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IL LIMBO DELL’ETERNITÀ

di Adolfo Fattori


spadaIl 12 aprile 1961 il Maggiore dell’Aeronautica sovietica Jurij Gagarin decolla con la navicella Vostok 1 – poco più di quattro tonnellate e mezzo, una scatoletta, non un’astronave delle dimensioni mastodontiche dell’Enterprise di Star Trek, intendiamoci – per diventare ufficialmente il primo essere umano che si staccherà dalla Terra per girarvi intorno dallo spazio, fuori della diretta attrazione terrestre, fuori dell’atmosfera. 
Forare la membrana ideale che ci separa dal vuoto, dal nulla dello spazio esterno ha un valore enorme, elevato all’esponente rispetto – ad esempio – a quello pur ragguardevole di staccarsi semplicemente dal suolo con una macchina, con un artefatto semovente, come avevano fatto i fratelli Wright nel 1903, dando la nascita all’aviazione moderna, quella a motore.
In meno di sessant’anni la barriera della gravità terrestre, fino ad allora virtualmente infrangibile, era stata frantumata. La fisica newtoniana – dopo aver dato forma all’universo post-arcaico, matematico, disegnato attorno alle leggi della gravitazione universale – aveva fornito gli strumenti teorici per essere sconfitta.
E possiamo immaginare che l’entusiasmo scatenato da queste due vere e proprie conquiste dell’intelligenza e dell’audacia – sì, perché no? – dell’uomo fu nei due casi simile, paragonabile: ogni tempo ha i suoi traguardi da raggiungere. Karl Marx scriveva che gli uomini si pongono i problemi solo quando si affacciano le condizioni per risolverli. Un corollario, o una parafrasi, di questa affermazione potrebbe essere che ogni epoca si applica ai problemi che può risolvere. 
Per gli uomini dell’Occidente che stavano conquistando il Novecento e diventando le popolazioni delle metropoli, il volo aereo fu una conquista straordinaria, una conferma della forza del fiume del progresso. Per gli abitanti – entusiasti – della “società dei consumi”, fu lo stesso per la “conquista dello spazio”, come fu battezzata. Certo, il volo di Gagarin era il primo passo, e fra l’altro il maggiore era un sovietico, ma questi erano dettagli: rappresentava l’Umanità! e non si poteva dubitare che ce ne sarebbero stati altri. E infatti, solo otto anni dopo, fu la volta della Luna: un’accelerazione straordinaria, nelle prospettive della società occidentale. Poi, di fatto, questa velocità ha rallentato: l’energia finanziaria che aveva nutrito la spinta verso l’esplorazione dello spazio – insieme agli entusiasmi di una generazione cresciuta col mito del progresso, e a quella dei lettori di fantascienza che davvero sognavano il cosmo – si affievolì, anche se non si è mai spenta del tutto. 
Ma un conto è l’idea dell’uomo nello spazio, un conto è la consapevolezza che ci vada un piccolo robot semovente e con una telecamera che guarda per noi…
D’altra parte, neanche l’atteggiamento degli uomini dell’Occidente era universalmente favorevole: profeti di sventura – quelli ce ne sono sempre – esponenti religiosi, credenti nelle “cose che si vedono nel cielo” esprimevano una contrarietà che forse in alcuni era addirittura più profonda di quella che emergeva dalle “razionalizzazioni” (si fa per dire) che ne facevano costoro: la barriera fisica che ci separava dallo spazio interstellare era percepita anche come una porta che, forse, era meglio non varcare.
E forse a questo atteggiamento saranno riconducibili poi gli scoop di coloro che sosterranno che sulla Luna, in realtà, l’uomo non ci è mai arrivato, come Peter Kaysing in un famoso libro del 1974, We never went to the Moon (cfr. De Notaris, 2009). Come se la verità o meno dello sbarco sulla Luna avesse davvero importanza, per le mappe dell’immaginario collettivo e le geografie degli universi simbolici in cui ci muoviamo.
In contraddizione, peraltro, con i dubbi insinuati da due radioamatori italiani, i fratelli Judica Cordiglia, che sostennero di aver intercettato e registrato con i loro strumenti voci umane provenienti dallo spazio ben prima del volo di Gagarin, attribuibili per loro ad astronauti sovietici decollati e dispersi nel cosmo – di cui, per questo, l’Unione sovietica non avrebbe mai dato notizia.
Naturalmente, attorno a queste affermazioni sorse un vero e proprio – anche se limitato – movimento a sostegno dei due fratelli. Ad arricchire, non a sminuire, anche in questo caso, l’immaginario della modernità.
Una dimensione, quella del complotto, che appartiene a quell’area  escatologica e millenarista che periodicamente riemerge in forme nuove, e che in quegli anni, agli albori dell’esplosione della cultura New Age, si nutriva principalmente di avvistamenti di Ufo e di “Men in Black”, prima di prendere la deriva più mistica delle discipline orientali o comunque esotiche, fino alle utopie “extropiane” nate con il Web (cfr. Davis, 2001), ma che probabilmente si nutriva anche di un senso più archetipico di incertezza nei confronti dell’abbandono delle radici terrestri – o forse della violazione di uno spazio sacro – da parte dell’umanità moderna.

