A ben vedere
la prima forma di legittimazione del potere significa bene o male che
non è importante cosa sia chi ricopre determinate cariche,
l’importante è chi sia, a quale discendenza
appartenga, oppure da quale discendenza sia stato nominato.
È il caso delle monarchie. Il secondo caso, quello che si
addice alla nostra forma social-democratica matura, è quello
della legittimazione elettorale, diciamo: esistono delle regole, e
queste regole devono essere valide per tutti, chiunque può
accedere alle sfere del potere in quanto la garanzia che vi sta alla
base è quella del bene comune, della legalità
delle modalità di scelta e di assunzione del potente. In
buona sostanza non si ha il potere in base a ciò che si
è dalla nascita, ma in base a ciò che si sa fare.
È la tensione che in sociologia si impara subito come
opposizione tra ascrittività ed acquisività.
Ovviamente si tenga comunque sempre presente la natura tipico-ideale di
queste semplificazioni. Ecco il terzo tipo di legittimazione
di potere: quello carismatico. Esso non ha nulla di razionale,
né apparentemente né nella sostanza, almeno
così pare. Anzi, forse non c’è nulla di
più irrazionale dell’affidarsi ad un soggetto per
la sola forza del suo carisma. Gustave Le Bon, nel suo La
psicologia delle folle (1895) aveva già parlato di
come avviene il contratto silenzioso di potere tra una
personalità carismatica e un popolo sottostante. Bastano
pochi accorgimenti: la ripetizione, l’utilizzo di formule
semplici ed immediate, la ridondanza… e magari (o forse
soprattutto) una bella faccia. La personalità carismatica
è il tipo ideale del potere del nostro tempo, per quanto la
legittimazione legal-razionale sembri forse più adeguata in
questo ruolo. Certo si elegge legalmente, si vota, si presentano le
candidature, si fa mostra di un eloquio tecnico, è ovvio. Ma
la sostanza che modifica la concezione di uno o di un altro individuo
non sta nella considerazione razionale delle parole o delle
realizzazioni di un candidato o di una schiera di candidati.
C’è un fatto che sta al di sotto di questo. Il
carisma, appunto. Elemento irrazionale, fatto di umori e di profumi
più che della certezza del fatto. E il carisma è
ciò che può nascere proprio in una situazione in
cui l’estrema razionalizzazione di determinati ambiti non fa
altro che disincantare l’individuo, che renderlo, a questo
punto, soggetto non più interrogativo. E sì che
una delle maggiori ammissioni sartriane è proprio che lo
squilibrio esistenziale tra il mondo e l’uomo pone
quest’ultimo, nei confronti dell’essere,
“in atteggiamento interrogativo” (1943). Ci si
abbandona al carisma quando non ci si chiede il perché delle
cose, quando la faccia resta atteggiata in una posa millenaria di
attesa passiva, senza che possano esistere particolari stati
d’animo. Il carisma è assimilabile ad un qualsiasi
stato di stupore isterico, ci si lascia andare dalle cose. Si diventa
parte di un tutto di cui non si conosce la forma generale, e si
è sicuri del funzionamento di questo tutto pur non sapendone
veramente nulla. Allora si immagini il volto di Achille e
della tartaruga sotto questa nuova luce. Magari Achille, allora, non
raggiunge la tartaruga perché si soffermerà a
chiedersi il perché delle cose, il perché circa
il fatto che potrebbe o non potrebbe raggiungere la sua avversaria
nella corsa. E se la tartaruga, invece di correre con le proprie forze,
prendesse una scala mobile?
|