In altri termini, il corpo di Tarzan – totemico nel senso di
sospeso tra due età antropologiche della specie –
anticipa e rende possibili l’iconografia e la Veltanschaung
sottese all’epos supereroico da Superman in avanti. Non solo,
dunque, la riemergenza (che potremmo definire junghiana) dei temi
legati alla libido e al controllo sociale, ma anche e soprattutto
l’interazione tra corpo e tecnologia che scaturisce da una
complessa accezione del freudiano “disagio della
civiltà”. Tarzan funziona come un grande
traduttore e divulgatore di istanze complesse, che riguardano
essenzialmente le sociologia di un corpo sottoposto a incessanti e
radicali mutazioni, fornendo ad esse una visibilità e
perfino una forma di conciliazione nei territori rituali
dell’immaginario. Lungi dal rappresentare
l’impossibile “nostalgia” per il perduto
stato di natura, Tarzan rivela la natura tecnologica del suo essere
“umano”. L’impossibilità
del selvaggio è raccontata da Tarzan nella propria
ambivalente natura di corpo biologico e corpo tecnologico. Il Figlio
della Giungla mette in scena se stesso attraverso un corollario di
media sempre più diversificato e
“anti-naturalistico”. Per permettere al
più importante Tarzan sonoro del cinema di esprimere in
maniera credibile la propria anima primitiva, ad esempio, si
è dovuti ricorrere ad una sofisticata operazione di
intervento tecnico sui suoni. L’urlo che, insieme
all’esibizione della propria fisicità apollinea,
permette a Weissmuller di identificarsi con la maschera del personaggio
burroughsiano, è infatti frutto di una complessa
sovrapposizione ed elaborazione realizzata in laboratorio tra versi
animali e sonorità tecniche. Il linguaggio primitivo, che si
associa alla costruzione di Tarzan come mass-cult,
è un’invenzione della tecnologia del cinema:
l’unica che possa realizzare la voce della bestia incarnata
nel corpo culturale dell’uomo moderno. Ma la
vocazione di Tarzan a interpretare, nella finzione della
naturalità, il divenire del corpo tecnologico e delle sue
protesi simboliche si riscontra in tutte le declinazioni
dell’Uomo Scimmia, confermata dalla serialità
trasversale delle sue narrazioni e di quelle dei suoi innumerevoli
epigoni. Dietro il mito ideologicamente ambiguo ma efficace
dell’origine della specie, Tarzan ha
funzionato piuttosto come volgarizzazione del concetto di ominazione,
ovvero dell’allontanamento dallo stato di natura e dalla sua
“sensibilità” indicibile. Basti pensare
alle versioni televisive del personaggio, che ne hanno sottolineato
l’organicità ai modelli della comunicazione
generalista e di massa (specie la tv-serie interpretata negli anni
Settanta dall’attore australiano Ron Ely, che richiama la
versione grafica del comic-maker Russ Manning, autore del Tarzan
più “integrato” nelle ideologie della
modernità). Ma anche ai videogiochi, che soprattutto nella
loro fase aurorale hanno fatto più volte ricorso
all’allure dell’Uomo Scimmia per
attirare l’attenzione del nascente homo game.
Per finire al cartoon Disney del 2000, che chiude e
“sigla” il secolo breve nelle aperture estetiche e
tecnologiche verso l’orizzonte del digitale.
|