Di
Bob Downes, uno degli agitatori più eclettici della scena
jazz
britannica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, se ne erano
perse le tracce. Ma ecco l’anno scorso fare capolino prima la
ristampa
di Diversions del 1971, capolavoro di
“open” jazz rimesso in
circolazione da Mike Dutton della Vocalion, e, a seguire, le riedizioni
di altri due lavori importanti della discografia del jazzista, Episodes
at 4 AM e Hells Angels.
Ma la ciliegina sulla torta deve ancora arrivare: entro dicembre, la
Reel Recordings di Mike King pubblicherà una
registrazione inedita del
collettivo Bob Downes Open Music: Crossing Borders
del 1974 con
Downes accompagnato da Barry Guy, Brian Godding, Paul Rutherford, John
Stevens e altri. Musicista colto e amante delle contaminazioni,
virtuoso del flauto e compositore di musiche per compagnie teatrali e
ensemble di danza contemporanea, Downes vanta un’avventurosa
carriera
più che quarantennale, tutta da raccontare. Dagli inizi con
i John
Barry 7 alle collaborazioni con Mike Westbrook, Keith Tippett, Ray
Russell, John Stevens, Barre Philips, Lindasy Cooper, Julie
Driscoll,
ecc. fino al lancio agli inizi degli anni Settanta della
“sua” Open
Music, uno dei collettivi musicali tra i più fertili e
“avanti”
dell’epoca al pari della Spontaneous Music Ensemble o
dell’AMM di Eddie
Prévost e Keith Rowe. Un percorso che nel decennio
successivo ha
lambito anche la poesia e che negli ultimi anni ha incrociato nuovi
universi con la composizione di temi sempre più rarefatti e
meditativi.
Cominciamo dal tuo ultimo disco, Crossing
Borders,
registrato negli anni Settanta. Vuoi dirci in breve la genesi di questo
lavoro finora inedito, che coinvolge molti musicisti
dell’area del jazz
britannico quali Brian Godding, Paul Rutherford, Barry Guy, John
Stevens e altri? Come li hai radunati? L’ispirazione
a scrivere Crossing Borders
mi venne da uno straordinario tour di sei settimane in Sud America. Non
aspettatevi tuttavia di sentire del “latin jazz”,
non era proprio
quella la mia intenzione. Barry Guy e io ci incontrammo a una jam
session all’Old Place e lì per lì
rimasi di stucco sentendolo e mi
convinsi che un bassista come lui avrebbe dato un contributo magnifico
alle mie idee. In alcuni pezzi di Crossing Borders
uso due bassisti, cosa che ho fatto spesso quando ne ho avuto
l’occasione. Serve a fare sì che il groove
non si perda quando uno dei due bassisti prende l’assolo.
Rutherford e
Stevens li ho incontrati alla scuola di musica della Royal Air Force,
ma per breve tempo, perché venni giudicato abbastanza bravo
da venire
assegnato quasi immediatamente a una delle bande
dell’aviazione,
un’ottima cosa perché così non dovetti
restare a scuola a imparare
tutte quelle terribili scale. Ma anche cattiva, perché non
avrei
rivisto quei due prima di tre anni. Mentre aspettavo di venir mandato
in un’altra caserma, Stevens e io c’incontrammo una
volta sola, per una
jam. La prima cosa che suonammo fu Straight, No Chaser
di Monk. Avevo
appena cominciato il mio assolo che un sergente mi fermò. Mi
sentii
come se mi avessero castrato. Ci disse che il jazz non era consentito.
Una cosa da ridere, visto che i soli che sapessero davvero suonare, in
quelle formazioni, erano i jazzisti. Un’altra volta ci
riuscì di
mettere insieme una jam nel refettorio, ma anche lì dopo
dieci minuti
vennero a dirci di smettere. Per non diventare matto, dovetti usare il
librone del repertorio della banda militare come base per delle
improvvisazioni jazz clandestine durante le parate. Godding lo
incontrati la prima volta mentre suonavo con Mike Westbrook. Mi accorsi
subito che aveva “qualcosa da dire”. Recentemente
Brian mi ha detto che
suonare con me lo ha sempre fatto sentire come se fosse stato buttato
nell’acqua alla sprovvista. Ma si è sempre
dimostrato un nuotatore
eccellente. In Crossing Borders lo si sente
benissimo.
