Come
consideri oggi le tue prime opere, come Electric
City e Deep Down Heavy,
jazz eccentrico contaminato con un chiaro approccio di rock duro? E che
mi dici dell’esperienza dei Rock Workshop con il chitarrista
Ray
Russell? La Vertigo Records mi chiese di fare un
disco proprio nel momento in cui ero pronto a lasciarmi andare.
Così è nato Electric City.
Mi domandarono pezzi relativamente brevi, ovviamente con
l’intenzione
di fare un singolo con ognuno di essi. Non ci fu quindi la
possibilità
di assegnare assoli a musicisti come Kenny Wheeler, Harold Beckett e
Ian Carr, cosa che avrei amato fare. Ma in quel modo si sarebbe
trattato di un album di jazz, che non era quello che mi era stato
chiesto. Era anche la prima volta che lavoravo con un paroliere. Mi
pare che lavorai sulla maggior parte dei pezzi, scrivendo per prima
cosa una linea di chitarra-basso, poi un tema, e poi interveniva Bob
Cockburn con le parole. Prima della seduta di registrazione chiesi a
Ray Russell, che è un nome d’arte che inventai per
lui per puro caso ai
tempi dei “John Barry 7”, di portare la sua
chitarra a dodici corde, ma
lui non lo fece. Spesso mi chiedo come sarebbe risultato
l’album se
l’avesse portata, perché il suono di quello
strumento mi piace davvero.
Mi piace come suonano le ottave. Per esempio, un unisono
all’ottava di
sax tenore e tromba, non c’è niente di meglio. Senti questa storia: a
Londra ho un amico cinese, un musicista, che faceva le prove del suo
gruppo cinese nel seminterrato di casa. Come saprai, la musica cinese
è
tutta all’unisono. Quando avevo con me il flauto, mi univo a
loro
improvvisando e ti assicuro che mi guardavano davvero stranamente.
Dov’ero rimasto? Ah sì! Uno dei trombettisti stava
uscendo dalla studio
dopo l’ultima seduta di Electric City e
mi accorsi che la sua
camicia era intrisa di sudore. Probabilmente per tutti quei La e Mi
bemolle sopracuti presenti negli arrangiamenti, nei quali, ti assicuro,
non fu usato alcun loop. Vederlo in quello stato mi
fece
sentire colpevole, dunque lo richiamai e gli diedi qualcosa in
più di
tasca mia. Kenny Wheeler non ebbe niente perché se
n’era già andato. Mi
dispiace, Kenny! Deep Down Heavy fu
registrato poco dopo Electric City.
In alcuni di questi pezzi mi si sente suonare sull’autobus o
sulla
metropolitana, che era la cosa che più mi piacque di quel
progetto. Gli
altri furono registrati per lo più alla Caxton Hall di
Londra, luogo
usato soprattutto per registrare musica classica. Data la roba pesante
che dovevamo fare noi, le eccellenti proprietà acustiche
risultavano un
po’ troppo riverberanti. Diventava difficile sentirci fra noi
e anche
per ciascuno sentire se stesso. Proposi allora di disporci a cerchio e
questo rese le cose molto più facili.
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In nessuno dei due
album c’è
alcun editing, che del resto sarebbe stato
impossibile sulla registrazione di Deep Down Heavy,
dato il riverbero di 3-4 secondi della sala. Quando ai Rock Workshop di
Ray Russell, prendervi parte è stato un vero spasso. Nel
disco canta
anche Alex Harvey, splendido! La registrazione fu fatta in due giorni
di delirio non-stop e quando tutto fu finito mi sentii triste. Era come
se una famiglia si disintegrasse. Sarei andato avanti a suonare per
sempre! Qual è la collaborazione più
interessante della tua lunga carriera? Quella
con la danza moderna. Mi ha dato tanta libertà. Rimasi
esterrefatto nel
vedere che cosa un coreografo potesse fare con le mie composizioni. E chi
è il miglior musicista/compositore
che hai mai conosciuto, o con cui hai suonato? Non
ho mai avuto dei preferiti in nessun campo, mi sembrerebbe di
limitarmi. Sono innumerevoli i musicisti che amo. Ciò detto,
quello che
Barre Phillips ha fatto come bassista del mio Open Music Trio quando ha
suonato la mia partitura jazzistica Diversions a
Parigi e a Berlino, nella tournée del London Contemporary
Dance Theatre, mi ha davvero entusiasmato. Barry Guy, quando
suona con l’archetto, mi lascia sempre senza fiato.
Registrando Diversions,
gli lasciai molte opportunità per usarlo. Volevo far sentire
quello che
era in grado di fare, perché di norma i contrabbassisti di
jazz con
l’arco non se la cavano molto bene. Barry sapeva anche
fornire un
ottimo groove. Mi è sempre piaciuto
suonare con il batterista
Denis Smith, un uomo che conosce musiche di tanti diversi stili.Insieme
andiamo che è un piacere. Non suona mai troppo
forte, il che è
importantissimo per chi accompagna un flautista. Mi ricordo che una
volta, durante l’intervallo di una scrittura, mi stavo
alterando con
Denis, non avevo capito perché diamine avesse smesso per un
po’ di
suonare durante un numero. “Ti stavo ascoltando”,
mi ha risposto.
Questo è tipico di lui, con chiunque suoni lui ascolta
veramente la
musica e sa integrarvi le sue idee per il meglio. Denis e io abbiamo
suonato jazz insieme per la prima volta nella nostra città
natale,
Plymouth, verso il 1956, anno in cui abbiamo tutti e due cominciato a
suonare uno strumento. Si può ben dire che, musicalmente,
siamo venuti
su insieme.
Come mai hai deciso, verso la fine degli anni
Sessanta, di creare
la tua etichetta indipendente Openian? Molti altri compositori jazz
hanno seguito il tuo esempio, come Graham Collier (Mosaic) o Hazel
Miller (Ogun). Beh, avevo registrato Diversions
e Hells Angels
per la Philips, doveva essere un disco doppio. Loro volevano
pubblicarlo, ma mi opposi. Avrei avuto l’impressione di dare
via parte
della mia anima. Di conseguenza, alla fine non se ne fece niente. La
mia posizione negativa fu probabilmente dovuta al fatto che durante le
registrazioni mi proposero una fee di 15 pounds per ogni titolo
arrangiato: in realtà scoprii che tale cifra sarebbe stata
pagata solo
per la composizione Hells Angels della durata di 18
minuti e mezzo. Mi sentii preso in giro e mi arrabbiai molto. Quello
che all’epoca non ero arrivato a capire era che la compagnia
discografica e gli editori erano la stessa cosa e dunque era naturale
che volessero ricuperare dei soldi con le trasmissioni radio etc. Io
comprai i nastri per quasi niente, anzi diciamo per niente,
perché si
erano dimenticati di avermi pagato già l’onorario
come produttore delle
registrazioni. Una volta cessato l’impegno con la Philips, mi
venne in
mente di creare la Openian, la mia etichetta, la cui prima produzione
furono 2000 copie di Diversions. Venderle,
però, risultò difficile, perché le major
del disco minacciarono i distributori che se avessero preso i dischi
della Openian sarebbero incorsi nelle loro rappresaglie. |