Trieste, 10 aprile 1910. Sono il
luogo e la data che indicano una nascita. Quella di Gillo Dorfles.
Personalità – dallo spirito mitteleuropeo
– tra le più straordinarie del secondo Novecento. Dorfles, lo sappiamo, è una figura poliedrica. Egli
è pittore e scultore, musicista, critico e teorico
dell’arte, psichiatra ed estetologo (per citare soltanto
alcuni dei campi nei quali il suo pensiero si è dislocato).
Amante, tra l’altro, delle buone maniere.
E non dimentichiamo “critico del gusto” che
è l’indicazione a cui più tiene. Flâneur della
contemporaneità, Dorfles è una persona il cui
rarissimo sguardo ci aiuta a vedere conoscere e capire i problemi
socio-antropologici (e non solo) del nostro tempo; un tempo in cui
bisogna ritornare a quell’intervallo necessario della vita
quotidiana, che è interruzione critica rispetto alle cose
del mondo. Il dialogo inedito che segue, nasce da un incontro avvenuto a Milano.
Comincerei con quello
che dichiara in un’intervista rilasciata a Eugenio Miccini
nel 1985. Lei dice che è, fondamentalmente, un
“autodidatta”; pertanto ha
“autodidatticamente” apprese alcune nozioni
filosofiche senza esserne impigliato o appressato. E questo ha dato
vita alla sua propria teoria estetica. Le andrebbe di delineare alcune
linee che hanno dato vita a questo suo pensiero?
Credo che parlare del mio pensiero estetico sia un
po’ difficile anche perché non penso di
rappresentare nell’estetica contemporanea una voce decisiva.
Quello che posso dire è che la mia formazione filosofica
è anomala; cioè io mi sono presentato alla libera
docenza in estetica senza aver fatto le solite trafile. Sono partito
decisamente da quella che possiamo chiamare una filosofia
fenomenologica. Anche perché, essendo molto amico di Enzo
Paci, e avendo con lui fondato la rivista Aut-Aut,
la filosofia che più ci interessava in quel periodo era la
filosofia di Husserl, di Heidegger, quindi praticamente una filosofia
post-idealistica vicina alla fenomenologia da un lato e, per conto mio,
vicino anche alla psicologia e alla psicanalisi.
Ernst Gombrich e Rudolf
Arnheim – del quale ha tradotto nel 1962 per Feltrinelli Art
and visual perception. A psycology of the creative eye.
Quanto hanno influito le loro linee psicologiche nel suo lavoro critico?
Naturalmente io ho guardato con molto interesse il lavoro di
Gombrich che, effettivamente, era abbastanza vicino al mio. E devo dire
che, per quello che riguardava soprattutto la critica,
l’impostazione psicologica, psicoanalitica e percettivistica,
per conto mio è stata sempre molto importante. Un mio amico,
e forse anche il più importante percettologo italiano,
cioè Gaetano Kanizsa, che è stato anche mio
collega a Trieste, ha influenzato abbastanza il mio sistema critico: e
cioè quello di dare molta importanza all’aspetto
percettologico.
Nel suo lavoro sono
sempre vive e presenti analisi sociologiche e antropologiche. Queste
due categorie metodologiche sono altrettanto importanti?
L’antropologia per conto mio è una delle
basi dell’estetica. Difatti nel mio libro L’intervallo
perduto (1980) io ho fatto specificare in sopracoperta che si
trattava di un testo di estetica antropologica
proprio perché penso che sempre di più
è importante che l’estetica non sia esclusivamente
una branca filosofica tanto più che, dai veri filosofi,
è considerata come qualcosa di poco filosofico; e invece
è fondamentale una base psicologica, antropologica, per
l’approccio all’opera d’arte. Non
c’è dubbio che, sia creativamente che
tecnicamente, un’opera d’arte ha bisogno di uno
strumentario psico-antropologico.
Passiamo alla semiotica.
Pensa che un corretto studio semiologico possa svolgere appieno la
lettura di un’opera d’arte?
