L’inaudito (in)contro di DJ Spooky e Scanner nella città galleggiante di Beatrice Ferrara |
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Immaginiamo di poter percorrer una metropoli in ogni direzione, attraversando le superfici che frammentano in blocchi l’orizzonte urbano, entrando nelle case e negli uffici, nelle auto e nei vicoli… nei cieli. Immaginiamo di poterlo fare magari ad occhi chiusi, ma amplificando il nostro udito con un orecchio tecnologico supplementare, uno scanner: cattureremo così stralci sonori di un universo completamente immerso nelle frequenze e nelle onde audio, ascoltando i suoni proibiti delle voci al telefono e quelli magici delle radio. Immaginiamo di poter fare tutto ciò da fermi: attraversare la metropoli restando seduti in una stanza qualunque, con uno scanner, muta di animali in caccia, pronto a fiutare ogni traccia sonora. Immaginiamo, infine, di poterci fondere con questi suoni altri, senza più origine e contesto, giocandoli/suonandoli come objects trouvés uditivi. È con il nostro laptop che li ascoltiamo e li trasformiamo, li manipoliamo facendoci suggestionare, li mescoliamo con i suoni della memoria di tutte le culture che abitano la metropoli. Nell’opera The Quick and the Dead, (2000) si performa un simile esperimento di immaginazione sonora, grazie ad una singolare alleanza. L’opera nasce, infatti, dalla collaborazione fra due artisti assai diversi per stile, ognuno dei quali già noto nel mondo dell’elettronica sperimentale contemporanea: l’americano Paul D. Miller aka DJ Spooky that Subliminal Kid ed il britannico Robin Rimbaud aka Scanner. Nato a Southfields, Londra, nel 1964, Rimbaud è l’insospettabile peeping-Tom sonico della porta accanto. Dall’età di tredici anni, il pallido ragazzino Rimbaud, armato di un semplice rilevatore di frequenze, un ricevitore scanner, come quelli usati dalla polizia, inizia a sintonizzarsi sul flusso d’onde dei telefoni dei vicini e delle radio, registrando frammenti di conversazioni. In uno strano gioco solitario a guardie e ladri, in cui egli è tanto la guardia, che sorveglia e controlla, quanto il ladro, che ruba le parole consegnate all’ineffabile etere, Rimbaud costruisce in pochi anni un archivio di frammenti linguistici decontestualizzati: microscopiche matasse di accenti, affetti, sessi. È però con l’avvento dei telefoni cellulari e con le poche, ma sostanziali, modifiche nella tecnologia di scanning, che un intero universo segreto si dischiude: le matasse sonore iniziano a spostarsi sulla cartina della città, ridisegnandone le zone e gli spazi in base all’ora, all’umore, al desiderio del parlante. Lo scanner diventa così una sorta di rilevatore termico del caldo flusso affettivo della città. Il nome secolare di Robin Rimbaud annega fra le onde dell’etere, mentre da quelle stesse onde emerge un nuovo eternauta, un uomo-macchina: (aka) Scanner. È con questa perturbante firma che escono, infatti, i primi album. L’artista, dunque, non si serve dello scanner, ma è lo scanner. Abitato egli stesso da mille voci, fa rimbalzare sulla città i suoni da essa emessi e persi, solo apparentemente, per sempre, restituendoli sinistramente trasformati, fantasmi vocali nella macchina urbana. Dapprima semplici collages di frammenti acustici rubati, i brani di Scanner spostano sempre più l’accento sulla qualità sonora dei frammenti stessi: il suono delle voci, l’intensità del segnale, il rumore fra le frequenze, gli intervalli fra le parole, le ridondanze comunicative sono usate come materiale musicale ed intessute a suoni minimali creati con un software. È a questo punto della storia che entra in gioco Paul D. Miller, nato a Washington DC nel 1970, cannibale urbano. | ||
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