di Adolfo Fattori
Ad Almerico Fattori, che
quando avevo appena imparato a leggere, mi fece scoprire l’Avventura e l’Etica, e che la Legge e la Giustizia non sempre sono la stessa cosa. |
Una
pianura desolata, brulla, fatta di dossi e di avvallamenti. Qui
è là, piante scheletriche, assetate. Sullo
sfondo, contro il sole al tramonto, due sagome: un cavaliere segaligno,
alto, armato di una lunga lancia, con uno strano elmo piatto in testa,
in groppa ad un cavallo che si indovina scheletrico, e a fianco a lui,
un uomo più basso, grassoccio, in groppa ad un somaro. Sulla
destra, più o meno a metà strada fra le due
figure avanzanti e l’osservatore, un mulino a vento, le cui
pale si muovono lentamente, spinte dal vento. Arrivati al mulino i due
si fermano, e l’uomo alto parte alla carica, lancia in resta.
L’arma
intercetta (per puro caso) una delle pale, vi rimane impigliata, nel
suo movimento la pala solleva arma e cavaliere, che, sbalzato da
cavallo, lascia la lancia e cade per terra a gambe all’aria.
È
Don Chisciotte, hidalgo, cavaliere, ma soprattutto, uomo
d’onore (de Cervantes, 2007); la cui parola
è sacra, e che lotta per la verità e la
giustizia. Una delle prime emergenze dell’uomo moderno, nato
dall’umanesimo (Carroll, 2009), ma condannato alla sconfitta
nel suo non saper ancora distinguere fra realtà e
immaginazione. Ancora nel guado fra sacro e secolare.
STACCO
Una pianura desolata, brulla, fatta di dossi e di
avvallamenti. Qui è là, piante scheletriche,
assetate. Sullo sfondo, contro il sole al tramonto, la sagoma di un
uomo: è aitante, robusto, porta un cappello dalle falde
larghe, per ripararsi dal sole e dalla pioggia, avanza guardingo,
attento. Si sente un colpo di fucile. Si intravede qualcosa di
luccicante che lo sfiora, lo sorpassa. Si ferma, guarda nella direzione
da cui è arrivato lo sparo, poi il proiettile. Con calma
estrae il Winchester dalla guaina sul fianco della sella. Prende la
mira, spara. Posa il fucile di traverso sulla sella davanti a
sé. Riprende a muoversi, coi sensi all’erta, nella
direzione da cui è partito il colpo di fucile che lo ha
sfiorato.
È il ranger del Texas Tex Willer, Aquila
della Notte per i Navajos, di cui è il sakem. La sua parola
è sacra. Ed è legge. È anche lui un
uomo d’onore, come Don Chisciotte. Solo, più
scaltrito dal tempo, dai secoli passati dalla morte del suo
predecessore. Il suo fine è la Giustizia. E la ottiene.
È un eroe, ma pienamente moderno.
Il
“cavaliere dalla trista figura” che ci proviene dal
primo romanzo della modernità, El ingenioso
hidalgo don Quijote de la Mancha, è un personaggio
di confine, colto nel momento in cui si verifica una frattura: quella
fra l’antico e il moderno, fra l’epoca
dell’ordo medioevale e
l’emergere della ratio borghese: ha alle
spalle i cavalieri erranti delle saghe medioevali, e
davanti… uno specchio, quello della riflessività
del Sé umanista – Cervantes ce lo mostra quando
l’hidalgo scopre che qualcuno ha scritto le sue avventure al
posto suo… Ma ci rimane incastrato dentro, a pendolare fra
il mondo oltre lo specchio e il nostro, in una versione primordiale
della leggenda, riportata da Jorge Luis Borges, della vicenda del
“popolo degli specchi” (2006). Tex
Willer, invece, è in pieno una creatura del Novecento:
è il protagonista di un fumetto western. Questo
è il primo – elementare, ma imprescindibile
– dato da cui partire. Che prospera direttamente su una delle
radici più fertili e longeve dell’immaginario
collettivo.
