In una delle scene meglio riuscite del Jurassic Park
di Steven Spielberg, in cui il miliardario John Hammond spiega in un
monologo quasi delirante le ragioni del suo parco, il regista insiste
su un’inquadratura emblematica: su uno scaffale in penombra,
a simboleggiare il crepuscolo del sogno infantile di Hammond, sono
accatastati i prodotti di merchandising del parco: peluche di T-Rex,
cappellini, magliette, borracce, tazze e così via con il
logo del Jurassic Park impresso in bella vista. Spielberg con
quell’inquadratura trasforma in arte il più
volgare fenomeno ad esso connesso, che proprio con quel film
diventerà fenomeno di massa: il brand management, che fa di
ogni merce– dalla Coca-cola a un film oppure un romanzo
– una prodotto da capitalizzare, attraverso le
strategie di marketing. Il merchandising, termine che designa solo una
branca di una strategia ben più vasta, è tutto
lì: dopo l’uscita del film, quegli stessi
cappellini, borracce, album di figurine, penne e matite che comparivano
nella pellicola inonderanno i market del mondo reale, soddisfacendo il
desiderio di grandi e soprattutto piccoli spettatori di acquistare
qualunque cosa legata a quel brand. Ma quando il prodotto da
capitalizzare con strategie di marketing, non è qualcosa
realizzato al solo scopo di guadagnare (come può essere un
jeans di marca, una bibita e così via), ma è
qualcosa che risponde a un desiderio più o meno
disinteressato del suo creatore, come può essere un film e
ancora di più un romanzo, si crea un conflitto di interessi.
Fino a che punto, cioè, la creatività che
è alla base della realizzazione di un’opera
d’arte può essere disposta ad assoggettarsi a
logiche di marketing? E fino a che punto è giusto tutto
ciò? Nel 2008 un saggio di un’esperta
consulente di marketing, Susan Gunelius, dal titolo Harry
Potter. Come creare un business da favola, ha per la prima
volta gettato luce sui meccanismi messi in atto dal management per
vendere il brand Harry Potter in tutti i modi
possibili. Pur partendo dall’irrinunciabile premessa per cui
se Harry Potter non fosse stato un ottimo prodotto
non sarebbero bastati tutti i trucchi e le magie del marketing per
creare il fenomeno attuale, il libro in realtà si fonda
sulla convinzione che sia possibile replicare a tavolino un successo
come quello ottenuto da J. K. Rowling. L’autrice stessa, che
nel linguaggio settoriale viene definita “custode
del brand”, è considerata dalla Gunelius come la
principale rotella dell’immenso ingranaggio commerciale di Harry
Potter. Non tanto perché è stata colei
che, attraverso un’operazione creativa, ha dato vita ai sette
romanzi della fortunata serie, ma perché ha saputo
tesaurizzare il suo prodotto attraverso operazioni come il perpetual
marketing (la storia viene diluita in sette romanzi,
fidelizzando gradualmente il cliente), il tease marketing
(sporadicamente l’autrice rende nota qualche informazione sui
romanzi successivi, ma mantenendo alta la curiosità e la
febbre per il prossimo episodio), il vigile controllo sul proprio brand
evitando fughe di notizie, banalizzazioni commerciali e overmerchandising. Quest’ultimo
termine viene usato dalla Gunelius per spiegare una delle ragioni che
ha permesso al brand Harry Potter di diventare un
fenomeno senza danneggiare tuttavia la qualità del prodotto
stesso, rappresentato dai romanzi e dai film ad esso collegati. Come si
è detto, il merchandising è tutto ciò
che ruota intorno a un brand in termini di prodotti accessori che ne
condividono la marca con quello principale. In una delle tabelle
più impressionanti del saggio, l’autrice riassume
i prodotti legati al merchandising di Harry Potter:
action figure, peluche, set da gioco, costruzioni Lego,
bacchette magiche, puzzle, carte da gioco e scambiabili, videogiochi,
t-shirt, portachiavi, penne, matite e tutti i possibili articoli di
cancelleria immaginabili, poster, tazze e piatti, orologi a muro,
dolciumi a tema, adesivi, articoli per le feste, e persino articoli per
il bagno e biancheria intima. Il fatturato complessivo di tutti questi
prodotti è ciò che costituisce la parte
dell’iceberg Harry Potter che sta sotto
il pelo dell’acqua, la cui punta è invece
rappresentata dai film e dai romanzi. Il brand Harry Potter
ha oggi un valore stimato intorno ai 4 miliardi di dollari (pari al
prodotto interno lordo del Ruanda). Eppure, la Rowling avrebbe avuto il
merito – secondo l’autrice di questo studio
– di non incorrere nell’errore tipico di un brand
come Disney, che è appunto quello
dell’overmerchandising. La scelta di J. K. Rowling di non
concedere a McDonald’s i diritti milionari per lo
sfruttamento di Harry Potter attraverso la vendita
di gadget negli Happy Meal sarebbe esemplificativa
di un atteggiamento di protezione verso la propria creatura, evitandone
l’eccessiva esposizione commerciale che avrebbe come effetto
il rigetto e la disaffezione da parte dei fan più maturi.
