Di
Bob Downes, uno degli agitatori più eclettici della scena
jazz
britannica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, se ne erano
perse le tracce. Ma ecco l’anno scorso fare capolino prima la
ristampa
di Diversions del 1971, capolavoro di
“open” jazz rimesso in
circolazione da Mike Dutton della Vocalion, e, a seguire, le riedizioni
di altri due lavori importanti della discografia del jazzista, Episodes
at 4 AM e Hells Angels.
Ma la ciliegina sulla torta deve ancora arrivare: entro dicembre, la
Reel Recordings di Mike King pubblicherà una
registrazione inedita del
collettivo Bob Downes Open Music: Crossing Borders
del 1974 con
Downes accompagnato da Barry Guy, Brian Godding, Paul Rutherford, John
Stevens e altri. Musicista colto e amante delle contaminazioni,
virtuoso del flauto e compositore di musiche per compagnie teatrali e
ensemble di danza contemporanea, Downes vanta un’avventurosa
carriera
più che quarantennale, tutta da raccontare. Dagli inizi con
i John
Barry 7 alle collaborazioni con Mike Westbrook, Keith Tippett, Ray
Russell, John Stevens, Barre Philips, Lindasy Cooper, Julie
Driscoll,
ecc. fino al lancio agli inizi degli anni Settanta della
“sua” Open
Music, uno dei collettivi musicali tra i più fertili e
“avanti”
dell’epoca al pari della Spontaneous Music Ensemble o
dell’AMM di Eddie
Prévost e Keith Rowe. Un percorso che nel decennio
successivo ha
lambito anche la poesia e che negli ultimi anni ha incrociato nuovi
universi con la composizione di temi sempre più rarefatti e
meditativi.
Cominciamo dal tuo ultimo disco, Crossing
Borders,
registrato negli anni Settanta. Vuoi dirci in breve la genesi di questo
lavoro finora inedito, che coinvolge molti musicisti
dell’area del jazz
britannico quali Brian Godding, Paul Rutherford, Barry Guy, John
Stevens e altri? Come li hai radunati? L’ispirazione
a scrivere Crossing Borders
mi venne da uno straordinario tour di sei settimane in Sud America. Non
aspettatevi tuttavia di sentire del “latin jazz”,
non era proprio
quella la mia intenzione. Barry Guy e io ci incontrammo a una jam
session all’Old Place e lì per lì
rimasi di stucco sentendolo e mi
convinsi che un bassista come lui avrebbe dato un contributo magnifico
alle mie idee. In alcuni pezzi di Crossing Borders
uso due bassisti, cosa che ho fatto spesso quando ne ho avuto
l’occasione. |
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Serve a fare sì che il groove
non si perda quando uno dei due bassisti prende l’assolo. Rutherford e
Stevens li ho incontrati alla scuola di musica della Royal Air Force,
ma per breve tempo, perché venni giudicato abbastanza bravo
da venire
assegnato quasi immediatamente a una delle bande
dell’aviazione,
un’ottima cosa perché così non dovetti
restare a scuola a imparare
tutte quelle terribili scale. Ma anche cattiva, perché non
avrei
rivisto quei due prima di tre anni. Mentre aspettavo di venir mandato
in un’altra caserma, Stevens e io c’incontrammo una
volta sola, per una
jam. La prima cosa che suonammo fu Straight, No Chaser
di Monk. Avevo
appena cominciato il mio assolo che un sergente mi fermò. Mi
sentii
come se mi avessero castrato. Ci disse che il jazz non era consentito.
Una cosa da ridere, visto che i soli che sapessero davvero suonare, in
quelle formazioni, erano i jazzisti. Un’altra volta ci
riuscì di
mettere insieme una jam nel refettorio, ma anche lì dopo
dieci minuti
vennero a dirci di smettere. Per non diventare matto, dovetti usare il
librone del repertorio della banda militare come base per delle
improvvisazioni jazz clandestine durante le parate. Godding lo
incontrati la prima volta mentre suonavo con Mike Westbrook. Mi accorsi
subito che aveva “qualcosa da dire”. Recentemente
Brian mi ha detto che
suonare con me lo ha sempre fatto sentire come se fosse stato buttato
nell’acqua alla sprovvista. Ma si è sempre
dimostrato un nuotatore
eccellente. In Crossing Borders lo si sente
benissimo.
Musicalmente, Crossing Borders
è un’evoluzione del tuo tipico jazz
multiculturale, come espresso in Diversions, la tua
fondamentale opera del 1971 sulla tua etichetta Openian? Certamente
il titolo del cd non solo afferma che ho letteralmente attraversato
innumerevoli frontiere del Sud America, ma anche che le esperienze e le
atmosfere che ho incontrato in quell’enorme continente mi
hanno
permesso di continuare a oltrepassare i miei propri confini culturali e
di comporli in un mosaico musicale. |