Il mito del West americano è peraltro
uno dei pilastri su cui si fonda la vicenda del cinema, a partire dagli
anni Dieci del XX secolo, grazie anche alla possibilità di
sfruttare il grandioso set naturale offerto dall’Ovest
americano. Luogo magico, come scrive anche Jean Baudrillard nel suo
diario americano, prima descrivendo il Grand Canyon del Colorado:
Monumentalità geologica, dunque metafisica, al contrario dell’altitudine fisica dei rilievi naturali. Rilievi inversi scolpiti in profondità dai venti, dall’acqua, dal ghiaccio, introducono nella vertigine del tempo, nell’eternità minuziosa di una catastrofe al rallentatore
(Baudrillard, 1986, p. 12, traduzione dell’autore).
Poi descrivendo la Monument Valley (per intenderci, quella di tanti film western e di tante avventure del ranger):
In questo gigantesco accumulo di segni, di essenza puramente geologica, non c’è per nulla l’aura dell’uomo. Forse solo gli indiani ne hanno interpretato una debole parte. Pertanto questi sono segni. Perché la naturalità (inculture) del deserto non è che apparente. Tutto il paese navajo, il lungo plateau che conduce verso il Grand Canyon, le falesie che precedono la Monument Valley, gli abissi del Green River […], tutto questo paese riluce di una presenza magica, che non ha nulla a che vedere con la natura
(Ibidem, p. 13, t.d.a.).
E il cinema, come il fumetto, alimenta il mito per tutto il
secolo, rielaborandolo sempre in maniera fertile, attraverso tutti i
passaggi e le trasformazioni del gusto e della sensibilità
che quella fase storica ha conosciuto.
Tex, rubando al cinema,
alla letteratura, al fumetto stesso, nutre se stesso e interpreta il
West nella maniera più classica, in termini di character
lui stesso, di comprimari e antagonisti, di scenari e
ambientazioni (Frezza, 2008, p. 185).
Per le stesse ragioni
riesce a reinterpretarsi continuamente, assorbendo progressivamente ma
completamente anche la lezione che viene dalla rivoluzione operata nel
western da Sergio Leone, e poi da coloro che come Clint Eastwood anche
a Hollywood hanno saputo seguirne le tracce, riuscendo a mantenersi al
passo con le strategie evolutive dei linguaggi che gli stanno intorno,
fino a tener conto, anche se indirettamente, del West apocalittico e
minimale di Cormac McCarthy, e dei suoi personaggi a volte anche
donchisciotteschi, pur rimanendo sempre ancorato alle sue origini.
Un’indubbia
prova di attenzione all’evoluzione della comunicazione, dei
generi – e quindi del pubblico.
E resiste, prospero, da sessant’anni. Senza
flessioni. Senza crisi È bastato
aggiungere, a partire da circa venti anni fa, un paio di appuntamenti
annuali con albi unici, autoconclusivi, “fuori
serie” per dimensioni e periodicità,
all’appuntamento mensile, per confermare e rafforzare il
legame con il pubblico degli appassionati.
Solo la RAI
è riuscita a non far fruttare quest’aquila
dalle uova d’oro (Brancato, 2007, pp. 51-54).
Anzi,
l’Albo speciale che viene pubblicato a
giugno di ogni anno è il luogo dove la Bonelli ha mostrato
la sua attenzione ai disegnatori esterni alla propria area, facendone
il luogo in cui ospitare firme prestigiose e provenienti da altre
esperienze e direzioni, mostrando così la propria apertura e
disponibilità all’universo del fumetto in
generale. Attuando così la propria
forma di mediazione fra le esigenze della
continuità e quelle dell’innovazione.
Cosa
sorprendente, forse, per quei critici snob troppo legati
all’inseguimento del “cambiamento” e
della “ricerca”. Come se
l’attualità, il “nuovo”, lo
“sperimentale” – qualsiasi cosa vogliano
dire – facciano sempre aggio su tutto il resto. Come se le
forme più “antiche” non conservino
– almeno per un po’, almeno a volte – una
loro energia produttiva e significativa.
