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SECONDA STELLA (ROSSA)
A DESTRA… E POI?

di Roberto Paura


laikaQuando Bertolt Brecht decise che un mondo senza eroi doveva essere un mondo felice, non aveva probabilmente considerato tutte le opzioni. Sicuramente non era dello stesso parere Jurij Gagarin quando si accomodò nella strettissima capsula Vostok per essere lanciato nello spazio, il primo uomo a superare la più incredibile delle barriere. Del resto, l’Unione sovietica non aveva avuto molte scelte. Gli americani stavano lavorando sullo stesso progetto da qualche anno e ormai era solo questione di mesi prima che ci riuscissero. Bisognava batterli sul filo di lana, com’era stato fatto con il lancio dello Sputnik, solo quattro anni prima. Ma questa volta era diverso: non si mandava in orbita un pezzo di ferro, un cane o una scimmia. Si mandava un uomo. Oggi, a posteriori, la domanda che molti si pongono è: perché? Perché poi correre tutti questi rischi, spedire un uomo in orbita, con poche chance di successo? All’epoca nessuno si poneva queste domande. Non se l’erano poste, del resto, nemmeno esploratori del calibro di Peary, Scott, Amudsen nei loro continui tentativi – alcuni coronati dal successo, altri destinati al fallimento, anche tragico – di conquistare i Poli. In fin dei conti cosa poteva esserci ai Poli per l’essere umano se non ghiaccio e freddo? La constatazione permette di distinguere perciò, nella vasta categoria degli “esploratori”, una sotto-categoria di uomini che non si posero come scopo la semplice scoperta, ma la pura conquista di un obiettivo, il raggiungimento di un limite estremo. Gagarin non era Cristoforo Colombo, che nelle Indie fondamentalmente cercava un congruo ritorno economico; non era nemmeno Livingstone, che accettava i rischi della malaria e dell’ostilità delle popolazioni indigene penetrando nel cuore nero dell’Africa per scoprire le sorgenti del Nilo. Gagarin fu un esploratore-eroe, con un solo obiettivo in mente: battere gli americani nell’arrivare primo nello spazio.
Gagarin si poneva così al termine di un lungo percorso costellato di esempi grandiosi entrati nella storia, alla conclusione di un’era, quelle delle esplorazioni, che dopo essere riuscita a conquistare i luoghi più inaccessibili del pianeta iniziava a volgere lo sguardo alle stelle. Ultima frontiera, certo, ma che aveva affascinato ben altri conquistatori in epoche lontane: Alessandro Magno in Asia aveva pianto sconfortato di fronte alla constatazione che esisteva un mondo solo da poter conquistare, essendogli preclusi tutti gli altri; Napoleone Bonaparte aveva discorso spesso, nei suoi momenti di pura visionarietà, sulla possibilità che gli altri pianeti fossero popolati, e se n’era detto assolutamente certo; Cecil Rhodes, idealtipo del conquistatore capitalistico, aveva espresso il bruciante desiderio di annettersi mondi interi, non bastandogli più gli angusti confini dell’Africa. Forse l’URSS pensava a qualcosa del genere quando decise d’imbarcarsi con tutte le sue forze nella corsa allo spazio; ma se ipotesi di futura conquista vennero elaborate, non era per quei fini che Jurij Gagarin fu mandato nello spazio. Egli raccoglieva piuttosto il testimone degli esploratori eroici del secolo precedente. Come scriveva Arnaldo Faustini della Società Geografica Italiana in un suo volume dedicato ai grandi esploratori, “per la virtù sola di una tenace ed audace continuità nell’inesauribile dispendio di facoltà morali e di energie fisiche; solamente nella virtù espressa da un martirologio pel quale – la gloria – è ancora un premio modesto, noi siamo giunti alla conoscenza del nostro pur tanto piccolo globo” (Faustini, 1932).