Musicalmente, Crossing Borders
è un’evoluzione del tuo tipico jazz
multiculturale, come espresso in Diversions, la tua
fondamentale opera del 1971 sulla tua etichetta Openian? Certamente
il titolo del cd non solo afferma che ho letteralmente attraversato
innumerevoli frontiere del Sud America, ma anche che le esperienze e le
atmosfere che ho incontrato in quell’enorme continente mi
hanno
permesso di continuare a oltrepassare i miei propri confini culturali e
di comporli in un mosaico musicale.
Come hai sviluppato il tuo stile strumentale? So che
hai
cominciato suonando con i John Barry 7 e con complessi e cantanti pop
come Chris Andrews e la Earth Band di Manfred Mann, ma mi pare che tu
avessi intenzione di arrivare presto al jazz più evoluto e
ai territori
dell’avanguardia… Credo che
molto del mio stile venga dal fatto
di non essermi mai esercitato sul serio su scale e arpeggi, che invece
si sentono chiaramente in moltissimi musicisti jazz. Io li aborro!
L’uso eterodosso della voce che faceva Kathy Berberian, che
vidi un
paio di volte a Londra, mi ispirò a usare la mia voce in
modo simile,
ma suonando il flauto nello stesso tempo. Mi piace anche cantare e
mugolare suonando, però non all’unisono, ma in
armonia sopra o sotto le
note che suono, oppure tenere una nota con la voce e suonarne allo
stesso tempo delle altre sul flauto e viceversa. Voglio però
che tutto
abbia un significato, non che sia un semplice effetto. Secondo me il
flauto, più di ogni altro strumento, dà a chi lo
suona l’opportunità di
esplorare l’espressione. Recentemente ho modificato il flauto
basso
sostituendone il piede con la ritorta del flauto contrabbasso e
mettendo un tappo di sughero all’estremità. In
questo modo si allunga
molto l’estensione dello strumento verso il basso. Ho poi
fatto la
stessa cosa con il flauto contrabbasso. Il risultato è cosa
da non
credere! Ovviamente, con queste modifiche i flauti perdono molte delle
loro note proprie, ma non è un problema
insuperabile. Capisco bene che
da quello che ho appena detto potresti immaginare la mia musica come
molto astratta e sperimentale. Invece no: è assai
jazzistica, ritmica, bluesy e perfino straight
ahead. Per quanto riguarda la musica pop, mi piacque molto
suonare con i John Barry 7. Mi piacevano i temi e gli arrangiamenti. La
front line
era composta da tromba, sax tenore e sax baritono, una bella
“texture”
e una bella combinazione di colori. Anche lavorare con Chris Andrews fu
divertente, perché Chris sapeva davvero cantare il blues. Ma
quello che
suonavamo dal vivo era molto diverso da quello che facevamo sui dischi.
Il suo grande successo, Yesterday Man, lo facevamo
subito
all’inizio, per far contenti i fan, e poi ci davamo dentro.
Quasi tutti
i nostri pezzi erano blues di dodici battute, pieni di riff…
e io avevo
molte occasioni di assolo. The Earth Band non era il mio tipo di cosa.
Manfred suonava bene, ma quel genere di percussione, prevedibile,
rigido, insulso, mi annoiava. Il jazz, naturalmente, mi aveva
conquistato dal primissimo momento in cui avevo cominciato a suonare il
sax tenore. Non conoscevo la musica, ma cominciai a improvvisare e a
comporre con il sax fin dal primo giorno, e per la prima settimana
circa escogitai perfino una mia personale notazione musicale,
finché
non mi misi a imparare a leggere la musica. Comunque, mi parve fosse il
momento di prendermi una pausa dalla musica pop e infatti, per un paio
d’anni, frequentai la scena dei club lavorando ogni sera in
due locali
diversi, sei giorni la settimana dalle nove di sera alle quattro e
mezza del mattino, con appena un’ora di pausa. Capitava
perfino che di
domenica avessimo un ingaggio in qualche hotel, con due set di
un’ora,
ma solo lì. Rispetto al night club, era vacanza. La grande
occasione mi
arrivò inaspettata, una commissione del Ballet Rambert. Da
allora potei
concentrarmi completamente sulle mie attività musicali e
smettere di
suonare nei club. Era il 1969.
