[ conversazioni ]
Gillo Dorfles, un flâneur della contemporaneità di Antonello Tolve |
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Nel 1959 pubblica Il
divenire delle arti: una sorta di rivisitazione
e continuazione del suo lavoro del 1951. Parla
spesso di durata, di “divenire” appunto
“legato alle arti”, di metamorfosi e di
“successione”, di
“oscillazione” (termine centrale in un suo libro
del 1970, Le oscillazioni del gusto, appunto), di
transitorio dell’arte e della critica. Le andrebbe di
distendere questo suo concetto basilare e sempre presente,
d’altronde, nella sua opera?
Si, precisamente, io nel Divenire delle arti
mi richiamo a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (che dei filosofi del
passato è quello più moderno) proprio per dire
che questo divenire continuo mi pare che sia veramente fondamentale non
solo per oggi, ma per tutti i tempi. Ho fatto molte volte
l’esempio del Rinascimento o del Barocco eccetera.
Cioè alla fine di ogni periodo è come se tutto
quello che è stato fatto in quel periodo fosse sbagliato
cioè c’è questa necessità di
sopprimere quello che c’è stato prima per creare
quello che deve venire dopo. Nella nostra epoca questo divenire
è ancora più evidente. Scrivendo Le
oscillazioni del gusto dicevo proprio questo: noi abbiamo
questo continuo trasformarsi sotto i nostri occhi e se non ce ne
accorgiamo non riusciamo a capire quello che sta avvenendo. Il difetto
dello storico dell’arte tradizionale è quello di
restare fermo al periodo in cui ha studiato l’arte e dopo,
ovviamente, non è stato più capace di andare
avanti.
Questo vale per gli storici dell’antichità ma vale anche per gli storici dell’arte contemporanea; quello che hanno studiato a venti, venticinque anni, quando ne hanno quaranta non lo capiscono già più. Il divenire delle arti (1959) e Ultime tendenze dell’arte d’oggi (1961) sembrano essere “opere aperte”. Opere alle quali lei ritorna continuamente. Una sorta di meditatissimo work in progress. È questo il punto? Cioè il legame di queste opere con il concetto di divenire, di nuovo, di mutamento? Sì, effettivamente, questa metamorfosi direi che
è una delle costanti non solo dell’arte di oggi ma
dell’arte di sempre. Basti pensare al trapasso dagli etruschi
ai romani, o dai greci ai romani, ai bizantini, eccetera. Questo
continuo trapasso mi pare sia una delle cose fondamentali
nell’opera d’arte; e non solo nelle arti visive ma
in tutte le arti. Quindi certo, in queste mie opere ho tenuto conto di
questo, anche quando parlo dell’Intervallo perduto
(1980), che è una delle opere alle quali tengo di
più, in fondo dico qualcosa di analogo: cioè ci
vuole sempre uno spazio tra un’opera e l’altra, ma
anche tra un’epoca e l’altra, perché ci
possa essere il superamento di questo intervallo, di questa specie di
pausa.
Quanto ha inciso – e se ha inciso – nel suo lavoro la teoria dell’evoluzione creatrice formulata da Henri Bergson? L’Evolution créatrice
è certamente un libro fondamentale. Non è che io
mi sia rifatto molto alla teoria di Bergson, ma sia Matière
et mémoire che Evolution
créatrice sono due concetti fondamentali.
Il relativismo di Bergson, il problema del déjà vu per esempio, è fondamentale in Bergson; ma anche la sua concezione del tempo credo sia un dato ancora oggi accettabile. In un certo senso mi è più vicina una filosofia come quella di Bergson che quella di Martin Heidegger tanto per fare il nome principe più amato e più detestato dei nostri tempi. Ma il suo tempo, Sein und Zeit, mi soddisfa molto meno del tempo bergsoniano. |
In passato ha centralizzato l’attenzione su Bosch (1953) e Dürer (1958). Perché proprio questi due artisti? Sono legati tra loro da un qualche pensiero di fondo? Parlare di questi due miei “peccati” di
adolescenza è sempre un po’ difficile, anche
perché allora ero agli inizi della mia attività
critica. Era un caso che mi fosse stato proposto di fare questi due
volumetti della collana di Mondadori. Li ho fatti con molto interesse
perché era la prima volta in cui studiavo, da vicino, due
artisti del passato: cosa che poi non ho mai più fatto. Ma
la ragione credo che sia abbastanza facile.
Bosch, in fondo, rappresentava il nonplusultra della fantasia e del surrealismo ante litteram nell’antichità. E non solo. Bosch mi affascinava anche per tutte le sue relazioni con l’alchimia, con i tarocchi, con queste nozioni diciamo, tra alchemico e misteriosofiche, che mi hanno sempre interessato. Per cui rappresentava una sorta di padre della misteriosofia. Dürer. Anche in Dürer c’era questo aspetto misterioso. Infondo il modo in cui lui si poneva di fronte alla prospettiva per esempio, di fronte alla Melanconia, coi simboli relativi di melanconia di Saturno, quindi di questioni astrali o astrologiche; era anche questo un problema che mi interessava allora moltissimo perché mi ero interessato molto di astrologia, di tarocchi e di questo sostrato occulto nell’opera d’arte dell’antichità e quindi anche in quella presente. Il disegno industriale e la sua estetica (1963), poi mutato in Introduzione al disegno industriale (1972) sposta fortemente la riflessione nel campo delle arti applicate. In questo ambito di studio rientrano, ovviamente, anche le sue riflessioni sulla moda. Ecco; c’è un rapporto di continuità tra questi suoi interessi con le teorie della Bauhaus? Qui siamo in un territorio diverso da quello
dell’occultismo e dell’esoterismo. Difatti siamo
nell’attualità più determinata e
determinante.
Ora, io mi sono occupato precocemente del disegno industriale e sono stato tra i primi a prenderne coscienza anche, diciamo, scientificamente; perché mi pare che sia uno dei versanti più importanti dell’arte di oggi. Insomma, quel versante dove tutto l’aspetto tecnologico, scientifico, economico del presente trova un suo quoziente estetico. Per questo mi pare che lo studio del disegno industriale, come del resto della moda, sono proprio quei punti dove c’è un incontro e un incrocio tra l’arte intesa in un senso ideale, idealistico e quindi irrealistico, e invece una coscienza della società dei nostri giorni, coi suoi pregi e i suoi difetti, dove però anche l’elemento artistico ha una sua indispensabile presenza. |
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