 

Per quanto grondante di una retorica oggi datata, l’opera di Faustini – tra i più grandi esperti di esplorazione umana, al punto che gli è stato poi dedicato un cratere sulla Luna – getta luce su un sentimento che oggi ci sembra distante secoli: l’ansia bruciante della scoperta, della conquista, della sfida al limite della sopravvivenza. Faustini concludeva il suo volume con un’esortazione alle giovani generazioni: “Uomini dall’anima salda ci vogliono oggi, e nulla più che l’esempio di queste anime salde può suscitare in noi, ancora e sempre, la nobiltà della gara e il desiderio ardente dell’emulazione” (ivi, p. 299). Emulazione? Difficile parlarne oggi. La componente eroica del viaggio spaziale non esiste più, né potrebbe esistere. Lo spazio diventa una risorsa da sfruttare strategicamente ed economicamente; si arrivò sulla Luna ancora per obiettivi di prestigio, ma la si abbandonò presto perché era ancora meno ospitale dei Poli. Ora si ipotizza di ritornarci, o di andare persino su Marte. Ma la domanda ricorrente che i politici, gli investitori e i tax-payers pongono a questi sognatori è: a noi cosa rientra? Ecco quindi che si ritornerebbe sulla Luna per sfruttarne i minerali, su Marte per installare una base permanente in vista della colonizzazione. Nessuno vuole più spendere cento miliardi di euro per mettere una bandiera e tornare a casa, o per poter parlare da una piccola navicella con il leader di turno, come fece Gagarin con Chruščëv. La propaganda politica corre oggi su ben altri binari. Forse perché non si legge più molta fantascienza.
Tuttavia, se Gagarin o Armstrong la fantascienza forse non l’avevano letta, di sicuro ne avevano letta un bel po’ i padri del volo spaziale. Werner von Braun ci era cresciuto, con la fantascienza, e aveva scritto anche qualche racconto; Sergej Korolev, a lungo l’anonimo “progettista capo” del programma spaziale sovietico, aveva subito l’influenza di Constantin Tsiolkovsky, padre dell’astronautica sovietica, ingegnere geniale e visionario, invaghito di Jules Verne, anch’egli scrittore di fantascienza in erba. Agli esempi eroici degli esploratori dei loro tempi, questi uomini avevano aggiunto le letture di capitani coraggiosi nelle loro astronavi, impegnati nella conquista della Luna, di Venere, di Marte e delle stelle lontane. Per loro che erano cresciuti in un’epoca in cui la Terra non aveva più molto da offrire, lo spazio sembrava davvero l’unico posto dove raccogliere l’eredità dei grandi esploratori del passato. Jules Verne l’aveva intuito per primo, aggiornando la tradizione del feuilleton d’evasione di Alexandre Dumas e di Emilio Salgari (suo contemporaneo, ma rimasto legato a schemi più tradizionali) con le promesse della Seconda rivoluzione industriale. I suoi viaggi immaginari, dopo aver racchiuso l’intero mondo in un giro di soli ottanta giorni, rompevano le barriere del verosimile per penetrare negli abissi oceanici, nel centro della terra, e volare fino alla Luna. La narrativa di Verne era la prima espressione di un anelito che trovava sempre più difficile soddisfazione nella realtà limitata della Terra.

 

