Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[MIAMI]
di Stefano Bory
Il
problema è che questa apparente semplicità non
è frutto di una normalizzata forma di integrazione sociale
senza riflessività, e Dexter è molto
più interessante di un qualunque “uomo
blasé” contemporaneo. Questa condotta di vita
senza alti e senza bassi, senza estremi, è il frutto di una
strategia messa a punto sin da piccolo, grazie
all’addestramento paterno, per poter condurre, senza lasciar
alcun tipo di traccia e senza indurre nessun tipo di sospetto,
un’altra vita parallela: quella di serial killer. Al Dexter
di giorno si sostituisce un altro Dexter la notte. Ma forse anche sin
qui non c’è ancora niente di nuovo. Sin
da bambino, Dexter è affetto da una pulsione omicida
irrefrenabile; suo padre, scoprendola, decide di aiutare questo figlio
a soddisfarla durante tutta la sua crescita, ma istruendolo a seguire
un codice comportamentale stabilito: uccidere solo chi uccide, sfogare
il proprio bisogno di fare del male solo su chi fa del male. Un
manicheismo fondato su un principio simmetrico tra etica ed antietica
dà vita ad un personaggio di cui lo spettatore non riesce a
rifiutare il lato oscuro. Dexter uccide, ed uccidere è
l’unico atto che lo fa sentire vivo, mentre il resto delle
“cose della vita” non producono in lui nessuna
reazione. Ma allo stesso tempo, se non ci si appoggia ad una morale
ipercattolica di “principio di rispetto totale per ogni forma
vita”, non possiamo volergliene troppo, perché
libera il mondo (e soprattutto libera Miami) da quelle persone che
mettono a repentaglio questo stesso principio. Ecco allora che una
sorta di empatia contraddittoria si crea tra Dexter e lo spettatore:
ascoltando il flusso di coscienza che, mezzo voce fuori campo, mostra
il nesso costante tra gesti pubblici ed intenzioni private
dell’assassino. Tutto l’inspiegabile universo
mentale di un uomo che “ha bisogno di uccidere”
diventa manifesto, riconoscibile e, più che spiegabile, vien
voglia di dire comprensibile, nel senso più profondo della
parola: comprenderlo per farlo proprio. È
per mezzo di questa suggestiva tecnica etico-narrativa che Dexter
acquisisce tutto il suo fascino, perché ogni
banale forma di interazione della vita quotidiana, su cui tendiamo a
non porre alcun senso particolarmente appassionante, diventa in questo
personaggio “messa in scena cosciente” come poco
spesso si ha l’occasione di esperire. Forse non è
troppo azzardato affermare che il valore aggiunto di Dexter sta proprio
in questa modalità esistenziale di interrogarsi sul
quotidiano. Incapace di vivere ogni tipo di sentimento, il banale
vivere quotidiano diventa un’assunzione di ruoli che banali
appaiono solo agli occhi degli altri personaggi del racconto filmico.
Per lo spettatore è diverso, dietro le ciambelle offerte ai
colleghi nel primo mattino, dietro una bistecca cucinata per la propria
sorella in una qualunque serata infrasettimanale, dietro
un’uscita di pesca in un pomeriggio domenicale, si gioca una
partita a scacchi estremamente complessa tra due forme di conscio
presenti nel nostro personaggio. Perché
“due forme di conscio”? Si tratta, sul piano degli
archetipi narrativi, del modello del doppio (Balló Perez,
1999). Dexter, per andare oltre il tema del serial killer da un punto
di vista morale, rappresenta tanto una versione” quanto una
“inversione” del conflittuale mito sulla scissione
identitaria dello Strano Caso del Dottor
Jekyll e del Signor Hyde di Stevenson (1996). Ne è
una versione contemporanea particolarmente
“suturata”, in quanto, come si è
già cercato di spiegare, l’identità
pulsionale-animale-violenta-solitaria dialoga, interagisce, persino
controlla ed orienta i modi di vita della sua controparte
razionale-sociale-gentile-socievole.
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