Certo. La semiotica è stata una disciplina che ha
avuto un grande sviluppo una ventina d’anni fa e ha in un
certo senso influenzato quella che era la critica degli ultimi tempi.
Tuttavia un’interpretazione puramente semiologica
dell’opera d’arte credo sia insufficiente,
perché in fondo è utile per distinguere quello
che è l’approccio soggettivo e oggettivo di
un’opera d’arte però non basta per
creare una comprensione dell’opera d’arte. Anzi
direi che uno dei difetti della semiotica è quello di creare
delle distinzioni nette significato/significante, sia da un punto di
vista saussurreiano che da un punto di vista, poi, greimassiano il
ché poi finisce per “isterilire” una
visione diretta dell’opera d’arte.
C’è
un concetto che ritorna spesso nel suo pensiero – e nelle sue
opere. È quello di “processo”, di
processualità, di fasi di lavoro che portano alla
germinazione dell’opera. Mi chiedevo: quanto hanno inciso
nella sua attività artistica, teorica e critica le
linee-guida della Scuola di Progettazione di Weimar?
Parlare dell’atto creativo quando ci si riferisce
alla propria opera è molto complicato. Anzi io in un certo
senso sono nemico di tutti quegli artisti che fanno delle lunghissime
disquisizioni pseudo-filosofiche sulle loro opere col ché
non chiariscono un bel niente. Quindi credo molto a un approccio
creativamente diretto senza una arrière
pensée psicologica o filosofica. In altre parole
credo che la creazione artistica, soprattutto nel campo della pittura,
della scultura, delle arti visive, debba essere molto istintiva
pertanto legata più all’istinto che al
ragionamento cosa che naturalmente è molto diversa
nell’opera letteraria o nell’opera musicale dove la
razionalizzazione del pensiero creativo è indispensabile.
Tanto più che, per quello che mi riguarda personalmente, la
mia produzione artistica non è mai razionalizzata ossia, in
quello che intendo fare c’è sempre qualcosa di
spontaneo, di legato all’istinto; non voglio tirare in ballo
l’inconscio perché sarebbe troppo facile ma
indubbiamente sono degli elementi istintivi, patetici o patologici
anche che però non sono razionalizzati. Il giorno in cui
siano razionalizzati perdono la loro carica espressiva.
Fenomenologia,
semiotica, psicoanalisi, antropologia, sociologia. Quali di queste
posizioni teoriche e metodologiche continuano, oggi, ad essere
importanti, secondo il suo parere, per dispiegare un’opera
d’arte?
Ci sono alcune tappe fondamentali che continuano a valere. Un
autore come Gombrich, che abbiamo nominato prima, secondo me
è ancora un autore che ha un’estrema importanza.
Alcune teorie come quelle diciamo della informazione
– tipo Max Bence – sono, direi, un pochino decadute
proprio per la loro teoricità eccessiva. E poi naturalmente
ci sono le teorie analitiche che indubbiamente hanno influenzato
moltissimo l’arte contemporanea, soprattutto la pittura, per
cui ancora oggi un’analisi che abbia la sua base se non
l’intera teoria ma alcuni punti salienti della psicoanalisi
– sia freudiana che lacaniana – hanno
un’importanza notevole per un’analisi
dell’opera d’arte.
Milano, Trieste, Roma,
Genova, Napoli che lei definisce “il cervello
d’Italia”. Qual è stato il rapporto con
queste città?
Queste città che ha citato sono, indubbiamente,
quelle che mi erano più familiari. Trieste, Genova, Milano,
Napoli, anche Cagliari, dove ho passato parecchi anni
nell’Università. Devo dire che ognuna di queste città ha delle
caratteristiche sue specifiche. Per quanto riguarda il mio rapporto con
Napoli è sempre stato molto vivo e, tra le varie
città, non è una scoperta, Napoli è
effettivamente tra le più intelligenti e creative
d’Italia: lo è stato e credo che continui ad
esserlo. Il mio rapporto con le diverse popolazioni di queste
città è stato diverso proprio perché
queste popolazioni sono molto diverse. La mancanza di
espansività dei liguri di fronte alla maggiore
espansività dei napoletani o anche dei palermitani, la
riservatezza e anche la minor fantasiosità dei cagliaritani,
la superficialità ma anche la vivacità dei
triestini. Certo, detta così, in poche parole, naturalmente,
è una assurdità, ma ognuna di queste
città ha una sua caratteristica ed è, oltretutto,
quello che rende l’Italia, nel suo insieme, così
interessante; di essere appunto estremamente diversa nelle sue diverse
regioni.
