TRUMAN
SHOW, FIRMATO DICK.2 di Adolfo Fattori |
La discussione sulla storia che ci viene raccontata da Weir in The Truman Show non sarebbe completa se non si allargasse ad una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, e sulla televisione di fine millennio in particolare. L’identità di Truman Burbank, abbiamo visto, è frutto di un artificio, ma di un artificio molto particolare: lui ha vissuto una vita vera, ma questa vita in qualche modo è stata programmata, guidata, corretta volta per volta dall’esigenza di dare all’audience quello che ci si aspettava questa richiedesse. In qualche modo il pubblico – consapevole o meno – si specchia in questa identità, e se ne fa partecipe, agendo e sentendo come il suo eroe: dorme quando lui dorme, soffre quando lui soffre, si libera (di lui, e del programma) quando lui sceglie la libertà. È questo credo il senso del cambiare canale degli spettatori alla fine della vicenda: la liberazione da quella che per tutti era diventata una gabbia. Ma questo ci porta a riflettere su un aspetto della presenza dei media nella società tardomoderna, e sui riflessi che hanno sulla formazione dell’identità – quelli di cui Dick, seppur metaforicamente aveva in anticipo percepito l’avvento. Noi ci percepiamo attraverso la relazione con gli altri, certo, ma anche – molto più banalmente – attraverso la percezione che abbiamo di noi stessi attraverso le immagini che ci rappresentano: foto, video, ritratti in cui appariamo, ma, prima di tutto, lo specchio in cui ci riconosciamo ogni mattina – come Truman, che regala inconsapevolmente ai suoi fans, quotidianamente, una scenetta che è privata solo per lui. Nella società della comunicazione, la situazione si fa più complessa. Intanto, per noi, la vista è forse il senso più importante attraverso cui facciamo esperienza della realtà circostante. In particolare, pensando alla percezione che abbiamo di noi stessi, questo è vero anche per quella frazione di realtà che definiamo identità, sia la nostra che quella altrui. Proseguiamo in questo ragionamento. “Il peso che, nella percezione della nostra identità, attribuiamo all’immagine d’essa che ci perviene attraverso gli organi della vista, è tale da permetterci di affermare che ciò che vediamo riflessa non è solamente, appunto, l’immagine della nostra identità, ma l’identità in quanto tale.” (Pecchinenda, 1997, pag. 77). Nella società tardomoderna la mediazione degli schermi, e la loro capacità di proporre una realtà possibile anche se simulata, amplifica le sorgenti della formazione dell’identità. Scrive sempre Pecchinenda che “… nell’ambito di una situazione in cui la TV e i nuovi media, investendo sempre di più all’interno della vita reale, fanno vacillare le certezze sull’esistenza di una realtà oggettiva, conducendo ad una condizione in cui ‘l’immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso’, bisogna effettivamente cominciare a ripensare – anche fenomenologicamente – alcuni importanti baluardi epistemologici su cui si basa la nostra visione dell’identità.” (Pecchinenda, ibidem, pag. 85). Ma se la nostra identità si forma attraverso i dispositivi di socializzazione che ci coinvolgono con gli altri importanti per noi – prima di tutto i nostri genitori, ma anche gli insegnanti e i pari – cosa succede in una società in cui la televisione è uno dei principali strumenti della socializzazione stessa? Il rispecchiamento con i modelli televisivi diventa un’eventualità più che plausibile. E quindi, il siparietto davanti allo specchio del bagno rubato quotidianamente dalle telecamere all’intimità di Truman diventa la traccia per la giornata degli spettatori. | ||
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