Un numero speciale, una donna fuori dal comune e una dozzina di cartoline
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[BARCELLONA]
di Livio Santoro
In effetti, lo sguardo che
invece si posa sulla Sagrada Familia impatta con una dinamica
intrinsecamente estranea alla versione orizzontale di questa Barcellona
che si va raccontando. Le torri della basilica tendono verso
l’alto, e lo fanno con uno scorrere di flusso, aggrappate
alle cose di dentro per dimostrare la loro vicinanza con il cielo che
tendono a raggiungere. A questo è servito, e serve, il
modernismo spesso troppo incensato della Barcellona dei tempi andati e
dei giorni nostri. Serve a ricordare che, per quanto le cose abbiano la
loro radice nel terreno, nelle fondamenta stabili delle case basse
uguali a se stesse, esse appartengono prima di tutto alla loro
prospettiva verticale, nel turbine dell’ascesa,
nell’impianto neogotico, in un allestimento probabilmente
costruito sulle sfumature del grottesco e su quel gioco retorico di
un’architettura che restituisce alla natura ciò
che le ha sottratto facendosene beffa. Perché il
modernismo, ma ancor più lo stile peculiare e specifico di
Gaudì, rende il suo legittimo richiamo alla natura per come
essa appare nell’evidenza del quotidiano. Basta percorrere a
piedi le scalinate che portano verso il culmine della chiesa per
ritrovarsi nella spirale del guscio di una conchiglia; basta camminare
tra i sinuosi colonnati del Parc Güell, per immergersi nelle
spire delle onde oceaniche; basta interrompere il proprio tragitto al
cospetto di una cancellata fatta di foglie gigantesche.
Perché è proprio da quella natura, dalla quale
stancamente il becero razionalismo vuole distaccarsi, che il modernismo
prende la sua ragion d’essere. Dalla natura come dal gusto
alla trascendenza, in un simultaneo ordine di cose che da una parte
torna alla terra, e dall’altra vi si allontana. Ma
è proprio per questo che, si dice, esso si materializza
nella sostanza solida delle sue costruzioni. Camminare per le
lunghe strade di Barcellona è voler combattere con
l’indistinto. Destra e sinistra sono un continuo ripetersi
delle stesse costruzioni, se non fosse che, improvvisamente, quasi
senza preavviso, compare un palazzo che è una visione
obnubilata, come se la percezione fosse temporaneamente offuscata da
qualche strana sostanza psicoattiva. E allora si vedono i balconi
protendersi in un flusso oscillatorio, le grate delle finestre farsi di
curve, gli atri aprirsi in un favoloso gioco di vetri e di irregolari
penombre. Come a dire che se lo schema dev’essere quello
della regolarità, ebbene, che a questo schema si aggiungano
degli interstizi di spazio indipendente, eguali nel volume, ma distanti
nella forma.
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