Esempi formidabili sono la saga della Pattuglia dello Spazio di Edmond Hamilton, inaugurata con I soli che si scontrano (1928), nel quale le avventure dei protagonisti hanno per sfondo un’intera galassia, retta dalla benevola Federazione dei Mille Soli, difesa da eroici soldati spaziali. La serie di Skylark di E.E. “Doc” Smith, iniziata con L’allodola dello spazio (1928), dove l’inseguimento del cattivo, che ha rapito la bella di turno, ha come sfondo le stelle – primo importante spostamento del romanzo d’avventura nello spazio. La Legione dello spazio di Jack Williamson (1934), che dipinge un sistema solare colonizzato dall’Uomo, dove la prima spedizione interstellare finisce per scontrarsi con una civiltà aliena mettendo a rischio la sopravvivenza della nostra specie. In questo e nei romanzi successivi del ciclo, veri e propri “legionari” stellari difendono l’umanità dai pericoli dell’ignoto. E ancora John W. Campbell jr., che ne I figli di Mu (1934) racconta delle mirabolanti avventure di Munro, la cui astronave viene scagliata in una lontana galassia, dove affronterà gli attacchi di terribili alieni. Questa prima fantascienza, che con la scienza ha poco a che vedere, apre finalmente gli sconfinati orizzonti cosmici al desiderio umano di esplorazione. Non può esserci più avventura in un mondo come il nostro in cui l’ignoto non ha spazio, dove non ci sono più sfide da raccogliere e terre nuove da conquistare. L’universo è l’unica soluzione.
È una fantascienza ingenua, immatura, che sarà resa più profonda dalle opere di coloro che cresceranno alla scuola di John W. Campbell jr, quella di Astounding SF, la rivista fondata dallo scrittore che si scoprirà essere più a suo agio nelle vesti di editore e scopritore di talenti. Anche Isaac Asimov, che cresce sotto Campbell, ama le avventure spaziali: il suo primo racconto, Naufragio al largo di Vesta (1938), vede protagonisti tre astronauti naufragati nello spazio. E Robert Heinlein, l’altro grande della scuderia campbelliana, iniziava il suo ciclo della “storia futura” con un racconto, Requiem, dove l’ossessione del protagonista è mettere piede sulla Luna (cfr. Quaderni d’Altri Tempi, n. 18), proseguendo la sua produzione con romanzi dedicati ai giovanissimi in cui la conquista dello spazio è il tema ricorrente (Razzo G.2, 1947; Cadetti dello spazio, 1948). Gli ingegneri che lanciarono lo Sputnik e poi Gagarin, che inviarono gli uomini sulla Luna, erano stati uniti, nonostante la cortina di ferro, da quella passione per la fantascienza che prendeva il posto dei romanzi esotici e delle cronache dei vecchi esploratori. Scriveva Mario N. Leone, critico di fantascienza, in un breve intervento nella imprescindibile Grande enciclopedia della fantascienza (1980): “Ci basterà scoprire altri mondi? Anche queste saranno mete illusorie se neanche là, come prevedibile, avremo una diversa risposta al bisogno di assoluto che, con varia forza e sotto forme infinite, condiziona le nostre esistenze o stravolge le nostre fantasie… Chi ha scelto l’azione, sospinto da questa smania che è inutile pretendere di definire, anche sotto l’aspetto di motivi pratici, un giorno si ritroverà sull’altra sponda dello spazio e, invece di rigirarsi con nostalgia nella direzione del suo pianeta d’origine, guarderà verso sponde ancora più remote con la stessa divorante ansia di prima”.

 

