Procedendo in senso opposto ecco, invece, la
linea morbida, ambient music, acquerelli spesso contaminati da suoni e
ritmi non occidentali, oppure sonorità semplicemente lievi,
impalpabili, secondo i dettami del manifesto sonoro stilato nel 1978 da
Brian Eno, ovvero il disco Ambient 1: Music for Airports.
È l’area esplorata da Mo Boma, che deve molto
soprattutto a un lavoro firmato da Jon Hassell con Brian Eno nel 1980, Fourth
world vol. 1: Possible Musics, suoni soffusi, che sembrano
attingere da una memoria musicale collettiva, ancestrale, la stessa
dalla quale Ballard preleva le sue immagini abbacinanti. In fondo a
questa strada si arriva all’elettronica del silenzio, un
invito all’ascolto dell’inner space. Ancora una
pattuglia di musicisti tedeschi in prima fila, da Thomas Köner
a Bernhard Günter, o il giapponese Ryoji Ikeda. Crepitii e
frequenze che affiorano dal nulla, suoni residuali come quelli di cui
va a caccia lo spazzasuoni di Ballard. Köner, Bernardt e Ikeda
sono esponenti di spicco di quell’area musicale definita
isolazionista. Il termine proposto da Kevin Martin sul numero 115 di The
Wire, fu utilizzato nel 1994 dalla Virgin per intitolare il
quarto volume di una serie dedicata alla musica ambient. Titolo: Isolationism.
Nelle note di copertina si chiariva il concetto con le parole stesse di
Martin: “La musica asociale degli isolazionisti fornisce un
contesto ambientale confortevole a tutte le persone che nel solipsismo
ripongono la loro fede”. Difficile non vedere in questo
profilo un bel po’ dei personaggi ballardiani. Esiste
però anche un percorso inverso, che dai quei raccontini di
Vermilion Sands arrivano alle sculture sonore, in realtà
preesistenti e che mettono in luce il legame tra Ballard e
l’avantgarde. “Una sera mi recai alle scogliere di
sabbia dove crescono le sonisculture. Salii per i lunghi pendii
ascoltandole piagnucolare e gemere…” (Le
statue canore in Ballard, 2003). Le sculture sonore nascono
nel 1952 ad opera di due fratelli francesi, François e
Bernard Baschet. Geniali artigiani del suono i Baschet inventano negli
anni una serie di attrezzi suonanti fatti perlopiù di sbarre
metalliche e tubi di vetro che strofinati o percossi emettono suoni
inauditi. Ne realizzano non pochi nell’arco di
vent’anni e se ne avvalgono nel tempo diversi compositori
contemporanei, da Karlheinz Stockhausen a Toru Takemitsu. Altro
pioniere è stato il pittore surrealista Jean Tinguely
(l’amore di Ballard per l’arte surrealista non
è mai stato un mistero), attivo anche nel campo della
scultura che installava un motore in alcune delle sue opere,
azionandone le parti. Queste muovendosi generavano suoni. Le idee
più compiute e rivoluzionarie, però arrivano
dagli Stati Uniti, dove Harry Partch per una quarantina
d’anni si è dedicato all’invenzione di
strumenti adatti a poter suonare le sue composizioni basate su un
sistema di accordatura da lui stesso concepito in opposizione al
classico sistema temperato a 12 parti per ottava. Il suo sistema,
infatti, ne prevede 43 per ottava e naturalmente nessuno degli
strumenti in circolazione può consentire di eseguire brani
così concepiti. Senza perdersi d’animo Partch
costruì strumenti su misura, oggetti singolarissimi, pezzi
unici affidati a un ensemble, il Gate 5,
“addestrato” dallo stesso Partch a suonare le sue
invenzioni, che vanno dal chromeloedon, un organo
modificato al cloud chamber bowl, set di ciotole di
cristallo.
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