Quando Bertolt Brecht decise che un mondo senza eroi doveva
essere un mondo felice, non aveva probabilmente considerato tutte le
opzioni. Sicuramente non era dello stesso parere Jurij Gagarin quando
si accomodò nella strettissima capsula Vostok per essere
lanciato nello spazio, il primo uomo a superare la più
incredibile delle barriere. Del resto, l’Unione sovietica non
aveva avuto molte scelte. Gli americani stavano lavorando sullo stesso
progetto da qualche anno e ormai era solo questione di mesi prima che
ci riuscissero. Bisognava batterli sul filo di lana, com’era
stato fatto con il lancio dello Sputnik, solo quattro anni prima. Ma
questa volta era diverso: non si mandava in orbita un pezzo di ferro,
un cane o una scimmia. Si mandava un uomo. Oggi, a posteriori, la
domanda che molti si pongono è: perché?
Perché poi correre tutti questi rischi, spedire un uomo in
orbita, con poche chance di successo? All’epoca nessuno si
poneva queste domande. Non se l’erano poste, del resto,
nemmeno esploratori del calibro di Peary, Scott, Amudsen nei loro
continui tentativi – alcuni coronati dal successo, altri
destinati al fallimento, anche tragico – di conquistare i
Poli. In fin dei conti cosa poteva esserci ai Poli per
l’essere umano se non ghiaccio e freddo? La constatazione
permette di distinguere perciò, nella vasta categoria degli
“esploratori”, una sotto-categoria di uomini che
non si posero come scopo la semplice scoperta, ma la pura conquista di
un obiettivo, il raggiungimento di un limite estremo. Gagarin non era
Cristoforo Colombo, che nelle Indie fondamentalmente cercava un congruo
ritorno economico; non era nemmeno Livingstone, che accettava i rischi
della malaria e dell’ostilità delle popolazioni
indigene penetrando nel cuore nero dell’Africa per scoprire
le sorgenti del Nilo. Gagarin fu un esploratore-eroe, con un solo
obiettivo in mente: battere gli americani nell’arrivare primo
nello spazio.
Gagarin si poneva così al termine di
un lungo percorso costellato di esempi grandiosi entrati nella storia,
alla conclusione di un’era, quelle delle esplorazioni, che
dopo essere riuscita a conquistare i luoghi più
inaccessibili del pianeta iniziava a volgere lo sguardo alle stelle.
Ultima frontiera, certo, ma che aveva affascinato ben altri
conquistatori in epoche lontane: Alessandro Magno in Asia aveva pianto
sconfortato di fronte alla constatazione che esisteva un mondo solo da
poter conquistare, essendogli preclusi tutti gli altri; Napoleone
Bonaparte aveva discorso spesso, nei suoi momenti di pura
visionarietà, sulla possibilità che gli altri
pianeti fossero popolati, e se n’era detto assolutamente
certo; Cecil Rhodes, idealtipo del conquistatore capitalistico, aveva
espresso il bruciante desiderio di annettersi mondi interi, non
bastandogli più gli angusti confini dell’Africa.
Forse l’URSS pensava a qualcosa del genere quando decise
d’imbarcarsi con tutte le sue forze nella corsa allo spazio;
ma se ipotesi di futura conquista vennero elaborate, non era per quei
fini che Jurij Gagarin fu mandato nello spazio. Egli raccoglieva
piuttosto il testimone degli esploratori eroici del secolo precedente.
Come scriveva Arnaldo Faustini della Società Geografica
Italiana in un suo volume dedicato ai grandi esploratori,
“per la virtù sola di una tenace ed audace
continuità nell’inesauribile dispendio di
facoltà morali e di energie fisiche; solamente nella
virtù espressa da un martirologio pel quale – la
gloria – è ancora un premio modesto, noi siamo
giunti alla conoscenza del nostro pur tanto piccolo globo”
(Faustini, 1932).
Per quanto grondante di una retorica oggi datata,
l’opera di Faustini – tra i più grandi
esperti di esplorazione umana, al punto che gli è stato poi
dedicato un cratere sulla Luna – getta luce su un sentimento
che oggi ci sembra distante secoli: l’ansia bruciante della
scoperta, della conquista, della sfida al limite della sopravvivenza.
Faustini concludeva il suo volume con un’esortazione alle
giovani generazioni: “Uomini dall’anima salda ci
vogliono oggi, e nulla più che l’esempio di queste
anime salde può suscitare in noi, ancora e sempre, la
nobiltà della gara e il desiderio ardente
dell’emulazione” (ivi, p. 299). Emulazione?