 

Proviamo a immedesimarci in coloro che – a differenza di noi – sono appartenuti ad un’epoca in cui ancora nessuno, se non nei miti e nelle narrazioni meravigliose, aveva sconfitto la gravità terrestre. Il senso di spaesamento e di incertezza, il terrore di scoprire che magari l’universo non si riduceva ad un luogo vuoto retto da leggi matematiche, ma che poteva nascondere insidie imprevedibili – o messe troppo facilmente da parte – a bilanciare il senso di aspettativa e di trionfo per quest’ulteriore dimostrazione della potenza, del coraggio, della sagacia dell’umanità, il trionfo del sogno umanista: con le parole di Leon Battista Alberti “L’uomo può fare qualunque cosa, purché lo voglia.” Ecco, forse il primo viaggio nello spazio coglie il fulcro di uno dei punti di catastrofe del percorso della modernità, espresso sin dalle sue origini: collocare l’uomo al centro del tutto – il cosmo nato da un atto consapevole di creazione, l’universo nato da un puro caso – sottraendolo all’autorità e alla volontà di Dio è contemporaneamente entusiasmante e spaventoso: entusiasmante perché lo promuove, lo fa responsabile delle sue azioni, ne innesca l’individualizzazione; spaventoso perché lo lascia solo, senza speranze trascendenti, di fronte alla Morte
Jurij Gagarin, solo nello spazio, afferma: “Non vedo nessun Dio quassù” e anche qui la controinformazione di stampo complottista/dietrologico ha lavorato per dimostrare che la frase gli fu attribuita dalla propaganda sovietica, come se cambiasse qualcosa sul piano dell’immaginario. Di sicuro Gagarin dichiarò: “Potrei continuare a volare nello spazio per sempre.” È un de profundis per il sacro, e un’ipoteca per una sepoltura nello spazio. Quasi a rivendicare la conquista di un’eternità laica, svanita la speranza di quella religiosa.
Volare nello spazio per sempre. Fermato virtualmente il tempo, conquistato un posto nello spazio infinito, entrare in un limbo senza dimensioni, in cui la contingenza non esiste più…
Affascinante, ma anche allucinatoria, come prospettiva: tutto il contrario dell’attivismo dell’uomo dell’Umanesimo – che pure aveva attivato il processo che ci aveva portati nello spazio, attraverso Galileo Galilei, Isaac Newton, Johannes Kepler, Mikołaj Kopernik (Fattori, 2009a) avevano ridotto il cosmo a un meccanismo ad orologeria.
E se la “conquista” dello spazio poteva essere percepita da parte del primo Ulisse postmoderno come l’approdo ad una immensa isola dei Lotofagi, a chi era rimasto quaggiù ed aveva assistito all’impresa, per quanto razionalista fosse, poteva al contrario – cancellando di colpo una delle chiavi di volta dell’immaginario fantascientifico – suscitare suggestioni ben più inquietanti, come se oltrepassare quella membrana simbolica che ci separa dal vuoto interstellare potesse essere – ineluttabilmente – fatale.
Fra il 1962 e il 1963, subito dopo il volo del sovietico, James G. Ballard, grande eretico della science fiction tradizionale – e grande eretico della cultura (Fattori, 2009b) – dedica ben due racconti al volo spaziale umano, Prigione di sabbia (2003) e Un problema di rientro (2004), per poi tornare al tema con un terzo racconto, L’astronauta morto (ibidem), nel 1968, l’anno della morte del cosmonauta russo, schiantatosi banalmente al suolo con un piccolo aereo.

