Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[MILANO]
di Francesco Zago
In uno scarto narrativo improvviso
e lacerante, il “cielo sopra Milano” lascia
trapelare la soluzione paradossale dell’enigma del Raggio
d’ombra: “Travi ebbe improvvisamente la
percezione di qualcosa di assurdo, che tutto anzi fosse assurdo, anche
se non capiva perché […] In quei momenti provava
una vertigine dolorosa […] una malinconia cupa. E il
risveglio era torpido e faticoso, come in certe albe di agosto, a
Milano, quando il cielo senza nuvole non era azzurro, ma bianco, un
sudario di afa sopra i tetti e le strade” (Pontiggia, 1988,
p. 141). Solo chi è nato o ha vissuto a lungo a Milano
può intuire fino in fondo il senso di un passo come questo. Sempre
“preciso e reticente”, almeno in
un’occasione Pontiggia scopre le sue carte. In una singolare Lettera
d’amore a Milano, comparsa in un volume fotografico
a cura di Enzo Pifferi, lo scrittore si rivolge alla sua
città d’adozione chiedendosi
“perché non ci lasciamo […] di solito
ci si chiede come mai una unione si rompe, ma il mistero è
come mai una unione sopravvive”. Probabilmente non sono molti
i milanesi che se lo chiedono. Forse perché fanno
più rumore i pochi che hanno deciso di andarsene dei tanti
che resistono. “Una convivenza che resiste (il verbo non
è casuale) da oltre quarant’anni ci esonera
dall’euforia imbarazzante degli innamorati agli
esordi”: nonostante la durata del rapporto, “di te
non posso ripetere la frase che suggella, come una confortevole pietra
tombale, tanti rapporti: ‘Conosco tutto’. Di te si
finisce per conoscere sempre poco, irrequieta, mobile, impaziente come
sei. Ma questo non diminuisce l’attrazione. Si sa che ogni
erotismo, per durare, predilige una piccola nevrosi ben
coltivata” (Pifferi, 1990). La Milano di Pontiggia
non è, insomma, quella fantasiosamente letteraria e
“nera” di Scerbanenco e Buzzati, né, per
venire a luoghi comuni meno alti, la (tristemente) mitica metropoli
“da bere”, o ancora la malinconica periferia
preindustriale, un po’ semplicistica, della via Gluck di
Celentano. È Milano, e basta. Bollente d’estate e
gelida d’inverno, come una casa vecchia e piena di crepe, ma
da cui proprio non riusciamo a separarci.
“‘Già so guardare le nuvole al loro passaggio.
So anche restare fermo. E so quasi tacere.’
Nell’esile spazio di quel ‘quasi’
è racchiusa anche la poesia di Fargue”
(Pontiggia, 2005, p. 158)
Come Pontiggia era grato al poeta
francese della sua “rinuncia al silenzio”, anche
Milano, e i milanesi, dovrebbero essere grati a Pontiggia della sua
misurata reticenza.
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