’approccio soggettivo e oggettivo di
un’opera d’arte però non basta per
creare una comprensione dell’opera d’arte. Anzi
direi che uno dei difetti della semiotica è quello di creare
delle distinzioni nette significato/significante, sia da un punto di
vista saussurreiano che da un punto di vista, poi, greimassiano il
ché poi finisce per “isterilire” una
visione diretta dell’opera d’arte.
C’è un concetto che ritorna spesso nel suo pensiero – e nelle sue opere. È quello di “processo”, di processualità, di fasi di lavoro che portano alla germinazione dell’opera. Mi chiedevo: quanto hanno inciso nella sua attività artistica, teorica e critica le linee-guida della Scuola di Progettazione di Weimar?
Parlare dell’atto creativo quando ci si riferisce
alla propria opera è molto complicato.
Anzi io in un certo senso sono nemico di tutti quegli artisti che fanno delle lunghissime disquisizioni pseudo-filosofiche sulle loro opere col ché non chiariscono un bel niente. Quindi credo molto a un approccio creativamente diretto senza una arrière pensée psicologica o filosofica. In altre parole credo che la creazione artistica, soprattutto nel campo della pittura, della scultura, delle arti visive, debba essere molto istintiva pertanto legata più all’istinto che al ragionamento cosa che naturalmente è molto diversa nell’opera letteraria o nell’opera musicale dove la razionalizzazione del pensiero creativo è indispensabile. Tanto più che, per quello che mi riguarda personalmente, la mia produzione artistica non è mai razionalizzata ossia, in quello che intendo fare c’è sempre qualcosa di spontaneo, di legato all’istinto; non voglio tirare in ballo l’inconscio perché sarebbe troppo facile ma indubbiamente sono degli elementi istintivi, patetici o patologici anche che però non sono razionalizzati. Il giorno in cui siano razionalizzati perdono la loro carica espressiva. |
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