Se il plot
è interamente
farina del sacco di LaBruce, la creazione finale del prodotto
è data da
un susseguirsi di tappe in cui condivisione, ricerca collettiva,
sperimentazione precedentemente posta in essere in questi ambienti
creano il senso e lo stile ultimo del film. Questo processo non
è solo
intersecato, quindi, dalla dimensione virtuale: ne è
completamente
intriso. Virtuali sono i contatti attraverso cui si crea il progetto,
si trovano collaboratori e collaboratrici, protagonisti e comparse e si
pubblicizza il prodotto finale. E, in ultimo, Otto
in rete
assume una sorta di vita propria, divenendo motivo e argomento di
ulteriori dibattiti, relazioni, produzioni e sperimentazioni artistiche
che traggono la propria origine dallo spazio della comunicazione e
dell’interazione virtuale. Vi è dunque un
rimando continuo, una
ricaduta incessante delle diverse dimensioni in cui avviene sia il
contatto umano sia la produzione di senso collettivo e pubblico: se la
frammentazione degli immaginari collettivi mediante una loro
riproduzione, moltiplicazione ed emersione da spazi finora, o fino a
poche decine di anni fa, marginali, equivalgono ad una sorta di
“precarizzazione” positiva del senso comune
pornografico, essa
appartiene e si riferisce, purtroppo, ad un pubblico che resta ancora
“marginale” rispetto al mainstream
della fruizione di pornografia e del pubblico in generale. Eppure,
forte è la consapevolezza che la resa pubblica di tali
sperimentazioni
apre spazi di soggettivazione non solo all’interno degli
ambienti
culturali da cui esse si originano, ma in una dimensione più
ampia e
trasversale. In tal senso nulla resta confinato nel virtuale: si tratta
di forme di sperimentazione estremamente coraggiose in cui persone
comuni, come nel caso del realcore, rielaborano il
rapporto con
il proprio corpo e con l’auto-rappresentazione di
sé trasgredendo o
rielaborando i codici, apparentemente molto statici ed eteronormativi,
della pornografia nel tentativo, butlerianamente inteso, di sconfinare
mediante un transgenderismo introiettato, nella critica pubblica ad un
sistema valoriale esclusivo ed escludente. In tal senso non vi
è il
mero uploading nel virtuale di esperienze reali,
né la
creazione di una dimensione a-reale e solo ed esclusivamente virtuale
della sperimentazione del desiderio e delle fantasie: vi è
piuttosto
l’utilizzo del mezzo virtuale per la creazione di una sorta
di commonality in continua trasformazione ed
espansione trasversale alle dimensioni e alle
“comunità”.
Dal
punto di vista cinematografico, si tratta spesso di progetti che
trovano i propri precursori o ispiratori nella pornografia critica e
femminista di Annie Sprinkle e di Candida Royale (si vedano a proposito
The Nacked Feminist di Louise Achille del 2003 o Annie
Sprinkle's Herstory of Porn del 1999) o nelle opere di John
Waters (ricordiamo la masterpiece del genere Pink Flamingos
del 1972 e il più recente A Dirty Shame
del 2004) o del punk-porn americano della fine degli anni Settanta
(quello di Ela Troyano e Jürgen Brüning). Lo sguardo
pornografico di
queste sperimentazioni è uno sguardo spesso collettivo (di
gruppi,
collettivi, piccole comunità) che guardano e si guardano
attraverso la
cinepresa o lo schermo tentando di proporre ottiche alternative che
rompano l’omogeneità dei codici.
L’interattività, in quei casi, era reale,
limitata alla lavorazione
dei film, mentre la fruizione era statica, per quanto essa abbia
alimentato dibattiti, pensiero critico e dunque una forma di
attraversamento virtuoso delle sfere di produzione/fruizione con
effetti importanti dal punto di vista della produzione di senso, sia
nello spazio dei movimenti sia attraverso i media e la pubblicistica.
In tal senso le forme contemporanee della riappropriazione e della
messa in discussione collettiva del codice pornografico in senso
trasversale – all’interno cioè di
comunità che rappresentano sia il
pubblico sia il potenziale serbatoio di attori, registi e produttori
della produzione pornografica – segnano lo scarto
fondamentale tra la
pornografia cinematografica-analogica degli anni settanta-ottanta e
quella digitale (più facilmente accessibile dal punto di
vista della
produzione anche per i suoi costi limitati e per la diffusione di massa
della tecnologia necessaria2).
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