“Se
il monumento concepito poi costruito diventa un simbolo, la sua
esistenza [che è fin da principio e costitutivamente
apertura verso il mondo e verso gli altri] avrà preceduto la
sua essenza” (Augé, 1999, pp. 82-83): la materia
prima dell’architettura, lo spazio, presenta sempre una
valenza sociale, come dimostrano i luoghi dell’abitare, del
potere, dell’amministrazione, del lavoro e del tempo libero,
eminentemente simbolici, nel senso che riuniscono, ordinano e
identificano, ed è dalla loro capacità di
riunire, dalla loro “funzione simbolica
‘orizzontale’ che dipende il loro valore simbolico
primo, ‘verticale’. Essi significano o
simboleggiano eventualmente qualcosa soltanto se sono riusciti a
collegare, a riunire, a ordinare e a identificare coloro che li abitano
o li frequentano. Accedono all’essere attraverso
l’esistenza” (ivi, p. 83),
heideggerianamente intesa anche come insieme di possibilità
fra cui l’uomo deve scegliere. L’individuo
è infatti ciò che sceglie di essere, cercando di
orientarsi ed esponendosi al rischio, e, visto nel suo concreto e
irripetibile esistere, è, in primo luogo, un
essere-nel-mondo, ossia un prendersi cura
– costruendole, manipolandole, riparandole, mutandole
– delle cose di cui ha bisogno, che è anche
trascendenza, vale a dire uno stare al di là di
sé nella dimensione del progetto e della
possibilità di realizzazione, impegnando la propria
libertà, proiettandosi verso il futuro e collocandosi ai due
estremi dell’autenticità e
dell’inautenticità: il singolo soggetto dunque
è nel cosmo in modo tale da disegnarlo e plasmarlo secondo
un piano globale di utilizzabilità che subordina gli oggetti
alle umane necessità e finalità, e da tramandare
se stesso in possibilità ereditate e selezionate, spesso
indotto non solo a tradurre, ma anche a tradire le tradizioni.
Tra le vie di Manama, nel praticare quella che
potrebbe essere definita una sorta di etnologia della
contemporaneità, cogliendo gli umori della popolazione meno
giovane, disorientata tra la percezione delle immagini che attestano
l’attuale realtà e la ricerca di testimonianze che
dimostrino la vita vissuta, sembra di carpire, insieme agli aromi
pungenti delle spezie, ormai tendenti a esser sopraffatti dalle
raffinate essenze delle famose eau de parfum occidentali aleggianti
nelle zone cosmopolite dello shopping, i ricordi vagheggiati,
aggrappati al mito, sospesi tra la prossimità mormorante del
mare e l’azzurro cangiante del cielo, tra l’essere
stato e il non essere ancora completamente, tra i venditori di leggenda
e i venditori di spettacolo. Lo spazio costruito dei
nuovi punti di aggregazione dei protagonisti del consumo, come il
Bahrein World Trade Center, fatto di pareti vetrate, dischiuso
all’esterno con i suoi effetti di trasparenza e
luminosità, scintillante e svettante, appare assolutamente altro
dalla fumosa e pigra penombra degli intimi luoghi di incontro maschile,
dalla velata e pacata operosità dei brulicanti ginecei e
dalla labirintica offerta di tipiche mercanzie che conserva e perpetua
pervicacemente l’identità dei popoli e delle
culture. Eppure, in un paese che, nonostante la pertinace persistenza
di un remoto passato autoctono, vive vertiginosamente al futuro e ne
rielabora gli influssi transnazionali, insinuandosi nella finzione
e nell’immaginazione attraverso cui trascende la
realtà alla luce del possibile, uno spazio così
decontestualizzato ed étranger, un non
luogo appunto, sembra avere ineludibilmente acquisito
un’autentica esistenza per gli abitanti
di Manama.
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