È vero,
Tex ha come luogo di nascita e di espressione uno degli universi mitici
cruciali della modernità, il West, in tutta la sua
vastità geografica e fertilità
immaginativa. Lo allarga addirittura, colonizzando
anche l’altra grande direttrice del cinema classico
d’avventura, la giungla d’asfalto –
la metropoli, l’altra faccia della cultura novecentesca, e la
sua matrice.
Arriva ad esplorare l’intero universo
dell’immaginario fantastico della modernità, dai mondi
perduti, al cappa e spada, alla science
fiction (Fattori, 2008).
Lo fa in maniera creativa e
coerente, senza mai strafare o rinunciare alla sua
pragmaticità.
Ma può bastare tutto
ciò, a spiegarne il primato?
A pensarci bene, fin
qui siamo in un campo abbondantemente esplorato – almeno
dagli studiosi dei dispositivi e della natura dell’industria
culturale. In effetti, pur riconoscendo la qualità
particolare – il timbro, se si vuole, unico –
dell’universo narrativo assemblato dalla
“banda Bonelli”, forse lo stesso vale –
magari non con identica sistematicità e coerenza –
per altri territori.
Ci deve essere qualcos’altro.
Che magari attiene alle radici mitiche dei personaggi come Aquila della
Notte: qualche tratto – o qualche configurazione di tratti
– che vengono prima del suo personaggio,
e che i suoi autori hanno saputo però rielaborare e
riorganizzare in maniera speciale. E che è
all’origine della sua fortuna particolare.
Michael
Moorcock, fondatore con James G. Ballard della New Wave britannica,
il movimento che negli anni Sessanta del XX secolo provò a
innovare la science fiction promuovendo lo spostamento del suo sguardo
dallo spazio esterno – quello dei pianeti e delle galassie
– allo spazio interno – quello della coscienza e
dell’identità, ha avuto in particolare il merito
di recuperare gli ambiti e i materiali che potevano essere considerati
dai puristi e dai critici i più triviali e minori: quelli
della space opera e della heroic fantasy, genere praticamente omonimo e
complanare alla sword & sorcery, ambientata in universi
mitico/medioevali, intrisi di sacro, popolati di stregoni, incantatori,
guerrieri e principesse. Moorcock comincia la sua
avventura nella narrativa riscrivendo il John Carter di Marte
di Edgar Rice Burroughs (1978), il creatore – per
inciso – di Tarzan delle scimmie. E vale la pena di ricordare
che John Carter si ritrova trasferito su Marte dopo essersi nascosto in
una caverna per sfuggire a una banda di pellerossa che lo inseguono, a
dimostrazione di come agli albori dell’immaginario
contemporaneo (siamo nel 1917) il West abbia una cruciale funzione
mitopoietica. Lo scrittore britannico gli cambia nome, in Michael Kane,
ma le caratteristiche del personaggio sono le stesse, come la sua forza
e la sua “personalità”.
Quando
pubblica il suo ciclo di Marte, tre romanzi nel 1965, lo scrittore ha
già dato alle stampe, tre anni prima, Il campione
eterno, che non solo diventerà la prima opera di
un altro ciclo di romanzi, ma sarà il termine con cui
definirà l’idea che porrà al centro dei
suoi romanzi. Ispirato a Conan il barbaro, il
protagonista dei romanzi che Robert E. Howard scrisse negli anni Trenta
del Novecento, il “Campione Eterno” assume molte
identità attraverso le tante dimensioni di cui è
fatto il “Multiverso” che costituisce la cosmogonia
in cui Moorcock colloca i suoi personaggi e le sue storie, fino ad
incontrare a volte se stesso, seppur sotto altre spoglie, passando da
un universo narrativo ad un altro attraverso le soglie, le pieghe, le
curve di dimensioni a cavallo fra Escher e Mœbius.
Il
“Campione Eterno” è impegnato nella
lotta, eterna, non solo contro le possibili varianti del Male
convenzionale, ma anche per garantire l'equilibrio metafisico tra
l’Ordine ed il Caos.