Negli anni Settanta ti sei sempre mostrato
interessato a diversi
tipi di musica: jazz, rock, contemporanea, classica, elettronica,
orientale… Si direbbe che tu abbia sempre cercato di
espandere il tuo
spettro d’influenze. A questo proposito, vuoi parlarci delle
tue
principali fonti d’ispirazione (Ornette Coleman,
Severino Gazzelloni,
Roland Kirk ecc.)? I dischi di Miles Davis della
fine degli anni
Cinquanta mi furono di grande ispirazione. Anche con Coltrane nel
disco, era sempre a lui che io prestavo più attenzione. Mi
piaceva Stan
Kenton ma un giorno, avevo solo diciannove anni e vivevo ancora in
famiglia, mia madre accennò al fatto che quella musica la
deprimeva, e
così, per correre il rischio di suonarla nei suoi
pressi… buttai tutti
i dischi nella spazzatura. Mi piaceva come suonava Ornette: ma ero
l’unico fra i miei amici appassionati di jazz che lo
apprezzava
veramente. Essi facevano commenti stupidi su Coleman, dicendo che non
sapeva suonare, ma la cosa non mi distolse. Fu anche allora che sentii
il pezzo di Sonny Rollins Doxy, su un ep, e ne fui
catturato.
Qualche anno dopo ascoltai dei dischi di Kirk e m’innamorai
del
fischietto da naso che suonava alla fine degli assoli. Un tocco di
genio compositivo! D’altra parte mi piaceva ascoltare
compositori quali
Petrassi, Debussy e Penderecki. A proposito, fu John Stevens che una
volta venne a trovarmi portandomi un disco di Gazzelloni
perché lo
sentissi. E lo sentii! Affascinante!
Malgrado le tue varie collaborazioni con tanti
musicisti e
compositori della scena britannica (Guy, Tippett, Westbrook, Russell
ecc.), hai sempre preferito tenerti appartato dal circuito emergente
del jazz britannico per seguire la tua strada. È vero? La
scena
del jazz in quegli anni ricadeva essenzialmente in due categorie:
gruppi che suonavano solo standard e gruppi che suonavano solo free
jazz. Io non rientravo né nell’una, né
nell’altra.Non ho nulla contro
gli standard, anzi, ne ammiro la maggior parte, soprattutto quando mi
ricordo di mia mamma che cantava Body and Soul, The Man I
Love, Summertime
e tanti altri. Ma non mi piace, quando improvviso, essere sottoposto al
vincolo della forma AABA. Quello che mi dà fastidio dei
gruppi jazz è
quando suonano il tema e poi partono con improvvisazioni che con il
tema non c’entrano più niente. Certo, nella mia
musica ci sono anche
elementi di free jazz. C’era chi veniva a chiedermi quanto
nei miei
assoli fosse improvvisato e quanto fosse composto. A me piace pensare a
quel che faccio quando suono come ad una “composizione
istantanea”.
Hai mai suonato all’Old Place o al Little
theatre Club di Londra? Sì,
qualche volta, ma ho dovuto staccarmente per approfondire la mia
ricerca e non venire “sviato” da altre forme
musicali parallele.
Come consideri oggi le tue prime opere, come Electric
City e Deep Down Heavy,
jazz eccentrico contaminato con un chiaro approccio di rock duro? E che
mi dici dell’esperienza dei Rock Workshop con il chitarrista
Ray
Russell? La Vertigo Records mi chiese di fare un
disco proprio nel momento in cui ero pronto a lasciarmi andare.
Così è nato Electric City.
Mi domandarono pezzi relativamente brevi, ovviamente con
l’intenzione
di fare un singolo con ognuno di essi. Non ci fu quindi la
possibilità
di assegnare assoli a musicisti come Kenny Wheeler, Harold Beckett e
Ian Carr, cosa che avrei amato fare. Ma in quel modo si sarebbe
trattato di un album di jazz, che non era quello che mi era stato
chiesto. Era anche la prima volta che lavoravo con un paroliere. Mi
pare che lavorai sulla maggior parte dei pezzi, scrivendo per prima
cosa una linea di chitarra-basso, poi un tema, e poi interveniva Bob
Cockburn con le parole. Prima della seduta di registrazione chiesi a
Ray Russell, che è un nome d’arte che inventai per
lui per puro caso ai
tempi dei “John Barry 7”, di portare la sua
chitarra a dodici corde, ma
lui non lo fece. Spesso mi chiedo come sarebbe risultato
l’album se
l’avesse portata, perché il suono di quello
strumento mi piace davvero.