Passiamo a Salerno.
Penso subito al suo rapporto di amicizia con Filiberto Menna. In un
intervista rilasciata a Marco Di Capua nel 1989 ha detto “Con
Menna ero d’accordo su quasi tutto, e quando non
lo ero riconoscevo comunque la sua intelligenza”. Le andrebbe
di descrivere alcune linee questo suo rapporto con Filiberto Menna?
A parte l’amicizia, per cui la sua scomparsa mi ha
colpito molto, devo dire che io Filiberto lo consideravo veramente una
delle persone più intelligenti, più creativamente
intelligenti d’Italia. E anche la sua critica mi convinceva
moltissimo. La sua Linea analitica (1975)
è un libro ancora oggi fondamentale. Non solo, ma credo
d’averlo detto qualche volta: “Filiberto
è l’unica persona con cui abbiamo fatto insieme
quella che io considero una delle mostre più interessanti
degli anni Settanta”. Una mostra che si chiamava al
di là della pittura, a San
Benedetto del Tronto. Una mostra dove sono state esposte anche, per la
prima volta, delle installazioni, delle ambientazioni che allora non
erano ancora diventate di moda. C’erano opere che andavano da
Piero Dorazio a Enrico Castellani, da Carlo Alfano a Mario Schifano
ecc. poi c’erano parecchi napoletani. Artisti che allora, in
fondo, contavano, e che erano i più interessanti. È stata una delle mostre fondamentali di
quell’epoca. E credo solo con Filiberto avrei potuto fare una
mostra del genere, tanto è vero che quando mi fu chiesto di
fare la mostra da Amatucci, un critico molto bravo di Ascoli Piceno, io
dissi: “sì, la faccio, a parte che ci sia anche
Filiberto”. Proprio per avere due visioni diverse ma concordi.
Passiamo alle sue
pubblicazioni. Nel 1951 pubblica il Discorso tecnico delle
arti. In questo suo Discorso, in cui
combatte e abbandona la linea idealista crociana (allora alla moda),
lei parte da una frase di Johann Wolfgang von
Goethe: “L’arte è una
mediatrice dell’ineffabile, perciò sembra una
stoltezza il volerla nuovamente trasmettere con le parole”.
È sintomatico che questo suo Discorso
parta dalla poesia. E mi chiedevo dunque: Gillo Dorfles nasce dalla
poesia? E quale importanza presta Gillo Dorfles alla poesia?
Naturalmente qui bisognerebbe fare tutto un catalogo delle
arti; un rapporto tra le diverse arti, cosa sempre molto pericolosa. La
poesia direi che è una delle arti fondamentali. Ovviamente
da sempre è stata realizzata dall’uomo, come del
resto anche la pittura; dai primi graffiti in poi l’uomo ha
da sempre cercato di dipingere e di poetare. Però non darei
una prevalenza all’una piuttosto che all’altra;
dipende da quella che è la sensibilità
dell’artista insomma. Quindi non credo che si possa dire
“viene prima la poesia, poi la pittura” o,
“prima la musica e poi la scultura”. Ogni arte ha
la sua caratteristica e credo che succeda molto spesso che un grande
poeta è completamente “sordo” alla
musica o alla pittura o, viceversa, che un pittore non capisce niente
di musica. E questo avviene molto frequentemente.
Pensa
che “ipotizzare” sia la strada migliore per
ragionare di arte contemporaneità?
