Come hai sviluppato il tuo stile strumentale? So che
hai
cominciato suonando con i John Barry 7 e con complessi e cantanti pop
come Chris Andrews e la Earth Band di Manfred Mann, ma mi pare che tu
avessi intenzione di arrivare presto al jazz più evoluto e
ai territori
dell’avanguardia… Credo che
molto del mio stile venga dal fatto
di non essermi mai esercitato sul serio su scale e arpeggi, che invece
si sentono chiaramente in moltissimi musicisti jazz. Io li aborro!
L’uso eterodosso della voce che faceva Kathy Berberian, che
vidi un
paio di volte a Londra, mi ispirò a usare la mia voce in
modo simile,
ma suonando il flauto nello stesso tempo. Mi piace anche cantare e
mugolare suonando, però non all’unisono, ma in
armonia sopra o sotto le
note che suono, oppure tenere una nota con la voce e suonarne allo
stesso tempo delle altre sul flauto e viceversa. Voglio però
che tutto
abbia un significato, non che sia un semplice effetto. Secondo me il
flauto, più di ogni altro strumento, dà a chi lo
suona l’opportunità di
esplorare l’espressione. Recentemente ho modificato il flauto
basso
sostituendone il piede con la ritorta del flauto contrabbasso e
mettendo un tappo di sughero all’estremità. In
questo modo si allunga
molto l’estensione dello strumento verso il basso. Ho poi
fatto la
stessa cosa con il flauto contrabbasso. Il risultato è cosa
da non
credere! Ovviamente, con queste modifiche i flauti perdono molte delle
loro note proprie, ma non è un problema
insuperabile. Capisco bene che
da quello che ho appena detto potresti immaginare la mia musica come
molto astratta e sperimentale. Invece no: è assai
jazzistica, ritmica, bluesy e perfino straight
ahead. Per quanto riguarda la musica pop, mi piacque molto
suonare con i John Barry 7. Mi piacevano i temi e gli arrangiamenti. La
front line
era composta da tromba, sax tenore e sax baritono, una bella
“texture”
e una bella combinazione di colori. Anche lavorare con Chris Andrews fu
divertente, perché Chris sapeva davvero cantare il blues.Ma
quello che
suonavamo dal vivo era molto diverso da quello che facevamo sui dischi.
Il suo grande successo, Yesterday Man, lo facevamo
subito
all’inizio, per far contenti i fan, e poi ci davamo dentro. Quasi tutti
i nostri pezzi erano blues di dodici battute, pieni di riff…
e io avevo
molte occasioni di assolo. The Earth Band non era il mio tipo di cosa.
Manfred suonava bene, ma quel genere di percussione, prevedibile,
rigido, insulso, mi annoiava. Il jazz, naturalmente, mi aveva
conquistato dal primissimo momento in cui avevo cominciato a suonare il
sax tenore. Non conoscevo la musica, ma cominciai a improvvisare e a
comporre con il sax fin dal primo giorno, e per la prima settimana
circa escogitai perfino una mia personale notazione musicale,
finché
non mi misi a imparare a leggere la musica. Comunque, mi parve fosse il
momento di prendermi una pausa dalla musica pop e infatti, per un paio
d’anni, frequentai la scena dei club lavorando ogni sera in
due locali
diversi, sei giorni la settimana dalle nove di sera alle quattro e
mezza del mattino, con appena un’ora di pausa. Capitava
perfino che di
domenica avessimo un ingaggio in qualche hotel, con due set di
un’ora,
ma solo lì.
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Rispetto al night club, era vacanza. La grande
occasione mi
arrivò inaspettata, una commissione del Ballet Rambert. Da
allora potei
concentrarmi completamente sulle mie attività musicali e
smettere di
suonare nei club. Era il 1969. Negli anni Settanta ti sei sempre mostrato
interessato a diversi
tipi di musica: jazz, rock, contemporanea, classica, elettronica,
orientale… Si direbbe che tu abbia sempre cercato di
espandere il tuo
spettro d’influenze. A questo proposito, vuoi parlarci delle
tue
principali fonti d’ispirazione (Ornette Coleman,
Severino Gazzelloni,
Roland Kirk ecc.)? I dischi di Miles Davis della
fine degli anni
Cinquanta mi furono di grande ispirazione. Anche con Coltrane nel
disco, era sempre a lui che io prestavo più attenzione. Mi
piaceva Stan
Kenton ma un giorno, avevo solo diciannove anni e vivevo ancora in
famiglia, mia madre accennò al fatto che quella musica la
deprimeva, e
così, per correre il rischio di suonarla nei suoi
pressi… buttai tutti
i dischi nella spazzatura. Mi piaceva come suonava Ornette: ma ero
l’unico fra i miei amici appassionati di jazz che lo
apprezzava
veramente. Essi facevano commenti stupidi su Coleman, dicendo che non
sapeva suonare, ma la cosa non mi distolse. Fu anche allora che sentii
il pezzo di Sonny Rollins Doxy, su un ep, e ne fui
catturato.
Qualche anno dopo ascoltai dei dischi di Kirk e m’innamorai
del
fischietto da naso che suonava alla fine degli assoli. Un tocco di
genio compositivo! D’altra parte mi piaceva ascoltare
compositori quali
Petrassi, Debussy e Penderecki. A proposito, fu John Stevens che una
volta venne a trovarmi portandomi un disco di Gazzelloni
perché lo
sentissi. E lo sentii! Affascinante! Malgrado le tue varie collaborazioni con tanti
musicisti e
compositori della scena britannica (Guy, Tippett, Westbrook, Russell
ecc.), hai sempre preferito tenerti appartato dal circuito emergente
del jazz britannico per seguire la tua strada. È vero? La
scena
del jazz in quegli anni ricadeva essenzialmente in due categorie:
gruppi che suonavano solo standard e gruppi che suonavano solo free
jazz. Io non rientravo né nell’una, né
nell’altra.Non ho nulla contro
gli standard, anzi, ne ammiro la maggior parte, soprattutto quando mi
ricordo di mia mamma che cantava Body and Soul, The Man I
Love, Summertime
e tanti altri. Ma non mi piace, quando improvviso, essere sottoposto al
vincolo della forma AABA. Quello che mi dà fastidio dei
gruppi jazz è
quando suonano il tema e poi partono con improvvisazioni che con il
tema non c’entrano più niente. Certo, nella mia
musica ci sono anche
elementi di free jazz. C’era chi veniva a chiedermi quanto
nei miei
assoli fosse improvvisato e quanto fosse composto. A me piace pensare a
quel che faccio quando suono come ad una “composizione
istantanea”.
Hai mai suonato all’Old Place o al Little
theatre Club di Londra? Sì,
qualche volta, ma ho dovuto staccarmente per approfondire la mia
ricerca e non venire “sviato” da altre forme
musicali parallele. |