Mi piace come suonano le ottave. Per esempio, un unisono
all’ottava di
sax tenore e tromba, non c’è niente di meglio.
Senti questa storia: a
Londra ho un amico cinese, un musicista, che faceva le prove del suo
gruppo cinese nel seminterrato di casa. Come saprai, la musica cinese
è
tutta all’unisono. Quando avevo con me il flauto, mi univo a
loro
improvvisando e ti assicuro che mi guardavano davvero stranamente.
Dov’ero rimasto? Ah sì! Uno dei trombettisti stava
uscendo dalla studio
dopo l’ultima seduta di Electric City e
mi accorsi che la sua
camicia era intrisa di sudore. Probabilmente per tutti quei La e Mi
bemolle sopracuti presenti negli arrangiamenti, nei quali, ti assicuro,
non fu usato alcun loop. Vederlo in quello stato mi
fece
sentire colpevole, dunque lo richiamai e gli diedi qualcosa in
più di
tasca mia. Kenny Wheeler non ebbe niente perché se
n’era già andato. Mi
dispiace, Kenny! Deep Down Heavy fu
registrato poco dopo Electric City.
In alcuni di questi pezzi mi si sente suonare sull’autobus o
sulla
metropolitana, che era la cosa che più mi piacque di quel
progetto. Gli
altri furono registrati per lo più alla Caxton Hall di
Londra, luogo
usato soprattutto per registrare musica classica. Data la roba pesante
che dovevamo fare noi, le eccellenti proprietà acustiche
risultavano un
po’ troppo riverberanti. Diventava difficile sentirci fra noi
e anche
per ciascuno sentire se stesso. Proposi allora di disporci a cerchio e
questo rese le cose molto più facili. In nessuno dei due
album c’è
alcun editing, che del resto sarebbe stato
impossibile sulla registrazione di Deep Down Heavy,
dato il riverbero di 3-4 secondi della sala. Quando ai Rock Workshop di
Ray Russell, prendervi parte è stato un vero spasso. Nel
disco canta
anche Alex Harvey, splendido! La registrazione fu fatta in due giorni
di delirio non-stop e quando tutto fu finito mi sentii triste. Era come
se una famiglia si disintegrasse. Sarei andato avanti a suonare per
sempre!
Qual è la collaborazione più
interessante della tua lunga carriera? Quella
con la danza moderna. Mi ha dato tanta libertà. Rimasi
esterrefatto nel
vedere che cosa un coreografo potesse fare con le mie composizioni.
E chi è il miglior musicista/compositore
che hai mai conosciuto, o con cui hai suonato? Non
ho mai avuto dei preferiti in nessun campo, mi sembrerebbe di
limitarmi. Sono innumerevoli i musicisti che amo. Ciò detto,
quello che
Barre Phillips ha fatto come bassista del mio Open Music Trio quando ha
suonato la mia partitura jazzistica Diversions a
Parigi e a Berlino, nella tournée del London Contemporary
Dance Theatre, mi ha davvero entusiasmato. Barry Guy, quando
suona con l’archetto, mi lascia sempre senza fiato.
Registrando Diversions,
gli lasciai molte opportunità per usarlo. Volevo far sentire
quello che
era in grado di fare, perché di norma i contrabbassisti di
jazz con
l’arco non se la cavano molto bene. Barry sapeva anche
fornire un
ottimo groove. Mi è sempre piaciuto
suonare con il batterista
Denis Smith, un uomo che conosce musiche di tanti diversi stili.
Insieme andiamo che è un piacere. Non suona mai troppo
forte, il che è
importantissimo per chi accompagna un flautista. Mi ricordo che una
volta, durante l’intervallo di una scrittura, mi stavo
alterando con
Denis, non avevo capito perché diamine avesse smesso per un
po’ di
suonare durante un numero. “Ti stavo ascoltando”,
mi ha risposto.
Questo è tipico di lui, con chiunque suoni lui ascolta
veramente la
musica e sa integrarvi le sue idee per il meglio. Denis e io abbiamo
suonato jazz insieme per la prima volta nella nostra città
natale,
Plymouth, verso il 1956, anno in cui abbiamo tutti e due cominciato a
suonare uno strumento. Si può ben dire che, musicalmente,
siamo venuti
su insieme.