Bisogno di assoluto, smania, ansia: questi i termini con cui si cerca di dar corpo all’ineffabile spinta verso l’ignoto. Pur con tutta la partecipazione dell’appassionato di fantascienza, l’autore del brano citato non manca di osservare l’importanza fondamentale di questo genere letterario nel trainare l’esplorazione spaziale: “La fantascienza”, continua “è la forma letteraria che, in modo più o meno scoperto, più o meno premeditato, tenta di aiutarci ad anestetizzare questo bisogno fatto di speranza ma anche di dolore” (ibidem). Dolore, sì, perché la speranza è frustrata dai limiti tecnici, delle lungaggini e dal facile disaffezionamento delle masse. Nessuno nega che la fantascienza letteraria ci abbia guadagnato, passando dall’outer space all’inner space; ma l’estremizzazione di questa tendenza ha portato alla morte della fantascienza spaziale, simboleggiata dai racconti crepuscolari di James Ballard o dal racconto di William Gibson e Bruce Sterling Stella rossa, orbita d’inverno (1983), ambientato in una stazione spaziale sovietica ormai in declino (impossibile non pensare alla Mir, la cui costruzione sarebbe iniziata tre anni dopo). Il romanzo dell’italiano Paolo Aresi, Korolev (2011), pubblicato dalla collana Urania nel cinquantenario della missione di Gagarin, si pone invece come una sorta di manifesto di una rinascita della fantascienza “astronautica”, come la chiama Giuseppe Lippi in un saggio in appendice. La struttura del romanzo riprende quell’ingenuità tipica della space opera delle origini, ne costituisce in qualche modo un omaggio: il robot marziano ‘servo sciocco’, che ricorda il D3BO di Guerre Stellari; gli astronauti buoni, americani o russi che siano, contrapposti ai sordidi politicanti sulla Terra, un bel ricordo del 2010: Odissea due di Arthur C. Clarke (1982); i nomi stessi di molti personaggi riprendono quelli dei più famosi scrittori di fantascienza.
Nel proporre Korolev al lettore smaliziato di oggi, Lippi lancia una stoccata che fa riflettere: “Ad un certo punto abbiamo creduto di aver scoperto l’acqua calda: lo spazio interiore. Ci siamo trastullati, difesi con l’idea che i mondi che contano siano quelli intimi e non quelli siderali. Quale ingenuità. Soprattutto, quale struggente tentativo di negare l’evidenza per cui le nostre particelle intellettuali, morali, sentimentali eccetera sono tutt’uno con le parti che compongono l’universo. È dunque l’interiorità delle stelle, del vuoto, delle orbite planetarie a doverci semmai affascinare… Ma niente paura, la fantascienza fa anche questo: psicanalizza i corpi celesti”. Certo, inner space e outer space possono andare d’accordo. Lo stesso Jurij Gagarin nello spazio cercò invano Dio, senza trovarlo. Stanislaw Lem in Solaris farà proprio questo: psicanalizzare i corpi celesti, perché in fondo “noi non cerchiamo altri mondi: cerchiamo degli specchi” (Lem, 1961). Però in Korolev Aresi rimette al centro della storia il desiderio di esplorare: è quello che spinge l’eponimo costruttore capo sovietico a farsi lanciare su Marte con il suo nuovo vettore prima di morire. Dopotutto, il Korolev di Aresi non è tanto diverso da Gagarin, quando diceva: “Potrei volare nello spazio per tutta la vita”. Non è diverso da quel vecchio astronauta americano che alla NASA, con tono serissimo, ha detto che se si dovessero trovare volontari per un viaggio di sola andata su Marte non si tirerebbe indietro.

 