È, evidentemente,
già una figura della postmodernità, vista la sua
propensione a transitare – metaforicamente – da una
sfera di realtà e di conoscenza ad un’altra, ma
anche perché quella in cui si muove Moorcock è di
fatto una dimensione profondamente metanarrativa, oltre che intrisa di
profonda ironia.
Questo tratto metanarrativo appartiene anche
a Tex, anche se in termini in parte diversi: periodicamente, davanti al
fuoco di un bivacco, Aquila della Notte, a volte con Capelli
d’Argento, a volte con Tiger, a volte da solo, racconta di
avventure precedenti alla sua “nascita” di carta.
Si costruisce così una sua mitologia, una serie di elementi
che vanno a costituire un vero e proprio “mito di
fondazione”, e in cui vengono definiti i tasselli che sono
alla base del suo personaggio, della sua etica, della sua nascita come
eroe: la sua partecipazione alla guerra civile, per esempio, o la
perdita della sua amata Lilith… Quindi,
da cosa è formata l’identità profonda
del “Campione Eterno”? Quali le esperienze che lo
hanno formato? Cosa lo individua, nelle sue infinite incarnazioni, e lo
rende riconoscibile al lettore? È semplicemente
un’incarnazione più
“muscolare” degli eroi medioevali? Innanzi tutto
– questo è vero – è un
guerriero.
Quando ci si presenta, e iniziamo a conoscerlo, il
campione appare subito senza paura: della morte, del dolore, del
sacrificio. Ancora, il suo comportamento
è profondamente etico, sempre pronto a difendere gli
oppressi, i deboli, e feroce contro i rappresentanti del male,
qualunque forma prendano.
Ha con sé, o sparsi nel
mondo, ma sempre a disposizione – come egli stesso
è per loro – per correre in suo aiuto, degli
amici. Amici veri, fratelli, compagni di strada e di avventure, che
condividono i suoi valori e i suoi sforzi – il suo orgoglio.
La
sua è una giustizia sostanziale, non istituzionale, senza
cavilli e distinguo. E, nella maggior parte dei casi, mette da parte
“l’arme della critica” per “la
critica delle armi”. Più convincenti come
strumenti, più durature in quanto effetti, ammettiamolo. In
quanto eterno, il campione sopravvive sempre, a
tutte le prove, anche le più proibitive. Ma
l’ultima caratteristica, quella più remota,
rivelata raramente e con riserbo, è chiusa nel profondo del
suo cuore: un amore antico, perduto, e insostituibile. Forse la vera
ragione della sua irrequietudine e della sua lotta eterna contro il
Male. Moorcock ne ha ideate e offerte diverse versioni, da Corum a
Elric di Melniboné, a Hawkmoon, ma tutti conservano le
stesse caratteristiche basilari. Tutti questi character hanno
in più una caratteristica comune: sono protagonisti di cicli
di romanzi, che li collocano nella dimensione della
serialità, in modo tale da potergli permettere di dispiegare
in un tempo che per il lettore si distende attraverso
l’attesa le loro vicende. Come, in parallelo altri personaggi
della stessa natura sono i protagonisti dei romanzi di Alan D. Altieri,
sia quelli della “Pentalogia di Los Angeles”, da Città
oscura (1981) a Ultima luce (1995), e,
ancor di più il Wulfgar della trilogia di Magdeburg
(2005 – 2007). Sono tutti eroi
disincantati, tormentati, ma determinati e profondamente etici, seppur
letali per gli avversari. Guerrieri che agiscono in paesaggi
apocalittici e terminali, in scenari che giustamente sono stati
definiti neogotici. Alcune delle versioni
più conseguenti del mito postmoderno del “Campione
eterno”.
D’altra parte, Altieri si
è formato traducendo per Mondadori Hammett e Chandler, i
romanzi fantasy di George R. R. Martin, lavorando sui set di Conan
il distruttore (Richard Fleischer, 1983) e
Atto di forza (Paul Verhoeven, 1990)…
Creature
del Novecento e della narrativa di massa, non potrebbero esprimere
diversamente la loro forza narrativa. E a questa galleria, a buon
diritto, si aggiunge Tex. Apparentemente meno disincantato, disilluso,
più propositivo. Un uomo del West, e del positivismo.