 

Nel primo racconto, collocato più avanti nel futuro, Ballard allestisce uno scenario in cui, nei dintorni di una Cape Canaveral (l’antico nome di Cape Kennedy, modificato dopo l’assassinio del presidente) ormai dismessa e interdetta, nei motel e negli alberghi abbandonati e semisepolti sotto le immense e ondivaghe dune di sabbia marziana “importata” per bilanciare il peso dell’enorme quantità di materiali da costruzione trasportati dalla Terra sul “Pianeta Rosso” che circondano la base spaziale, vive una comunità di individui dislocati, asociali, perduti, braccati dalle forze di sicurezza, dediti a osservare di notte una teoria di navicelle spaziali, monumenti volanti e involontari ai lanci non riusciti, ancora occupati dagli astronauti morti nel tentativo – che ravvivano quotidianamente il ricordo di se stessi negli occhi e nei cuori di chi li aveva amati, come Louise Woodward, la moglie di uno di loro, membro della comunità di sbandati delle dune.
Chiusi nelle loro tombe scintillanti, piccola costellazione orbitante appena al di fuori dell’atmosfera, gli astronauti morti, testimonianza della fallibilità, aspettano di ritornare sula Terra, alla fine di un’eternità provvisoria, quando le ellittiche su cui corrono i loro sarcofagi luminosi si faranno troppo strette per vincere l’attrazione terrestre e collasseranno. Cosa che succede per Merril, uno di loro, proprio quando le squadre di sicurezza riescono a bloccare Travis, il protagonista del racconto, non prima che questi, però, possa almeno toccare, quasi fosse un talismano, un frammento rovente della capsula spaziale caduta, e commenti fra sé e sé come “Disseminato tutt’intorno a lui sulla sabbia marziana, in un certo senso Merril aveva raggiunto Marte, dopotutto.” (Ballard, 2003, p. 552).
Raggiungere un altro pianeta, un altro mondo, l’altro mondo, quasi, nella morte, trovandolo però qui, sul proprio pianeta d’origine, scoprendo che, alla fin fine, i mondi, materiali e trascendenti, sono ubiqui, coincidenti. La conquista dello spazio esterno, dell’immortalità, più che altro come stato mentale di chi sopravvive, e assicura la sopravvivenza degli esploratori degli altri spazi – esterni ed interiori – grazie al ricordo, come Louise Woodward.
Diverso il quadro che lo scrittore inglese disegna in Un problema di rientro. Anche qui la “location” è la Terra, ma non quella crepuscolare e liminale della modernità residuale, quanto lo scenario originario, arcaico, dell’Amazzonia e delle tribù aborigene. Nel racconto è molto più esplicito il richiamo al sacro – un sacro archetipico, ancestrale – al suo conflitto con la modernità, alla sua tenace persistenza, alla sua capacità di sopraffare il moderno. Il protagonista, il tenente Connolly, è incaricato di rintracciare nella jungla amazzonica una capsula spaziale precipitata anni prima, nella speranza di ritrovare, si spera ancora vivo, anche Spender, il pilota della stessa. Viene condotto nella zona del naufragio con una motobarca da Pereira, un brasiliano, e lì incontra un certo Ryker, una sorta di eremita volontario – quasi un emulo di Kurtz, il protagonista di Cuore di tenebra (2003) di Joseph Conrad (Cfr. Caronia, 2004) – che sembra nutrire una vera ossessione per la misurazione del tempo (del tutto incongrua con la scelta di escludersi dal mondo civilizzato) e nega decisamente di sapere qualcosa sulla capsula e su Spender. Connolly e Pereira rapidamente si rendono conto che Ryker nasconde qualcosa, che sa molto di più di quel che fa trapelare, e intanto cercano di decifrare il motivo della sua mania per esattezza dell’ora.
Alla fine scoprono che Ryker sa bene dove è caduta la navicella, si è trovato sul posto proprio mentre succedeva, e ha sfruttato la cosa a suo vantaggio: gli aborigeni appartengono allo stadio in cui il sacro si incentra su un “culto del carico”, per cui credono che prima o poi un vascello proveniente dal cielo atterrerà e porterà loro doni, cibo, prosperità. Cosa che in quel caso è stata confermata dal naufragio della navicella di Spender. Ryker se ne è avvantaggiato, perché può calcolare il momento esatto del passaggio di un satellite, per cui ne profetizza ogni volta il passaggio. Ha costruito il suo carisma di “sacerdote” del culto di carico su una coincidenza fortunata, sacrificando la vita di Spender: gli aborigeni, considerando costui, proveniente dal cielo, un dio, se ne sono ritualmente nutriti, come permette, o prescrive, il loro culto.
Straordinaria e vertiginosa metafora, questo racconto, nel ricondurre alla sfera del sacro uno dei più conseguenti risultati della secolarizzazione: la riduzione del cielo a spazio profano, non più intangibile e ineffabile. Dove l’astronauta, simbolo dell’uomo della modernizzazione, si risacralizza grazie ad una cosmogonia arcaica e primitiva, ma può ritornare al soprannaturale, può diventare lui stesso essenza del sacro solo attraverso il sacrificio.
Un circolo vizioso che chiude le illusioni e le presunzioni moderne sulla demagizzazione del mondo, che Ballard magistralmente chiude in L’astronauta morto ritornando idealmente sulla scena del primo racconto: siamo di nuovo a Cape Kennedy, dismesso da tempo. 
I due protagonisti, amici di un astronauta morto in orbita vent’anni prima, ritornano in attesa che la navicella che gli fa da bara precipiti sulla Terra: sono in contatto con un “cacciatore di reliquie”, uno dei tanto che aspettano la caduta delle capsule morte in orbita per recuperarne le attrezzature e le salme che contengono e venderle al mercato nero. Un modo, anche qui, per conservare il ricordo dei morti – ma forse anche di un tempo entusiasta ormai finito. Per inciso, lo scrittore inglese “ricorda” anche di come, inizialmente, si provò, sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale, di recuperare le salme cercando di realizzare atterraggi controllati per le capsule. Il tentativo si risolse in un disastro: una delle capsule si schiantò nel deserto del Kalahari, e “gli aborigeni […] convinti che i membri dell’equipaggio fossero degli dèi morti, avevano tagliato le loro otto mani ed erano spariti nella boscaglia.” (Ballard, 2004, cit. p. 525).  
Il destino degli astronauti di Ballard è insomma di perdere la vita, di perdersi nello spazio terrestre, uno spazio/tempo in cui naufragano le identità – estensione qui degli spazi interiori della cui esplorazione l’inglese è maestro: “… il tempo, lo spazio, l’identità… i tre pilastri della fantascienza”, come scriverà nel suo Fine millennio: istruzioni per l’uso (1999).
Forse a mascherare una paura più profonda, quella di astronauti condannati all’oblio totale, se destinati a perdersi nello spazio, come in un brano musicale dei Van der Graaf Generator, Pioneer Over C.