Sì. Finché un periodo non è
esaurito è difficile riuscire a collocarlo veramente, quindi
è anche difficile dire fino a che punto arriva la
contemporaneità. Noi oggi possiamo dare uno sguardo
abbastanza obiettivo sull’Ottocento. Darlo sul Novecento
è già molto difficile. Tanto più
difficile darlo su quello che si svolge sotto i nostri occhi. Quindi
credo che sia quasi impossibile dare un giudizio veramente obbiettivo.
Nel 1959 pubblica Il
divenire delle arti: una sorta di rivisitazione
e continuazione del suo lavoro del 1951. Parla
spesso di durata, di “divenire” appunto
“legato alle arti”, di metamorfosi e di
“successione”, di
“oscillazione” (termine centrale in un suo libro
del 1970, Le oscillazioni del gusto, appunto), di
transitorio dell’arte e della critica. Le andrebbe di
distendere questo suo concetto basilare e sempre presente,
d’altronde, nella sua opera?
Si, precisamente, io nel Divenire delle arti
mi richiamo a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (che dei filosofi del
passato è quello più moderno) proprio per dire
che questo divenire continuo mi pare che sia veramente fondamentale non
solo per oggi, ma per tutti i tempi. Ho fatto molte volte
l’esempio del Rinascimento o del Barocco eccetera.
Cioè alla fine di ogni periodo è come se tutto
quello che è stato fatto in quel periodo fosse sbagliato
cioè c’è questa necessità di
sopprimere quello che c’è stato prima per creare
quello che deve venire dopo. Nella nostra epoca questo divenire
è ancora più evidente. Scrivendo Le
oscillazioni del gusto dicevo proprio questo: noi abbiamo
questo continuo trasformarsi sotto i nostri occhi e se non ce ne
accorgiamo non riusciamo a capire quello che sta avvenendo. Il difetto
dello storico dell’arte tradizionale è quello di
restare fermo al periodo in cui ha studiato l’arte e dopo,
ovviamente, non è stato più capace di andare
avanti. Questo vale per gli storici dell’antichità
ma vale anche per gli storici dell’arte contemporanea; quello
che hanno studiato a venti, venticinque anni, quando ne hanno quaranta
non lo capiscono già più.
Il
divenire delle arti (1959) e Ultime tendenze
dell’arte d’oggi (1961) sembrano essere
“opere aperte”. Opere alle quali lei ritorna
continuamente. Una sorta di meditatissimo work in progress.
È questo il punto? Cioè il legame di queste opere
con il concetto di divenire, di nuovo, di mutamento?
Sì, effettivamente, questa metamorfosi direi che
è una delle costanti non solo dell’arte di oggi ma
dell’arte di sempre. Basti pensare al trapasso dagli etruschi
ai romani, o dai greci ai romani, ai bizantini, eccetera. Questo
continuo trapasso mi pare sia una delle cose fondamentali
nell’opera d’arte; e non solo nelle arti visive ma
in tutte le arti. Quindi certo, in queste mie opere ho tenuto conto di
questo, anche quando parlo dell’Intervallo perduto
(1980), che è una delle opere alle quali tengo di
più, in fondo dico qualcosa di analogo: cioè ci
vuole sempre uno spazio tra un’opera e l’altra, ma
anche tra un’epoca e l’altra, perché ci
possa essere il superamento di questo intervallo, di questa specie di
pausa.
Quanto ha inciso
– e se ha inciso – nel suo lavoro la teoria
dell’evoluzione creatrice formulata da Henri
Bergson?
L’Evolution créatrice
è certamente un libro fondamentale. Non è che io
mi sia rifatto molto alla teoria di Bergson, ma sia Matière
et mémoire che Evolution
créatrice sono due concetti fondamentali. Il
relativismo di Bergson, il problema del déjà
vu per esempio, è fondamentale in Bergson; ma
anche la sua concezione del tempo credo sia un dato ancora oggi
accettabile. In un certo senso mi è più vicina
una filosofia come quella di Bergson che quella di Martin Heidegger
tanto per fare il nome principe più amato e più
detestato dei nostri tempi. Ma il suo tempo, Sein und Zeit,
mi soddisfa molto meno del tempo bergsoniano.