Convinto che alla fine la Giustizia possa trionfare? Forse. O forse
solo tutt’uno con la sua missione. Ma non
sono solo combattenti, della loro natura fa parte
qualcos’altro, pure…
Forse, il
personaggio paradigmatico – nato alla fine della vicenda
narrativa del Campione eterno, almeno per ora – viene da un
altro scrittore, il “Re del brivido” del Maine,
Stephen King. È Roland di Gilead, il pistolero, protagonista
della saga della Torre nera (1994 –
2004). King, nei sette romanzi che compongono la saga, allestisce uno
scenario di universi intrecciati fra loro dove il tempo è
scorso in maniera differente, e dove convivono epoche, costumi,
tecnologie assemblate discronicamente, in una atmosfera che comunque,
in fondo, rimanda alla sfera dello sword & sorcery e
dell’heroic fantasy, anche se con le sue
consuete incursioni nei cupi universi immaginati da Howard P.
Lovecraft. Ma l’aspetto più importante, per noi,
ai fini di questo percorso, è che – seppur in
maniera laterale, sincretica – Roland
appartiene profondamente all’immaginario western, almeno
quanto a quello dei medioevi fantastici. È, per molti versi,
l’anello mancante, il punto di giunzione fra il Campione
eterno di Moorcock, e i classici eroi dell’epopea del West
americano. Di cui l’esempio principe è Tex Willer.
Anzi, viene quasi da chiedersi se King conosca il personaggio di
Bonelli e Galep… solo che laddove nel
“multiverso” di Roland epoche e luoghi si mescolano
sincreticamente, nel lineare universo di Aquila della Notte si
allineano metonimicamente, uno affianco all’altro:
l’Arizona, le metropoli, le giungle tropicali,
l’estremo nord dei vichinghi, fino ai Caraibi del voodoo, al
Borneo della conquista inglese, agli inferni della magia
nera… Ecco, laddove Roland di Gilead ogni
tanto esce dal suo mondo ancora incantato per arrivare nel nostro, Tex
Willer fa il contrario: periodicamente entra in contatto con gli
universi della magia e del soprannaturale. Ed è troppo
“sgamato” per liquidarli con un’alzata di
spalle: combatte anche lì i suoi nemici, apparentemente o
meno dotati di arti magiche.
E il pistolero, come il ranger,
ha all’inizio delle sue avventure una perdita irrimediabile:
la ragazza di cui era innamorato, bruciata come strega per le
macchinazioni di una malvagia megera, come Lilith, la sposa di Tex,
morirà di vaiolo per i maneggi di un gruppo di
avventurieri…
Come un altro grande personaggio
della narrativa di avventure, fra l’altro di un autore
italiano: la Tigre della Malesia, il Sandokan di
Emilio Salgari (2010) (di cui peraltro Tex incontrerà il
doppio, la Tigre Nera: un Sandokan diventato malvagio per sete di
vendetta), eroe esotico del crepuscolo del colonialismo classico, che
ha perso la sua amata, e che – come Aquila della Notte con i
suoi Navajos e i suoi pard – può contare su alcuni
amici fidatissimi e sui suoi “tigrotti”, i pirati
che si farebbero uccidere per lui.
Con le sue versioni a
fumetti, come quelle degli anni Trenta disegnate da Rino Albertarelli,
l’autore fra l’altro di un Kit Carson parente
stretto di Capelli d’Argento, il pard di Tex Willer.
Così,
come il personaggio di Miguel Cervantes ha alle spalle la tradizione
dei cavalieri feudali, il ranger di Bonelli e Galep ha di
fianco, gli eroi del contemporaneo, molto più
introspettivi, riflessivi, ma decisamente più concreti,
nella ricerca della giustizia, della verità. Laterali ai
distinguo della legge umana, contigui al nucleo di un’etica
– di fatto – metafisica.
Un’altra considerazione: indubbiamente
c’è da riconoscere la fortuna che per tutto il XX
secolo e questo scorcio di XXI ha avuto l’area della
produzione narrativa che ha tenuto vivo l’immaginario
connesso al soprannaturale, al magico, al sacro.