Viceversa, scrive la Gunelius, Disney è
il brand più soggetto a questo fenomeno: ogni film viene
sfruttato attraverso i canali di merchandising più disparati
fino allo sfinimento, allorquando la disaffezione diventa tale che
è necessario lanciare un nuovo film per rimettere in moto
con successo la macchina commerciale. Aver evitato
l’overmerchandising avrebbe permesso alla Rowling di fare di Harry
Potter un successo duraturo negli anni. Quello che
Susan Gunelius non fa nel suo saggio è differenziare le
strategie di marketing a seconda dei fini. Infatti,
c’è una differenza sostanziale tra le strategie
volte a vendere i romanzi (e i film) e quelle volte a incrementare
esponenzialmente i guadagni derivati attraverso il merchandising. Nel
primo caso gli interessi del brand team e quelli
dell’autore dell’opera coincidono: entrambi mirano
a incrementare le vendite così che aumentino di conseguenza
i guadagni, che sono per l’autore dell’opera il
riconoscimento tangibile dell’apprezzamento del pubblico e il
compenso per la fatica creativa. Nel secondo caso, le strategie di
marketing sono tutte a vantaggio del brand team che
vende il prodotto slegandolo completamente dal medium originario e
svuotandolo del suo significato. Per un autore, il merchandising
è la massificazione della propria opera, la sua
trasformazione in un prodotto dell’industria
culturale. Tuttavia, come già negli anni
Quaranta sostenevano Horkheimer e Adorno (1997) in uno dei
più profetici capitoli del loro Dialettica
dell’illuminismo, dedicato appunto
all’industria culturale, nella società di massa
l’opera d’arte perde completamente i propri
connotati e diventa anch’essa inesorabilmente oggetto di una
produzione industriale, al di là dell’aspetto del
merchandising. Del resto la serie di Harry Potter,
con il suo susseguirsi di episodi, ben si presta alla metafora dei due
filosofi della Scuola di Francoforte che assimilano il prodotto
culturale a quello industriale frutto della produzione in serie. Ma
soprattutto, per Horkheimer e Adorno le opere divenute prodotti
assumono nuovi fini, diventano cioè impliciti veicoli
propagandistici da parte delle classi egemoniche. Il “brand
team” di cui discute la Gunelius sarebbe il soggetto perfetto
per l’analisi dei due filosofi, in quanto il suo scopo non
è valorizzare l’opera dell’autore ma
sfruttarla in tutti i modi possibili alimentando le aspettative dei
consumatori verso quel prodotto; in questo modo, esso riesce a
prevedere e indirizzare i desideri del consumatore, e così
facendo giunge a controllarlo. Del resto, i film di successo sono oggi
solo quelli realizzati dalle grandi case cinematografiche, e
così i libri di successo sono quelli pubblicati dai grandi
editori; e così le opere possono essere implicitamente
manipolate per gli scopi di chi mette a disposizione i capitali per la
pubblicazione e la diffusione. Ad esempio, quando nel 1989 la Mondadori
decise di pubblicare nella sua collana Oscar un titolo dedicato alla
storia della Rivoluzione francese, fece cadere la scelta
sull’opera di Pierre Gaxotte, che proponeva una tra le
interpretazioni più reazionarie di quell’evento
storico: la scelta si legava a precise idee politiche dei nuovi
detentori dei capitali della casa editrice. Vero
è che J.K. Rowling ha sempre goduto di un’ampia
discrezionalità sui propri romanzi da parte degli editori,
eppure alla luce delle considerazioni di Horkheimer e Adorno il dubbio
che a questo punto si fa strada è: si può davvero
considerare Harry Potter (o un’altra
qualunque produzione narrativa di largo consumo, come quelle analizzate
nei ‘case studies’ del libro della Gunelius) come
un’opera artistica? In fin dei conti, si comincia a
distinguere tra novel e romance per
usare la definizione anglosassone
– degradando quest’ultima a “letteratura
di serie B” – con l’affermarsi dei feuilleton
dell’Ottocento, i romanzi d’appendice scritti per
aumentare i guadagni diluendo la storia in innumerevoli puntate. Eppure
i più fortunati feuilleton dell’epoca, si pensi al
monumentale Il Conte di Montecristo, oggi sono
considerati parte integrante della letteratura mondiale. Dumas quando
lo scrisse usò un’operazione di perpetual
marketing: aumentare sempre più gli intrecci della
storia per prolungare la narrazione e dunque il numero degli episodi
pubblicati, sfruttando il tema il più a lungo possibile.
