Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[MILANO]
di Francesco Zago
Perché è
proprio un cono d’ombra, e non il buio, a celare il traditore
vanamente inseguito da Travi nel Raggio; anche
quando è ormai notte, è nelle luci incerte della
città (e mai della luna) che prende forma il volto dello
scomparso nella Grande sera: “Quando
spense l’apparecchio, vide fuori dai vetri il chiarore che
saliva dalla città. Poi il viso di suo fratello che
sorrideva come lui, nel buio” (Pontiggia, 1995, p. 66). Il
taglio sottile e maniacalmente accurato delle parole di Pontiggia va
letto come il confine preciso ma al tempo stesso mobile e indistinto
fra ombra (cioè confine e forma) e luce (assenza di
forma). Le primissime pagine della Grande
sera sono esemplari nel segnare il clima, la
“luce” stessa dell’intero romanzo: un
tardo pomeriggio milanese, poi la sera e il crepuscolo che si stendono
sui grattacieli (“i vetri che luccicavano al tramonto, nella
bruma rosata”; “Rimasero in silenzio […]
lui guardava la finestra, aperta su una distesa di antenne”).
Non mancano i suoni, echi ovattati della città vista, o
meglio intuita, dall’alto (“Il rumore remoto del
traffico si mescolava alle strida degli uccelli sopra le
terrazze”), finché il tramonto non decreta un
paradossale trionfo della luce (“Il sole invadeva di luce la
stanza […] quel disco rosso, enorme, che tramontava sopra i
tetti”). Poi lo sguardo punta in basso, segnando la
prospettiva e insieme la sua dissolvenza (“…
abbassò lo sguardo sulla strada, che tra le lacrime si
sfocò, divenne una striscia luccicante, tra file di alberi
che salivano fino all’orizzonte”). Perfino il tempo
è indicato con un dettaglio, il primo strettamente
toponomastico, pochi paragrafi dopo, in un’immagine esatta
quanto desolante: “Camminando al centro del viale verso
piazza Susa, lungo rotaie interrate nel suolo polveroso, vide sul
grattacielo in fondo l’orologio illuminato che segnava le
sette” (Pontiggia, 1995, pp. 9-12). Mentre nel Raggio
d’ombra prevalgono i luoghi del centro (piazza
Castello, i Giardini Pubblici, e così via), nella Grande
sera compaiono i grandi viali della circonvallazione
esterna: “Affacciata al balcone del suo appartamento, sotto
la grondaia che correva lungo il cornicione, nell’unica casa
non restaurata di via Gran Sasso, aspettava di vederlo apparire. Le
aveva telefonato da una cabina di viale Abruzzi, per chiederle se
poteva salire” (Pontiggia, 1995, p. 103), anonimi come la
città stessa, come l’ineffabile protagonista del
romanzo. La Milano di Pontiggia suggerisce una solitudine aerea e
irrimediabile, ma in un certo senso voluta, perfino gradevole:
“Niente era finalmente la rinuncia a sperare e a fare; era
quella mattina trasparente, quella strada, quel sole, era camminare sul
marciapiede fra le piante. La felicità durò fino
all’incrocio con viale Umbria. Poi il niente si
trasformò nel vuoto che gli era familiare”
(Pontiggia, 1995, p. 78).
In un’istantanea molto
simile, il protagonista è il giovane Andrea, unica figura
fino in fondo positiva della Grande sera, che vede
la propria vita trasformarsi proprio grazie alla scomparsa dello zio
scomparso: “Uscendo nel viale sotto la luce delle foglie,
Andrea provò una felicità dolorosa.
[…] Rivide suo zio che gli diceva, una sera, nello stesso
viale: ‘Tu hai bisogno di spazio’. Avanzava tra le
piante. Non sapeva se l’avrebbe mai rivisto, ma non era la
cosa più importante. La cosa più importante era
quella mattina. La sua presenza lontana. In quel viale”
(Pontiggia, 1995, p. 233).
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