In passato ha
centralizzato l’attenzione su Bosch (1953)
e Dürer (1958). Perché proprio
questi due artisti? Sono legati tra loro da un qualche pensiero di
fondo?
Parlare di questi due miei “peccati” di
adolescenza è sempre un po’ difficile, anche
perché allora ero agli inizi della mia attività
critica. Era un caso che mi fosse stato proposto di fare questi due
volumetti della collana di Mondadori. Li ho fatti con molto interesse
perché era la prima volta in cui studiavo, da vicino, due
artisti del passato: cosa che poi non ho mai più fatto. Ma
la ragione credo che sia abbastanza facile. Bosch, in fondo, rappresentava il nonplusultra della fantasia
e del surrealismo ante litteram
nell’antichità. E non solo. Bosch mi affascinava
anche per tutte le sue relazioni con l’alchimia, con i
tarocchi, con queste nozioni diciamo, tra alchemico e misteriosofiche,
che mi hanno sempre interessato. Per cui rappresentava una sorta di
padre della misteriosofia. Dürer. Anche in Dürer c’era questo
aspetto misterioso. Infondo il modo in cui lui si poneva di fronte alla
prospettiva per esempio, di fronte alla Melanconia, coi simboli
relativi di melanconia di Saturno, quindi di questioni astrali o
astrologiche; era anche questo un problema che mi interessava allora
moltissimo perché mi ero interessato molto di astrologia, di
tarocchi e di questo sostrato occulto nell’opera
d’arte dell’antichità e quindi anche in
quella presente.
Il disegno industriale
e la sua estetica (1963), poi mutato in Introduzione
al disegno industriale (1972) sposta fortemente la
riflessione nel campo delle arti applicate. In questo ambito di studio
rientrano, ovviamente, anche le sue riflessioni sulla moda. Ecco;
c’è un rapporto di continuità tra
questi suoi interessi con le teorie della Bauhaus?
Qui siamo in un territorio diverso da quello
dell’occultismo e dell’esoterismo. Difatti siamo
nell’attualità più determinata e
determinante. Ora, io mi sono occupato precocemente del disegno industriale
e sono stato tra i primi a prenderne coscienza anche, diciamo,
scientificamente; perché mi pare che sia uno dei versanti
più importanti dell’arte di oggi. Insomma, quel
versante dove tutto l’aspetto tecnologico, scientifico,
economico del presente trova un suo quoziente estetico. Per questo mi
pare che lo studio del disegno industriale, come del resto della moda,
sono proprio quei punti dove c’è un incontro e un
incrocio tra l’arte intesa in un senso ideale, idealistico e
quindi irrealistico, e invece una coscienza della società
dei nostri giorni, coi suoi pregi e i suoi difetti, dove
però anche l’elemento artistico ha una sua
indispensabile presenza.
Professore, quanta
importanza può avere oggi lo “spirito
comunitario”, l’alleanza, l’idea di
gruppo di lavoro che animava, ad esempio, il Bauhaus?
Dopo il Bauhaus che ha avuto l’importanza che
sappiamo direi che questo concetto di scuola, anzi, di alta scuola
delle arti, è stato molto meno importante. Oggi abbiamo una
decadenza delle Accademie e invece abbiamo una maggior coerenza dei
Politecnici. Per cui credo che quel tentativo di unificazione di
tecnica e arte, che è stata in fondo alla base del Bauhaus,
oggi sia meno necessaria. Ossia credo che l’arte sia di nuovo
più svincolata da questa necessità tecnologica e
scientifica. D’altro canto abbiamo tutti i nuovi mezzi a
disposizione dell’uomo, tipo elettronici, internet, computer,
video eccetera, che non hanno più bisogno di avere quella
iniziazione che era indispensabile all’epoca del Bauhaus. Il
bambino, ad esempio, manovra il computer ancor prima
d’imparare a leggere; e quindi è una cosa talmente
radicata nella personalità odierna che non è
più qualcosa di estraneo com’era
all’epoca del Bauhaus.