Eppure, si chiedeva Umberto Eco in un breve saggio
sull’argomento (1985): “Se Dumas fosse stato pagato
non a righe in più ma a righe in meno, e avesse accorciato, Montecristo
sarebbe ancora quella macchina romanzesca che
è?...l’opera avrebbe ancora il suo
effetto…?”. Eco non ha dubbi: l’opera di
Dumas è un capolavoro della letteratura pur se pubblicato -
e allungato - per ragioni meramente economiche. Lo stesso vale per Harry
Potter? Edgar Morin, nel suo fondamentale studio
sull’industria culturale (1963), ritiene che si possa parlare
di opera d’arte e non di prodotto culturale quando a vincere
in questo braccio di ferro tra ruolo creativo dell’autore e
interesse lucrativo dell’industria culturale è il
primo contendente. Non raramente, osserva Morin, avviene che un autore
parlando del proprio romanzo o un regista parlando del proprio film non
lo riconosca come suo, ripudiando le scelte imposte
dall’industria culturale: “Allora viene meno la
soddisfazione più grande dell’artista, che
è quella di identificarsi con la propria opera,
cioè di giustificarsi attraverso di essa, di fondarvi la
propria trascendenza. È un fenomeno di alienazione, non
senza analogia con quello dell’operaio
dell’industria, ma in condizioni soggettive e oggettive
particolari, e con questa differenza essenziale: lui,
l’autore, è super-pagato”.
Per J.K. Rowling il problema non si è posto: i romanzi da
lei scritti sono stati accettati senza tagli dagli editori e i film
sono stati realizzati dietro la sua stretta supervisione garantita per
contratto. Per la Gunelius, il ruolo della Rowling come
“custode del brand” ha fatto sì che
opera d’arte e prodotto culturale siano riusciti a convivere. Diverso
è ciò che è avvenuto con la saga
cinematografica di Star Wars. Come si sa, George
Lucas alla metà degli anni Settanta riuscì a
imporre il suo film dopo molte fatiche e rinunciò a buona
parte del suo compenso per favorirne la riuscita. In cambio,
però, ottenne percentuali altissime sui guadagni del
merchandising abbinato, per un valore all’epoca stimato
intorno al miliardo di dollari. La trilogia prequel di Star
Wars uscita tra il 1999 e il 2006 non fu tanto voluta da
Lucas per raccontare una storia, ma per incrementare i suoi guadagni. E
ancora oggi, nonostante a più riprese il regista abbia
dichiarato di voler dedicarsi a film
“sperimentali”, egli non riesce a staccarsi dal
brand che cerca di capitalizzare il più possibile con film e
serie d’animazione, videogiochi e serie televisive. In un
saggio sul merchandising di Star Wars
(Corbò, Aghemo 1999) si può leggere
l’intero impressionante catalogo della Kenner che tra il 1978
e il 1984 produsse le action-figures e i giocattoli legati al brand.
Spulciando oggi un report di una società di marketing
realizzato per il lancio della serie animata The Clone Wars,
si rimane impressionati da come il prodotto sia considerato solo come
elemento commercializzabile: “I tempi sono maturi per portare
anche in Italia Star Wars in una dimensione di mass
market”, si legge. E si continua con
l’elenco di tutti i prodotti oggetto di merchandising: i giocattoli Hasbro
e Lego, i videogames dell’Activision, le
carte da gioco di Wizard of the Coast, i gadget
degli Happy Meal di McDonald’s, della
Kellog’s e così via. Quello che
emerge è esattamente il fenomeno aborrito dalla Gunelius: la
trasformazione del merchandising in overmerchandising,
dell’opera d’arte in prodotto culturale tout
court. La lezione che si apprende dalla lettura dello studio
di Susan Gunelius è quindi che esiste ancora un margine per
la fantasia in un mondo dominato dall’industria culturale.
Eppure, quando questa lezione viene veicolata attraverso uno studio di
marketing qual è il saggio in questione, qualche dubbio
lecito sui tempi che corrono sorge spontaneo.
:: letture ::
— Gunelius S., Harry Potter. The Story of a Global
Business Phenomenon, 2008, trad. it. Harry Potter.
Come creare un business da favola, a cura di Paola Dublini,
Egea, Milano, 2008.
— Riccardo Corbò e Enrico Aghemo, Il
merchandise di Star Wars, in Massimo Benvegnù (a
cura di), Guida completa a Star Wars, Falsopiano,
Alessandria, 1999.
— Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialektik der
Aufklärung, 1947, trad. it. Dialettica
dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1997.
— Morin E., L'industrie culturelle, 1962,
trad. it. L’industria culturale. Saggio sulla
cultura di massa, Il Mulino, Bologna, 1963.
— Umberto Eco, Elogio del Montecristo, in
Id., Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la
rappresentazione, l’illusione, l’immagine,
Bompiani, Milano, 1985.
:: visioni ::
— Columbus C., Harry Potter e la Pietra Filosofale,
Usa, 2001, Warner Home Video.
— Lucas G., Guerre Stellari, USA, 1977, 20th
Century Fox International.
— Spielberg S., Jurassic Park, USA, 1993,
Columbia Tristar.
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