Come mai hai deciso, verso la fine degli anni
Sessanta, di creare
la tua etichetta indipendente Openian? Molti altri compositori jazz
hanno seguito il tuo esempio, come Graham Collier (Mosaic) o Hazel
Miller (Ogun). Beh, avevo registrato Diversions
e Hells Angels
per la Philips, doveva essere un disco doppio. Loro volevano
pubblicarlo, ma mi opposi. Avrei avuto l’impressione di dare
via parte
della mia anima. Di conseguenza, alla fine non se ne fece niente. La
mia posizione negativa fu probabilmente dovuta al fatto che durante le
registrazioni mi proposero una fee di 15 pounds per ogni titolo
arrangiato: in realtà scoprii che tale cifra sarebbe stata
pagata solo
per la composizione Hells Angels della durata di 18
minuti e mezzo. Mi sentii preso in giro e mi arrabbiai molto. Quello
che all’epoca non ero arrivato a capire era che la compagnia
discografica e gli editori erano la stessa cosa e dunque era naturale
che volessero ricuperare dei soldi con le trasmissioni radio etc. Io
comprai i nastri per quasi niente, anzi diciamo per niente,
perché si
erano dimenticati di avermi pagato già l’onorario
come produttore delle
registrazioni. Una volta cessato l’impegno con la Philips, mi
venne in
mente di creare la Openian, la mia etichetta, la cui prima produzione
furono 2000 copie di Diversions. Venderle,
però, risultò difficile, perché le major
del disco minacciarono i distributori che se avessero preso i dischi
della Openian sarebbero incorsi nelle loro rappresaglie.
Il tuo primo disco, Dream Journey
(1969), era una
commissione per il Ballet Rambert. Il tuo rapporto con la danza
è
sempre stato molto stretto e nella tua carriera hai composto per molte
compagnie di balletto o di danza contemporanea. Puoi spiegare le
origini di questo interesse? Bisogna risalire a
quando avevo
quattro anni; m’intrufolavo al cinema e al buio trovavo una
poltrona
libera. I film erano per grandi, molto drammatici, e così
era anche la
musica, che su di me aveva una grande presa che è durata
anche quando
sono cresciuto. Più tardi, lavorando per la danza moderna,
ero io
quello che creava la “colonna sonora” per i
“film” drammatici che si
svolgevano sul palcoscenico. La mia prima partitura per un balletto
moderno mi fu commissionata grazie a un percussionista classico che
conoscevo, Derek Hogg, che poi mi chiese di trovargli un nome migliore.
Diventò Derek Davison e, perbacco, sapeva davvero far
tuonare i
timpani. Derek lavorava con il Ballet Rambert. Una volta venne a casa
mia, curioso di conoscere il mio lavoro musicale. Gli suonai una mia
recente composizione per flauto di due minuti e mezzo. Lui mi
consigliò
di orchestrarla e di ampliarla portandola alla lunghezza adatta a un
lavoro di danza moderna. Mi parve una sfida interessante e la raccolsi,
componendo due movimenti di circa ventisei minuti complessivi. Il primo
movimento per due flauti e tre percussionisti: Davison, Stevens e
Smith. Il secondo movimento con in più due sax tenori, un
sax baritono,
tre trombe, fra cui Kenny Wheeler per le note acute, e un
contrabbassista che doveva suonare un ostinato in 3/8 per quattordici
minuti. Sono contento di non aver dovuto farlo io. È toccato
una volta
ad Harry Miller, un’altra a Daryl Runswick, che suonava di
solito il
basso con Ray Russell. Fu anche allora che incontrai Wendy Benka, che
in seguito avrebbe lavorato con me come musicista. Ora, Wendy conosceva
un coreografo della Rambert che era disperatamente in cerca di qualcosa
di nuovo e diverso. Dunque, raccomandato da Wendy e da Derek, andai a
un appuntamento con il coreografo. Da lì viene Dream
Journey.
Hai anche suonato dal vivo per le compagnie di danza,
ne vuoi parlare? È capitato che mi
venisse commissionata musica per nastro magnetico che era musique
concrète.