Da un punto di vista
più strettamente filosofico il suo pensiero analizza la
cultura come Weltanschauung cui coadiuvano fattori
allegorici, simbolici, fantastici, mitici. Dopo Simbolo
comunicazione consumo (1962), Nuovi Riti Nuovi Miti
(1965), L’estetica del mito (1967),
reputa ancora oggi, forte, nella nostra società la sfera
magica?
Sì. Questi argomenti mi hanno molto interessato. E
credo che ancora oggi il pensiero magico abbia un’importanza
proprio direi addirittura sociale. Naturalmente è molto
pericoloso dare molta importanza agli aspetti puramente scandalistici
oppure falsamente esoterici; questo direi che vada scartato. Ma il
fatto che alla base dell’attività artistica ci sia
questa specie di inconscio collettivo, se così possiamo
chiamarlo, credo che sia molto importante. Insomma il mito anche oggi
deve essere alla base di molta creazione.
Ha detto che L’intervallo
perduto (1980) è stato il libro che le ha dato
maggiormente soddisfazione. Anche se si aspettava una maggiore
divulgazione. Ora, l’intervallo è da lei inteso
non solo come fase intervallare di tutto il suo discorso
sull’arte, sulla produzione artistica e sulla critica
d’arte, ma anche come simbolo di totalità
d’un pensiero legato a delle dominanti necessarie.
D’altronde l’intervallo è importante per
una giusta pausa riflessiva. Sappiamo che, in un certo qual modo,
abbiamo perso quell’intervallo necessario: pertanto dove
siamo diretti, secondo lei, al tempo d’oggi?
Dov’è diretta l’arte, e dove la critica
d’arte? E quale potrebbe essere la novità,
«la situazione di novità» in grado di
garantire appunto il “nuovo”?
Mi fa piacere che abbia sottolineato questo libro. Per fortuna
è stato ristampato. Io tengo molto a questo libro e, anzi ho
intenzione di pubblicare alcuni altri saggi dove cercherò di
sviluppare questa questione del rumore. Il rumore non soltanto nel
senso del traffico, ma nel senso appunto di quello che ci impedisce la
comunicazione anche da un punto di vista della teoria
dell’informazione. Rumore è l’opposto
del messaggio. Mi pare che proprio una delle basi negative della nostra
epoca, sia un’obliterazione comunicativa dovuta alla mancanza
della pausa e dell’intervallo. Per cui siamo sopraffatti dal
rumore.
Angelo Trimarco dedica
una parte d’un suo recente libro, L’arte
e l’abitare (2001), al suo percorso critico,
soffermando l’attenzione su alcuni termini del suo
vocabolario teorico. Trimarco avvisa, precisamente, che nel suo
avanzare nel campo della critica “fra le altre, alcune parole
si fanno largo: consumo, comunicazione […], kitsch,
conformismo, feticcio, fatti e fattoidi”. Di
quest’ultimo termine dice: «(fattoide è
una bella invenzione linguistica, non c’è che
dire)”. E continua ancora scrivendo che (conviene citare per
esteso) “ci sono ancora altri termini” nel
vocabolario di Dorfles che meritano attenzione: artificio, entropia,
asimmetria. E ancora Barocco. Da questo spoglio, rapido e frettoloso,
non scarterei neppure preferenza. Meglio se usata al plurale:
preferenze. Appunto, preferenze critiche. In conclusione non si
dovrebbe dimenticare il termine intervallo. Perché
intervallo è snodo cruciale per le arti e per la
critica”.
Le andrebbe di parlare un po’ della sua
terminologia? Di quei neologismi utilizzati per dispiegare alcuni
pensieri?
Mi fa piacere che abbia individuato questa caratteristica che
praticamente nessuno ha mai messo in evidenza. Personalmente ho dato
sempre molta importanza ai titoli dei miei libri appunto Artificio
e Natura, Simbolo Comunicazione Consumo.
