[ conversazioni ]
Gillo Dorfles, un flâneur della contemporaneità di Antonello Tolve |
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Fenomenologia, semiotica, psicoanalisi, antropologia, sociologia. Quali di queste posizioni teoriche e metodologiche continuano, oggi, ad essere importanti, secondo il suo parere, per dispiegare un’opera d’arte? Ci sono alcune tappe fondamentali che continuano a valere. Un
autore come Gombrich, che abbiamo nominato prima, secondo me
è ancora un autore che ha un’estrema importanza.
Alcune teorie come quelle diciamo della informazione – tipo Max Bence – sono, direi, un pochino decadute proprio per la loro teoricità eccessiva. E poi naturalmente ci sono le teorie analitiche che indubbiamente hanno influenzato moltissimo l’arte contemporanea, soprattutto la pittura, per cui ancora oggi un’analisi che abbia la sua base se non l’intera teoria ma alcuni punti salienti della psicoanalisi – sia freudiana che lacaniana – hanno un’importanza notevole per un’analisi dell’opera d’arte. Milano, Trieste, Roma, Genova, Napoli che lei definisce “il cervello d’Italia”. Qual è stato il rapporto con queste città? Queste città che ha citato sono, indubbiamente,
quelle che mi erano più familiari. Trieste, Genova, Milano,
Napoli, anche Cagliari, dove ho passato parecchi anni
nell’Università.
Devo dire che ognuna di queste città ha delle caratteristiche sue specifiche. Per quanto riguarda il mio rapporto con Napoli è sempre stato molto vivo e, tra le varie città, non è una scoperta, Napoli è effettivamente tra le più intelligenti e creative d’Italia: lo è stato e credo che continui ad esserlo. Il mio rapporto con le diverse popolazioni di queste città è stato diverso proprio perché queste popolazioni sono molto diverse. La mancanza di espansività dei liguri di fronte alla maggiore espansività dei napoletani o anche dei palermitani, la riservatezza e anche la minor fantasiosità dei cagliaritani, la superficialità ma anche la vivacità dei triestini. Certo, detta così, in poche parole, naturalmente, è una assurdità, ma ognuna di queste città ha una sua caratteristica ed è, oltretutto, quello che rende l’Italia, nel suo insieme, così interessante; di essere appunto estremamente diversa nelle sue diverse regioni. Passiamo a Salerno. Penso subito al suo rapporto di amicizia con Filiberto Menna. In un intervista rilasciata a Marco Di Capua nel 1989 ha detto “Con Menna ero d’accordo su quasi tutto, e quando non lo ero riconoscevo comunque la sua intelligenza”. Le andrebbe di descrivere alcune linee questo suo rapporto con Filiberto Menna? A parte l’amicizia, per cui la sua scomparsa mi ha
colpito molto, devo dire che io Filiberto lo consideravo veramente una
delle persone più intelligenti, più creativamente
intelligenti d’Italia. E anche la sua critica mi convinceva
moltissimo. La sua Linea analitica (1975)
è un libro ancora oggi fondamentale.
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Non solo, ma credo d’averlo detto qualche volta: “Filiberto è l’unica persona con cui abbiamo fatto insieme quella che io considero una delle mostre più interessanti degli anni Settanta”. Una mostra che si chiamava al di là della pittura, a San Benedetto del Tronto. Una mostra dove sono state esposte anche, per la prima volta, delle installazioni, delle ambientazioni che allora non erano ancora diventate di moda. C’erano opere che andavano da Piero Dorazio a Enrico Castellani, da Carlo Alfano a Mario Schifano ecc. poi c’erano parecchi napoletani. Artisti che allora, in fondo, contavano, e che erano i più interessanti. È stata una delle mostre fondamentali di quell’epoca. E credo solo con Filiberto avrei potuto fare una mostra del genere, tanto è vero che quando mi fu chiesto di fare la mostra da Amatucci, un critico molto bravo di Ascoli Piceno, io dissi: “sì, la faccio, a parte che ci sia anche Filiberto”. Proprio per avere due visioni diverse ma concordi. Passiamo alle sue pubblicazioni. Nel 1951 pubblica il Discorso tecnico delle arti. In questo suo Discorso, in cui combatte e abbandona la linea idealista crociana (allora alla moda), lei parte da una frase di Johann Wolfgang von Goethe: “L’arte è una mediatrice dell’ineffabile, perciò sembra una stoltezza il volerla nuovamente trasmettere con le parole”. È sintomatico che questo suo Discorso parta dalla poesia. E mi chiedevo dunque: Gillo Dorfles nasce dalla poesia? E quale importanza presta Gillo Dorfles alla poesia? Naturalmente qui bisognerebbe fare tutto un catalogo delle
arti; un rapporto tra le diverse arti, cosa sempre molto pericolosa. La
poesia direi che è una delle arti fondamentali. Ovviamente
da sempre è stata realizzata dall’uomo, come del
resto anche la pittura; dai primi graffiti in poi l’uomo ha
da sempre cercato di dipingere e di poetare. Però non darei
una prevalenza all’una piuttosto che all’altra;
dipende da quella che è la sensibilità
dell’artista insomma. Quindi non credo che si possa dire
“viene prima la poesia, poi la pittura” o,
“prima la musica e poi la scultura”. Ogni arte ha
la sua caratteristica e credo che succeda molto spesso che un grande
poeta è completamente “sordo” alla
musica o alla pittura o, viceversa, che un pittore non capisce niente
di musica. E questo avviene molto frequentemente.
Pensa che “ipotizzare” sia la strada migliore per ragionare di arte contemporaneità? Sì. Finché un periodo non è
esaurito è difficile riuscire a collocarlo veramente, quindi
è anche difficile dire fino a che punto arriva la
contemporaneità. Noi oggi possiamo dare uno sguardo
abbastanza obiettivo sull’Ottocento. Darlo sul Novecento
è già molto difficile. Tanto più
difficile darlo su quello che si svolge sotto i nostri occhi. Quindi
credo che sia quasi impossibile dare un giudizio veramente obbiettivo.
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