Superata la boa dell’affermazione definitiva della
modernizzazione e della razionalità, e quindi il punto di
non ritorno dell’istituirsi definitivo della
società fondata sui ritmi della fabbrica e della metropoli,
il “disincanto del mondo” sembra aver intrapreso la
sua volata definitiva.
La traccia letteraria di questo punto
di svolta è stata costituita dalla breve stagione del
fantastico, come lo definisce Tzvetan Todorov (1977) in La
letteratura fantastica: una forma narrativa che mette in
scena il dubbio, l’esitazione fra una
spiegazione razionale ed una soprannaturale degli eventi narrati.
Espressione del senso di disorientamento della società che
si trovò nel guado fra tradizione e moderno, il fantastico
denuncia un vuoto nella definizione della
realtà – e non lo riempie. Esprime il perturbante
dubbio che nasce dall’insinuarsi
dell’irrazionale nella solida materia del reale.
Ma
il tempo del fantastico passa presto, e la modernizzazione che avanza
colonizza il mondo e le rappresentazioni che ne diamo, aggiudicandosi
anche gli universi simbolici precedenti. Reinterpretandoli,
naturalmente, e rielaborandoli nella narrativa.
E
così, anche la sfera del magico viene recuperata, e dalla
fiaba e dal mito classici transita nella narrativa di massa. E
sopravvive con l’heroic fantasy e lo sword & sorcery,
e con gli esiti più radicali e
“classici” di Lovecraft e dei suoi epigoni.
In
qualche misura è però disinnescata, normalizzata,
allontanata in universi lontani ed alieni. Desacralizzata.
Ma
forse, nel nostro tempo, possiamo intravedere altro. Forse la tendenza
al disincanto del mondo e alla desacralizzazione totale comincia a
trovare qualche intoppo, o perlomeno si incrocia con spinte e tendenze
che vanno in direzione contraria, o contrastano il processo principale.
E
trovano il loro rifugio e terreno di coltura proprio nei luoghi dove
sembrerebbe più imprevedibile percepirli, gli ultimi approdi
della tecnologia: il web, il virtuale.
Molte sono le
riflessioni che si sono sviluppate negli ultimi anni sul rapporto fra
rapporto con i new media e sfera del sacro.
Nell’Introduzione a Techgnosis
(Davis, 2001), l’autore scrive:
Incuranti di quanto possa apparire secolarizzata questa condizione moderna, la velocità e la mutevolezza di questi tempi evocano delle proprietà sovrannaturali che devono essere osservate, almeno in parte, attraverso le lenti del pensiero religioso e tramite la fantastica miniera di un’ancestrale immaginazione (pag. 21).
… Ed è con questo apparente paradosso in mente che ho scritto Techgnosis: una storia segreta degli impulsi mistici che continuano a dar vita e a sostenere l’ossessione del mondo occidentale per la tecnologia, e in special modo per le sue tecnologie della comunicazione
(pag.22).
In sostanza, Davis sostiene che la dimensione del
misticismo – e quindi del sacro – sopravvive, e
anzi trova alimento nelle tecnologie della comunicazione.
Altrove
afferma:
C’è un’idea che aleggia, ovvero che la secolarizzazione sia un aspetto inevitabile della modernizzazione (…)
Questo semplicemente non è vero in America, e non soltanto nei cosi detti “stati rossi”,
dove vivono i Cristiani conservatori. Il lato inventivo, progressivo e alla ricerca della novità della cultura americana è sempre stato legato a forze religiose e spirituali, sublimate o meno. Io vivo in California… la California ha svolto un ruolo importantissimo nello sviluppo della New Age, del Misticismo contemporaneo, della traslazione delle tradizioni orientali in occidente, della ricerca del sacro attraverso il corpo. In California come ad Hollywood, il disincanto è andato sottobraccio con il ri-incantamento (Fattori, 2007).