 

Left the Earth in 1983,
fingers groping for the galaxies,
reddened eyes stared up into the void,
1.000 stars to be exploited

 

Somebody help me I'm missing, somebody help me
I'm missing now
touch with my mind, I have no frame,

 

Somebody help me I'm losing, somebody help me, I'm losing now
people around, there's no-one to touch,
no people around, no-one to touch.
I am now quite alone, part of a vacant time-zone,
here floating in the void,
only dimly aware of existence, a dimly existing awareness,
I am the lost one, I am the one you fear,
I am the lost one,
I am the one who went up into space, or stayed where I was,
or didn't exist in the first place ...

statua Jurij

 


 

LETTURE

× Ballard J. G., The Cage of Sand, 1962, trad. it. Prigione di sabbia, in Tutti I racconti 1956-1962 Vol. I, Fanucci, Roma, 2003.

× Ballard J. G., A Question of Re-Entry, 1963, trad. it. Un problema di rientro, in Tutti I racconti 1963-1968 Vol. II, Fanucci, Roma, 2004.

× Ballard J. G., The Dead Astronaut, 1968, trad. it. L’astronauta morto, in Ballard, 2004.

× Ballard J. G., A User’s Guide to the Millennium, 1996, trad. it., Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.

× Caronia A., Anni sessanta: il sinistro decennio, in Ballard, 2004.

× Conrad J., Heart of Darkness, , trad. it. Cuore di tenebra, Feltrinelli, Milano, 2003.

× Davis E., Techgnosis, 1998, trad. it. Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 2001.

× De Notaris G., Spazio, ultima frontiera, là dove nessun uomo è mai giunto prima, in Quaderni d’Altri Tempi 18, 2009.

× Fattori A., The Double Side of the Moon, in Quaderni d’Altri Tempi 18, 2009a.

× Fattori A., Un apolide della consapevolezza, in Quaderni d’Altri Tempi 22, 2009b. 21/05/2011.

× Kaysing P., We never went to the Moon, 1974, trad. it. Non siamo mai andati sulla Luna, Cult Media Net Edizioni, Roma, 1997.

 

ASCOLTI

× Van der Graaf Generator, Pioneer Over C., in H to He Who am the Only One, Charisma, 1971, rist. cd Virgin Records, 2005.