Difficile parlarne oggi. La componente eroica del viaggio spaziale non
esiste più, né potrebbe esistere. Lo spazio
diventa una risorsa da sfruttare strategicamente ed economicamente; si
arrivò sulla Luna ancora per obiettivi di prestigio, ma la
si abbandonò presto perché era ancora meno
ospitale dei Poli. Ora si ipotizza di ritornarci, o di andare persino
su Marte. Ma la domanda ricorrente che i politici, gli investitori e i tax-payers
pongono a questi sognatori è: a noi cosa rientra? Ecco
quindi che si ritornerebbe sulla Luna per sfruttarne i minerali, su
Marte per installare una base permanente in vista della colonizzazione.
Nessuno vuole più spendere cento miliardi di euro per
mettere una bandiera e tornare a casa, o per poter parlare da una
piccola navicella con il leader di turno, come fece Gagarin con
Chruščëv. La propaganda politica corre oggi su ben
altri binari. Forse perché non si legge più molta
fantascienza.
Tuttavia, se Gagarin o Armstrong la fantascienza
forse non l’avevano letta, di sicuro ne avevano letta un bel
po’ i padri del volo spaziale. Werner von Braun ci era
cresciuto, con la fantascienza, e aveva scritto anche qualche racconto;
Sergej Korolev, a lungo l’anonimo “progettista
capo” del programma spaziale sovietico, aveva subito
l’influenza di Constantin Tsiolkovsky, padre
dell’astronautica sovietica, ingegnere geniale e visionario,
invaghito di Jules Verne, anch’egli scrittore di fantascienza
in erba. Agli esempi eroici degli esploratori dei loro tempi, questi
uomini avevano aggiunto le letture di capitani coraggiosi nelle loro
astronavi, impegnati nella conquista della Luna, di Venere, di Marte e
delle stelle lontane. Per loro che erano cresciuti in
un’epoca in cui la Terra non aveva più molto da
offrire, lo spazio sembrava davvero l’unico posto dove
raccogliere l’eredità dei grandi esploratori del
passato. Jules Verne l’aveva intuito per primo, aggiornando
la tradizione del feuilleton d’evasione di Alexandre Dumas e
di Emilio Salgari (suo contemporaneo, ma rimasto legato a schemi
più tradizionali) con le promesse della Seconda rivoluzione
industriale. I suoi viaggi immaginari, dopo aver racchiuso
l’intero mondo in un giro di soli ottanta giorni, rompevano
le barriere del verosimile per penetrare negli abissi oceanici, nel
centro della terra, e volare fino alla Luna. La narrativa di Verne era
la prima espressione di un anelito che trovava sempre più
difficile soddisfazione nella realtà limitata della Terra.
Esempi formidabili sono la saga della Pattuglia
dello Spazio di Edmond Hamilton, inaugurata con I
soli che si scontrano (1928), nel quale le avventure dei
protagonisti hanno per sfondo un’intera galassia, retta dalla
benevola Federazione dei Mille Soli, difesa da eroici soldati spaziali.
La serie di Skylark di E.E.
“Doc” Smith, iniziata con L’allodola
dello spazio (1928), dove l’inseguimento del
cattivo, che ha rapito la bella di turno, ha come sfondo le stelle
– primo importante spostamento del romanzo
d’avventura nello spazio. La Legione dello spazio
di Jack Williamson (1934), che dipinge un sistema solare colonizzato
dall’Uomo, dove la prima spedizione interstellare finisce per
scontrarsi con una civiltà aliena mettendo a rischio la
sopravvivenza della nostra specie. In questo e nei romanzi successivi
del ciclo, veri e propri “legionari” stellari
difendono l’umanità dai pericoli
dell’ignoto. E ancora John W. Campbell jr., che ne I
figli di Mu (1934) racconta delle mirabolanti avventure di
Munro, la cui astronave viene scagliata in una lontana galassia, dove
affronterà gli attacchi di terribili alieni. Questa prima
fantascienza, che con la scienza ha poco a che vedere, apre finalmente
gli sconfinati orizzonti cosmici al desiderio umano di esplorazione.
Non può esserci più avventura in un mondo come il
nostro in cui l’ignoto non ha spazio, dove non ci sono
più sfide da raccogliere e terre nuove da conquistare.
L’universo è l’unica soluzione.