Le sue tesi echeggiano anche in riflessioni più direttamente sociologiche:
… parallelamente all’emergere e al diffondersi di una serie di nuove tecnologie, si è assistito infatti a una sorta di processo di de-individualizzazione, di ri-coinvolgimento, di reincanto del mondo…
Il mondo in cui (l’uomo postmoderno, N.d.A.) si immerge è sempre più quello delle realtà virtuali da lui stesso create, un mondo che, allontanandosi a rapidi passi dalla coinvolgente natura dei suoi antenati premoderni, è però tornato ad essere – stavolta “grazie” alla tecnologia – un mondo reincantato, un mondo magico (Pecchinenda, 2003).
Le considerazioni del sociologo napoletano sono finalizzate ad
una riflessione su uno degli ultimi approdi della tecnologia applicata
al tempo libero, i videogiochi, ma naturalmente si possono applicare
per certi versi all’intera sfera del virtuale e della
simulazione. Fra l’altro, per ragionare sul rapporto fra
virtualità e reincanto Pecchinenda cita un caso specifico:
il film Nirvana di Gabriele Salvatores (1997).
Nirvana è un videogame in progettazione il cui personaggio,
per colpa di un virus, acquista improvvisamente coscienza di
sé. Presto scopre di essere destinato ad essere
“clonato” in migliaia di esemplari e di essere
condannato ad una eternità di morti e di rinascite.
E
cerca di ribellarsi, rivolgendosi al suo
“creatore”, il programmatore, perché lo
“uccida”, e lo sottragga alla condanna di vite
infinite negli spazi e nei tempi della realtà
virtuale. Estremo, definitivo approdo della
serialità, “concreta” realizzazione
dell’idea degli universi paralleli teorizzati
dalla science fiction, ognuno dei quali differente da quelli contigui
per un minimo particolare, in una infinita serie. Il
film di Salvatores rimanda quindi a due elementi cruciali: le infinite
resurrezioni degli avatar che popolano i videogame
– e così si conferma l’idea che la
virtualità sia il terreno del reincanto
in cui ritrovano cittadinanza il senso e il bisogno di sacro;
la centralità dell’eroe e della
sua sacralità.
Aquila della
Notte, attraverso le sue evoluzioni, la sua capacità di
reinventarsi e resistere alle trasformazioni dei tempi e del gusto
appare rappresentare proprio questa doppia dimensione. La basilare
natura seriale – che gli permette di vivere in uno
spazio/tempo ubiquo e ucronico, e la sua identità di eroe,
per cui l’onore e la sete di giustizia
sono parti inestricabili della sua natura – che permette ai
suoi lettori di vivere le proprie utopie.
Ed è qui
che si chiude il cerchio aperto dall’hidalgo della Spagna
rinascimentale.
Nel prosieguo del
Don Chisciotte, scrivevamo più sopra, il cavaliere scopre
che qualcun altro, spacciandosi per lui, ha raccontato le sue
avventure. E decide di rimettere a posto la verità storica.
Ma la sua utopia è troppo in anticipo rispetto ai tempi. Le
stesse leggi dell’onore che rispetta, sono quelle che lo
incatenano. Tex ha superato questa fase. È fuori del tempo
del sacro tradizionale. È già nel mito. Si
è nutrito – quasi come l’Highlander
del film, senza diventare un predatore – dello spirito delle
tante incarnazioni del Campione eterno. E il mito ha regole diverse,
pretende la sua ragione. Sfidando le leggi del mondo profano, abbatte
anche le leggi degli uomini, quando non permettono di fare giustizia.
Perché l’onore, frutto migliore del senso di
responsabilità individuale nato con l’umanesimo,
per compiersi non può ammettere alibi, e richiede
all’eroe di essere fedele a se stesso, fino in fondo, nella
sua missione.
E quelli di noi, i loro lettori, che ancora si
illudono o pretendono di aver conservato un po’ di senso
della giustizia, non potendo ambire alla fortuna di Tex, né
alla saggezza di Sancho Panza, si accontentano di assomigliare a Don
Chisciotte, difensori poco credibili – e forse un
po’ ridicoli – di cause perse in partenza.