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La discussione sulla storia che ci viene raccontata
da Weir in The Truman Show non sarebbe completa se
non si
allargasse ad una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, e
sulla televisione di fine millennio in particolare.
L’identità di
Truman Burbank, abbiamo visto, è frutto di un artificio, ma
di un
artificio molto particolare: lui ha vissuto una vita vera,
ma
questa vita in qualche modo è stata programmata, guidata,
corretta
volta per volta dall’esigenza di dare all’audience
quello che ci si
aspettava questa richiedesse. In qualche modo il pubblico –
consapevole
o meno – si specchia in questa identità, e se ne
fa partecipe, agendo e
sentendo come il suo eroe: dorme quando lui dorme,
soffre quando
lui soffre, si libera (di lui, e del programma) quando lui sceglie la
libertà. È questo credo il senso del
cambiare canale degli spettatori
alla fine della vicenda: la liberazione da quella che per
tutti era
diventata una gabbia. Ma questo ci porta a riflettere su un aspetto
della presenza dei media nella società tardomoderna, e sui
riflessi che
hanno sulla formazione dell’identità –
quelli di cui Dick, seppur
metaforicamente aveva in anticipo percepito l’avvento. Noi ci
percepiamo attraverso la relazione con gli altri, certo, ma anche
–
molto più banalmente – attraverso la percezione
che abbiamo di noi
stessi attraverso le immagini che ci rappresentano: foto, video,
ritratti in cui appariamo, ma, prima di tutto, lo specchio in cui ci
riconosciamo ogni mattina – come Truman, che regala
inconsapevolmente
ai suoi fans, quotidianamente, una scenetta che è privata
solo per lui.
Nella società della comunicazione, la situazione si fa
più complessa.
Intanto, per noi, la vista è forse il senso più
importante attraverso
cui facciamo esperienza della realtà circostante. In
particolare,
pensando alla percezione che abbiamo di noi stessi, questo è
vero anche
per quella frazione di realtà che definiamo identità,
sia la
nostra che quella altrui. Proseguiamo in questo ragionamento.
“Il peso
che, nella percezione della nostra identità, attribuiamo
all’immagine
d’essa che ci perviene attraverso gli organi della vista,
è tale da
permetterci di affermare che ciò che vediamo
riflessa non è solamente, appunto,
l’immagine della nostra identità, ma l’identità
in quanto tale.” (Pecchinenda, 1997, pag. 77).
Nella
società
tardomoderna la mediazione degli schermi, e la loro capacità
di
proporre una realtà possibile anche se simulata, amplifica
le sorgenti
della formazione dell’identità. Scrive sempre
Pecchinenda che “…
nell’ambito di una situazione in cui la TV e i nuovi media,
investendo
sempre di più all’interno della vita reale, fanno
vacillare le certezze
sull’esistenza di una realtà oggettiva,
conducendo ad una
condizione in cui ‘l’immagine non può
più immaginare il reale, poiché
coincide con esso’, bisogna effettivamente cominciare a
ripensare –
anche fenomenologicamente – alcuni importanti baluardi
epistemologici
su cui si basa la nostra visione
dell’identità.” (Pecchinenda, ibidem,
pag. 85). Ma se la nostra identità si forma attraverso i
dispositivi di socializzazione che ci coinvolgono con gli altri
importanti
per noi – prima di tutto i nostri genitori, ma anche gli
insegnanti e i
pari – cosa succede in una società in cui la
televisione è uno dei
principali strumenti della socializzazione stessa? Il rispecchiamento
con i modelli televisivi diventa un’eventualità
più che plausibile. E
quindi, il siparietto davanti allo specchio del bagno rubato
quotidianamente dalle telecamere all’intimità di
Truman diventa la
traccia per la giornata degli spettatori.
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