Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[TRIESTE]
di Daniela Fabro
Oltre
ad alcuni monumenti come il già citato Castello di San
Giusto, l’Arco di Augusto, il Teatro Romano, il Faro della
Vittoria e il Castello di Miramare, a picco sull’acqua, dove
Carlotta, moglie di Massimiliano d’Asburgo, morì
– si dice - pazza di dolore per la fucilazione del marito
avvenuta in Messico nel 1867. Non sono da
dimenticare però le “tristezze molte”,
cui Saba accennava già nel 1911, ancora molto tempo prima
dell’esistenza della Risiera di San Sabba, l’unico
lager nazista in Italia, ma consapevole del carattere più
intimo di Trieste, condannata al suo destino fin nel nome,
che senza una “e” diventa
“triste”. Una sorta di
linguaggio di valore universale, quello della poesia dei luoghi della
fantasia e dell’anima, attraversa la città nelle
stradine che portano al mare, quelle del Borgo Teresiano e quelle della
Città Vecchia, nel protendersi della terra
sull’acqua del Molo Audace, e nelle vie che salgono al Carso.
Ma è un linguaggio ormai mesto e quasi sussurrato, che
risponde soltanto all’incresparsi delle onde che portano il
profumo del Mediterraneo. Una Trieste melanconica e mai troppo
sfarzosa, nemmeno nella Galleria del Tergesteo -Tergeste era
il suo nome latino - e nel Teatro Verdi, riflette
ancora adesso l’essenza del romanzo di Svevo:
un’anima tormentata dal male di vivere, ma capace della
giusta dose di pessimismo umoristico con cui smascherare la
realtà.
“Trieste
ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è
come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi
azzurri e mani troppo grandi
per regalare un
fiore;
come un amore
con gelosia.
/…/
La mia
città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio
a me fatto, alla mia vita
pensosa e
schiva.”
Umberto Saba, Trieste, da Trieste e una
donna, 1910-1912
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