È
una fantascienza ingenua, immatura, che sarà resa
più profonda dalle opere di coloro che cresceranno alla
scuola di John W. Campbell jr, quella di Astounding SF,
la rivista fondata dallo scrittore che si scoprirà essere
più a suo agio nelle vesti di editore e scopritore di
talenti. Anche Isaac Asimov, che cresce sotto Campbell, ama le
avventure spaziali: il suo primo racconto, Naufragio al largo
di Vesta (1938), vede protagonisti tre astronauti naufragati
nello spazio. E Robert Heinlein, l’altro grande della
scuderia campbelliana, iniziava il suo ciclo della “storia
futura” con un racconto, Requiem, dove
l’ossessione del protagonista è mettere piede
sulla Luna (cfr. Quaderni d’Altri Tempi, n. 18), proseguendo
la sua produzione con romanzi dedicati ai giovanissimi in cui la
conquista dello spazio è il tema ricorrente (Razzo
G.2, 1947; Cadetti dello spazio, 1948).
Gli ingegneri che lanciarono lo Sputnik e poi Gagarin, che inviarono
gli uomini sulla Luna, erano stati uniti, nonostante la cortina di
ferro, da quella passione per la fantascienza che prendeva il posto dei
romanzi esotici e delle cronache dei vecchi esploratori. Scriveva Mario
N. Leone, critico di fantascienza, in un breve intervento nella
imprescindibile Grande enciclopedia della fantascienza
(1980): “Ci basterà scoprire altri mondi? Anche
queste saranno mete illusorie se neanche là, come
prevedibile, avremo una diversa risposta al bisogno di assoluto che,
con varia forza e sotto forme infinite, condiziona le nostre esistenze
o stravolge le nostre fantasie… Chi ha scelto
l’azione, sospinto da questa smania che è inutile
pretendere di definire, anche sotto l’aspetto di motivi
pratici, un giorno si ritroverà sull’altra sponda
dello spazio e, invece di rigirarsi con nostalgia nella direzione del
suo pianeta d’origine, guarderà verso sponde
ancora più remote con la stessa divorante ansia di
prima”.
Bisogno di assoluto, smania, ansia: questi i termini con cui
si cerca di dar corpo all’ineffabile spinta verso
l’ignoto. Pur con tutta la partecipazione
dell’appassionato di fantascienza, l’autore del
brano citato non manca di osservare l’importanza fondamentale
di questo genere letterario nel trainare l’esplorazione
spaziale: “La fantascienza”, continua
“è la forma letteraria che, in modo più
o meno scoperto, più o meno premeditato, tenta di aiutarci
ad anestetizzare questo bisogno fatto di speranza ma anche di
dolore” (ibidem). Dolore, sì,
perché la speranza è frustrata dai limiti
tecnici, delle lungaggini e dal facile disaffezionamento delle masse.
Nessuno nega che la fantascienza letteraria ci abbia guadagnato,
passando dall’outer space all’inner
space; ma l’estremizzazione di questa tendenza ha
portato alla morte della fantascienza spaziale, simboleggiata dai
racconti crepuscolari di James Ballard o dal racconto di William Gibson
e Bruce Sterling Stella rossa, orbita d’inverno
(1983), ambientato in una stazione spaziale sovietica ormai in declino
(impossibile non pensare alla Mir, la cui costruzione sarebbe iniziata
tre anni dopo). Il romanzo dell’italiano Paolo Aresi, Korolev
(2011), pubblicato dalla collana Urania nel cinquantenario
della missione di Gagarin, si pone invece come una sorta di manifesto
di una rinascita della fantascienza “astronautica”,
come la chiama Giuseppe Lippi in un saggio in appendice. La struttura
del romanzo riprende quell’ingenuità tipica della
space opera delle origini, ne costituisce in qualche modo un omaggio:
il robot marziano ‘servo sciocco’, che ricorda il
D3BO di Guerre Stellari; gli astronauti buoni,
americani o russi che siano, contrapposti ai sordidi politicanti sulla
Terra, un bel ricordo del 2010: Odissea due di
Arthur C. Clarke (1982); i nomi stessi di molti personaggi riprendono
quelli dei più famosi scrittori di fantascienza.
Nel
proporre Korolev al lettore smaliziato di oggi,
Lippi lancia una stoccata che fa riflettere: “Ad un certo
punto abbiamo creduto di aver scoperto l’acqua calda: lo
spazio interiore. Ci siamo trastullati, difesi con l’idea che
i mondi che contano siano quelli intimi e non quelli siderali. Quale
ingenuità. Soprattutto, quale struggente tentativo di negare
l’evidenza per cui le nostre particelle intellettuali,
morali, sentimentali eccetera sono tutt’uno con le parti che
compongono l’universo. È dunque
l’interiorità delle stelle, del vuoto, delle
orbite planetarie a doverci semmai affascinare… Ma niente
paura, la fantascienza fa anche questo: psicanalizza i corpi
celesti”. Certo, inner space e outer
space possono andare d’accordo. Lo stesso Jurij
Gagarin nello spazio cercò invano Dio, senza trovarlo.
