I maghi del marketing, il brand Harry Potter e i cloni del successo di Roberto Paura |
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I n una delle scene meglio riuscite del Jurassic Park
di Steven Spielberg, in cui il miliardario John Hammond spiega in un
monologo quasi delirante le ragioni del suo parco, il regista insiste
su un’inquadratura emblematica: su uno scaffale in penombra,
a simboleggiare il crepuscolo del sogno infantile di Hammond, sono
accatastati i prodotti di merchandising del parco: peluche di T-Rex,
cappellini, magliette, borracce, tazze e così via con il
logo del Jurassic Park impresso in bella vista. Spielberg con
quell’inquadratura trasforma in arte il più
volgare fenomeno ad esso connesso, che proprio con quel film
diventerà fenomeno di massa: il brand management, che fa di
ogni merce– dalla Coca-cola a un film oppure un romanzo
– una prodotto da capitalizzare, attraverso le
strategie di marketing. Il merchandising, termine che designa solo una
branca di una strategia ben più vasta, è tutto
lì: dopo l’uscita del film, quegli stessi
cappellini, borracce, album di figurine, penne e matite che comparivano
nella pellicola inonderanno i market del mondo reale, soddisfacendo il
desiderio di grandi e soprattutto piccoli spettatori di acquistare
qualunque cosa legata a quel brand. Ma quando il prodotto da
capitalizzare con strategie di marketing, non è qualcosa
realizzato al solo scopo di guadagnare (come può essere un
jeans di marca, una bibita e così via), ma è
qualcosa che risponde a un desiderio più o meno
disinteressato del suo creatore, come può essere un film e
ancora di più un romanzo, si crea un conflitto di interessi.
Fino a che punto, cioè, la creatività che
è alla base della realizzazione di un’opera
d’arte può essere disposta ad assoggettarsi a
logiche di marketing? E fino a che punto è giusto tutto
ciò? | ||
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