Il nastro veniva usato per la rappresentazione e quando la coreografia,
i costumi e le luci erano stati ultimati, io aggiungevo dei nuovi suoni
e suonavo dal vivo seguendo quello che vedevo e improvvisando ogni
volta. Soprattutto con percussioni, perché avevo molti gong,
diversi
tipi di cimbali cinesi e strumenti fatti a mano con ossa, gusci di
lumaca, bastoncini di bambù e qualunque cosa trovassi, che
creavano una
“texture” sonora interessante. Comporre e,
naturalmente, suonare dal
vivo per il balletto è affascinante, perché si fa
esperienza della
musica dentro un medium completamente diverso. Si
vive dentro
il concetto dell’allestimento teatrale e lo si completa e
amplia con la
propria creatività musicale. Quando suonammo Diversions
con il
London Contemporary Dance Theatre, il mio Open Music Trio era
addirittura parte dell’allestimento scenico. Alcuni passaggi
della
musica dovevano essere suonati per corrispondere ai movimenti
coreografici, ma restavano ampie possibilità
d’improvvisazione. L’opera
durava quarantacinque minuti e a volte, alla fine della
rappresentazione, eravamo così eccitati che continuavamo a
suonare in
camerino.
Un’altra area per te di grande interesse
è la poesia. Hai
partecipato anche a reading con William Burroughs, Gregory Corso e
Lawrence Ferlinghetti. Vuoi parlarcene? Sì,
mi sono esibito ad
Amsterdam, Rotterdam, Parigi e Roma. Sono stato citato come poeta e
sono stato il solo a esibirsi con musica. In uno di questi festival ho
cantato una mia canzone che conteneva le parola
“Cocaina… c’è chi la
tira… ti brucia il cervello”. Gregory Corso era
fra il pubblico e si è
messo a gridare “No, cazzo, non è vero, non
è vero, cazzo”. Gregory era
un simpaticone. Sono stato anche a un festival di poesia a Roma, nel
parco di Villa Borghese, con migliaia di persone sedute
sull’erba. A un
certo punto, mentre Steve Lacy stava preparando il microfono per il suo
sax soprano, mi misi dietro il pubblico e, con la mia voce da
“West
Side Story”, gridai “Maria!!!”. Come mi
aspettavo, centinaia di teste
femminili si girarono a cercare chi le stesse chiamando.
Verso la fine degli anni Settanta ti sei trasferito
in Germania,
dove vivi tuttora. Hai cambiato anche direzione artistica: basta jazz
e, al suo posto, musica meditativa e ambient. Perché? Potrebbe
entrarci il fatto che improvvisamente mi trovo a vivere isolato nella
campagna dopo quasi vent’anni a Londra. Un giorno mia moglie
è venuta
nel mio studio e mi ha suggerito di pensare a un lavoro imperniato su
Stonehenge. All’epoca possedevo un flauto basso
dell’ex-Germania
orientale. Era eccellente per gli ipertoni, che usai nella composizione
per evocare l’aspetto magico di quel cerchio di pietre
vecchio di
cinquemila anni. A volte mi viene anche chiesto di comporre musica in
relazione a dipinti e a sculture. Una volta, a una mostra, Tina se ne
è
uscita con l’idea di suonare sopra una registrazione di
monaci tibetani
che cantavano l’OM che si sentiva tramite gli altoparlanti
nel luogo
dove stavo preparando i miei strumenti. Di conseguenza, nei tre anni
successivi ho prodotto tre cd con questo OM, in cui suono i sax tenore,
alto e soprano, il flauto, il flauto contralto, il flauto basso, il
flauto contrabbasso, il flauto giapponese di bambù,
l’ocarina e il
flauto di vetro. Una volta suonai il flauto di vetro in un concerto e
uno del pubblico mi gridò che non era vero che era di vetro.
“Ah no?”,
ho risposto. “Adesso lo sbatto contro l’asta del
microfono e se non si
rompe ti dò mille euro; se invece si rompe, li dai tu a
me”. Si è
rannicchiato sulla poltrona e non l’ho più
sentito. E bada, non sarei
stato contento di vincere la scommessa, se lui avesse accettato.
Hai in archivio qualcosa d’inedito? Nuovi
progetti in fase di realizzazione? Curioso
che tu me lo chieda, perché continuano ad arrivarmi per
posta nastri
dal vivo del mio Open Music Trio, che un mio fan ha registrato ancora
nei buoni vecchi anni Settanta. Quanto a nuovi progetti, sto
lavorando su nuove composizioni per i miei flauti e i loro ammennicoli.
Ho risagomato anche tutti i bocchini dei miei sax, di recente, e ho
scoperto un nuovo approccio agli strumenti.
Traduzione dall'inglese
di Marco Bertoli
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