Stanislaw Lem in Solaris farà proprio
questo: psicanalizzare i corpi celesti, perché in fondo
“noi non cerchiamo altri mondi: cerchiamo degli
specchi” (Lem, 1961). Però in Korolev
Aresi rimette al centro della storia il desiderio di esplorare:
è quello che spinge l’eponimo costruttore capo
sovietico a farsi lanciare su Marte con il suo nuovo vettore prima di
morire. Dopotutto, il Korolev di Aresi non è tanto diverso
da Gagarin, quando diceva: “Potrei volare nello spazio per
tutta la vita”. Non è diverso da quel vecchio
astronauta americano che alla NASA, con tono serissimo, ha detto che se
si dovessero trovare volontari per un viaggio di sola andata su Marte
non si tirerebbe indietro.
E qui arriviamo al nocciolo della questione: quanti, infatti,
sarebbero disposti a fare lo stesso? Quando Gagarin venne lanciato in
orbita, le possibilità di tornare vivo erano intorno al 50%.
Il primo lancio di prova era andato malissimo, il secondo
così così, il terzo benino: il KGB aveva
già pronto, si scrisse sui giornali occidentali
all’indomani del successo sovietico, il comunicato da leggere
nel caso di fallimento. Ma gli americani non furono da meno. Anche il
Presidente degli Stati Uniti aveva in mano un comunicato da leggere
alla nazione nel caso in cui Armstrong, Aldrin e Collins si fossero
schiantati sulla Luna o non fossero riusciti a fare ritorno. Molte
cose, del resto, andarono storte. Gagarin dovette subire un rientro
spaventoso con la capsula fuori controllo per un bel tratto,
finché non pensò fosse meglio eiettarsi con il
paracadute – e anche allora temette il peggio. Armstrong
dovette pilotare il modulo di discesa lunare a mano e per poco non
finì il combustibile necessario per lasciare il satellite.
Rischi del genere oggi non sono più accettabili. Lanciare
uno Space Shuttle oggi significa passare per una serie apparentemente
infinita di controlli, di stop-and-go, con continui rimandi della data
di lancio. Sulla sicurezza non si scherza, si dirà,
soprattutto dopo i tragici disastri del Challenger e del Columbia.
Eppure, è difficile oggi chiamare questi astronauti eroi.
Il loro non è che un lavoro affascinante e difficile che si
svolge in orbita invece che sulla Terra. Nella stazione spaziale
internazionale fanno esperimenti, non esplorano lo spazio. Troppo
rischioso mandare uomini di nuovo sulla Luna, o su Marte, o
chissà dove. Meglio i robot.
La verità
è che nella “società del
rischio”, la nostra, per usare la notissima definizione del
sociologo Ulrich Beck (1986), nessuno è più
disposto a rischiare. Se questo permette di ridurre al minimo le
vittime, ben venga: nessun paese occidentale è disposto oggi
a sacrificare centinaia di soldati in un’operazione militare;
allo stesso modo non si possono mettere a rischio le vite degli
astronauti. L’errore di questo ragionamento sta
però nel fatto che alla fine, quando il rischio –
volente o nolente – lo si dovrà correre, nessuno
si offrirà volontario. Quando le navi prendevano il largo
per missioni che duravano mesi, se non anni, non mancavano i mozzi e
gli ufficiali: l’equipaggio sapeva che non avrebbe rivisto
casa a lungo, che le comunicazioni sarebbero state difficilissime, se
non impossibili, e che i rischi in mare erano altissimi. Ciò
nonostante, partivano. Quando l’uomo sarà pronto a
partire per Marte, magari con un nuovo propulsore che
dimezzerà i tempi di percorrenza, chi sarà
disposto a imbarcarsi per tornare dopo un anno? Non ci fa paura la
distanza. Ci fa paura non poter fare una telefonata, inviare una
e-mail, chattare su Facebook. I primi coloni marziani non avranno
queste comodità a cui siamo abituati. Scopriranno che a
queste comodità non vogliono rinunciare. Magari
però qualcuno deciderà di chiudere la chat e
aprire un romanzo di fantascienza “astronautica”.
Allora si ricorderà di Gagarin e di come era bello volare
lassù.