Nel titolo c’era già tutto. Questo, ad esempio,
per Simbolo Comunicazione Consumo è
indubbio. Questa che io chiamavo trinità dei
nostri tempi era già tutto quello che conteneva il
libro. Lo stesso per il fatto “proaieretico”,
cioè la preferenzialità; anche questo mi pareva
una cosa molto importante perché era legato, in parte, alla
teoria dell’informazione ma anche legato a quei concetti
humeiani della novità e della facilità, la facility
e la novelty, un altro problema che mi ha sempre
molto interessato e che non ho mai capito perché sia stato
così poco sottolineato. È un fatto che io invece
reputo fondamentale perché nella fruizione e comprensione
dell’opera d’arte il dilemma tra novità
e facilità sia appunto fondamentale per la comprensione. Una
cosa che mi pare fondamentale ripeto, ma che in fondo non è
stata sottolineata. Né presa più in
considerazione dalle varie critiche che ho avuto di questo mio libro Simbolo
Comunicazione Consumo.
Prima accennavo al fatto che ero stato poco contento del
riscontro che aveva avuto l’Intervallo perduto.
Ecco, quando questo libro è stato tradotto in francese ha
avuto un suo effetto, tant’è vero che la Sorbonne
ha dedicato un seminario a questo libro, L’intervallo
perduto. Un seminario dove intervennero non solo persone
dell’estetica ma anche dell’informazione. In Italia
è decisamente il libro, per conto mio, passato
più o meno, inosservato. Purtroppo succede. Succede molto
spesso. Anche per una ragione: nei trequarti degli studiosi italiani
noi troviamo citati ad ogni pagina Jean Baudrillard,
Jean-François Lyotard, Edgar Morin, giustissimamente ma
molto spesso non vediamo citati dei nostri autori altrettanto
importanti: un Galvano Della Volpe chi lo cita? O chi cita un Enzo
Paci? Molti dei nostri migliori saggisti vengono completamente
dimenticati.
Trimarco parla ancora di
un lavoro, “il lavoro dell’artista” messo
da parte per essere protetto. Parla di una
“vocazione a fare pittura” “che
è, insieme, ‘cosa mentale’, secondo il
detto di Leonardo, ma anche sapere della mano”. E ripenso
anche a quello che lei dice in un’intervista rilasciata
– nel ’90 – a Lea Vergine. E precisamente
che, se avesse “dovuto scegliere un mestiere
anziché una professione”, senza dubbio, avrebbe
fatto “il falegname”.
Ecco: quanta importanza dà alla
manualità e dunque al lato tecnico del processo che porta
all’opera d’arte?
Io presto molta importanza a questo problema fattuale
e anche diciamo pure manuale persino nell’opera
d’arte. Proprio oggi in cui abbiamo i nuovi mezzi che ci
permettono di creare dal niente, e col niente, ossia senza nessun
intervento diretto, credo che sia importante un recupero di questa
presenza della traccia umana nell’opera d’arte.
Questo non significa screditare i nuovi mezzi comunicativi, per esempio
attraverso il computer possiamo creare delle opere grafiche che non si
potevano creare prima. Quindi è ovvio che ogni nuova tecnica
permette nuovi tipi di creazioni però credo che
l’intervento diretto dell’uomo sia che si serva del
suo corpo, della sua mano, sia che si serva dei mezzi, è
fondamentale.
Un’ultima
domanda. Molti studiosi e giornalisti le hanno avanzato domande su
questa sua “vocazione” pittorica; un percorso
parallelo ma distante rispetto a quello critico.
Perché questa separazione netta?
Credo che sia un minimo necessario. Credo che le due cose
siano distinte. Io non pretendo di saper criticare la mia arte per cui
dipingendo abbandono la mia veste di critico. D’altro canto,
criticando l’opera altrui, io devo disfarmi completamente da
quelle che sono le mie preferenze e tendenze pittoriche
perché non potrei giudicare in maniera obbiettiva. Certo,
non è mai possibile essere completamente obbiettivi
però io credo di essere riuscito a vedere sempre il lato
positivo dell’artista che studiavo o criticavo.
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