E qui arriviamo al nocciolo della questione: quanti, infatti, sarebbero disposti a fare lo stesso? Quando Gagarin venne lanciato in orbita, le possibilità di tornare vivo erano intorno al 50%. Il primo lancio di prova era andato malissimo, il secondo così così, il terzo benino: il KGB aveva già pronto, si scrisse sui giornali occidentali all’indomani del successo sovietico, il comunicato da leggere nel caso di fallimento. Ma gli americani non furono da meno. Anche il Presidente degli Stati Uniti aveva in mano un comunicato da leggere alla nazione nel caso in cui Armstrong, Aldrin e Collins si fossero schiantati sulla Luna o non fossero riusciti a fare ritorno. Molte cose, del resto, andarono storte. Gagarin dovette subire un rientro spaventoso con la capsula fuori controllo per un bel tratto, finché non pensò fosse meglio eiettarsi con il paracadute – e anche allora temette il peggio. Armstrong dovette pilotare il modulo di discesa lunare a mano e per poco non finì il combustibile necessario per lasciare il satellite. Rischi del genere oggi non sono più accettabili. Lanciare uno Space Shuttle oggi significa passare per una serie apparentemente infinita di controlli, di stop-and-go, con continui rimandi della data di lancio. Sulla sicurezza non si scherza, si dirà, soprattutto dopo i tragici disastri del Challenger e del Columbia. Eppure, è difficile oggi chiamare questi astronauti eroi. Il loro non è che un lavoro affascinante e difficile che si svolge in orbita invece che sulla Terra. Nella stazione spaziale internazionale fanno esperimenti, non esplorano lo spazio. Troppo rischioso mandare uomini di nuovo sulla Luna, o su Marte, o chissà dove. Meglio i robot.
La verità è che nella “società del rischio”, la nostra, per usare la notissima definizione del sociologo Ulrich Beck (1986), nessuno è più disposto a rischiare. Se questo permette di ridurre al minimo le vittime, ben venga: nessun paese occidentale è disposto oggi a sacrificare centinaia di soldati in un’operazione militare; allo stesso modo non si possono mettere a rischio le vite degli astronauti. L’errore di questo ragionamento sta però nel fatto che alla fine, quando il rischio – volente o nolente – lo si dovrà correre, nessuno si offrirà volontario. Quando le navi prendevano il largo per missioni che duravano mesi, se non anni, non mancavano i mozzi e gli ufficiali: l’equipaggio sapeva che non avrebbe rivisto casa a lungo, che le comunicazioni sarebbero state difficilissime, se non impossibili, e che i rischi in mare erano altissimi. Ciò nonostante, partivano. Quando l’uomo sarà pronto a partire per Marte, magari con un nuovo propulsore che dimezzerà i tempi di percorrenza, chi sarà disposto a imbarcarsi per tornare dopo un anno? Non ci fa paura la distanza. Ci fa paura non poter fare una telefonata, inviare una e-mail, chattare su Facebook. I primi coloni marziani non avranno queste comodità a cui siamo abituati. Scopriranno che a queste comodità non vogliono rinunciare. Magari però qualcuno deciderà di chiudere la chat e aprire un romanzo di fantascienza “astronautica”. Allora si ricorderà di Gagarin e di come era bello volare lassù.

 


statua Jurij

 

LETTURE

× Aresi P., Korolev, Mondadori, Milano, 2011.

× Asimov I., Marooned off Vesta, 1939; tr. it. Naufragio al largo di Vesta o anche Naufragio, in Il meglio di Asimov, Mondadori, Milano, 1996.

× Beck U., Risikogesellschaft, 1986; tr. it. La società del rischio, Carocci, Roma, 2000.

× Campbell jr. J.W., The Mightiest Machine, 1934; tr. it. I figli di Mu, Mondadori, Milano, 1955.

× Clarke A.C., 2010: Odissey Two, 1982; tr. it. 2010: Odissea due, Rizzoli, Milano, 1983.

× “Doc” Smith E.E., Skylark, 1928; tr. it. Skylark. L’allodola dello spazio, Nord, Milano, 1980.

× Faustini A., Gli esploratori, Paravia, Torino, 1932.

× Hamilton E., Crashing Suns, 1928; tr. it. I soli che si scontrano, Rizzoli, Milano, 1979.

× Heinlein R. A., Requiem, 1940; tr. it. in ID. La storia futura, Mondadori, Milano, 1976.

× Heinlein R. A., Rocket Ship Galileo, 1947; tr. it. Razzo G.2, La Sorgente, Milano, 1957.

× Heinlein R. A., Space Cadet, 1948; tr. it. Cadetti dello spazio, Bompiani, Milano, 1952.

× Lem S., Solaris, 1961; tr. it. Nord, Milano, 1973.

× Leone M.N., Nuove ali per Icaro, in Aa.Vv. Grande enciclopedia della fantascienza vol. 1, Editoriale Del Drago, Milano, 1980.

× Lippi G., Lo spazio non è acqua, in Paolo Aresi, Korolev, cit.

× Lippi G., Oltre il cielo. Appunti per una riscoperta della fantascienza astronautica, in Paolo Aresi, Korolev, cit.

× Williamson J., The Legion of Space, 1934; tr. it. La legione dello spazio, Mondadori, Milano, 1952.