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I maghi del marketing, il brand Harry Potter e i cloni del successo
di 
Roberto Paura

mktIn una delle scene meglio riuscite del Jurassic Park di Steven Spielberg, in cui il miliardario John Hammond spiega in un monologo quasi delirante le ragioni del suo parco, il regista insiste su un’inquadratura emblematica: su uno scaffale in penombra, a simboleggiare il crepuscolo del sogno infantile di Hammond, sono accatastati i prodotti di merchandising del parco: peluche di T-Rex, cappellini, magliette, borracce, tazze e così via con il logo del Jurassic Park impresso in bella vista. Spielberg con quell’inquadratura trasforma in arte il più volgare fenomeno ad esso connesso, che proprio con quel film diventerà fenomeno di massa: il brand management, che fa di ogni merce– dalla Coca-cola a un film oppure un romanzo – una prodotto  da capitalizzare, attraverso le strategie di marketing. Il merchandising, termine che designa solo una branca di una strategia ben più vasta, è tutto lì: dopo l’uscita del film, quegli stessi cappellini, borracce, album di figurine, penne e matite che comparivano nella pellicola inonderanno i market del mondo reale, soddisfacendo il desiderio di grandi e soprattutto piccoli spettatori di acquistare qualunque cosa legata a quel brand. Ma quando il prodotto da capitalizzare con strategie di marketing, non è qualcosa realizzato al solo scopo di guadagnare (come può essere un jeans di marca, una bibita e così via), ma è qualcosa che risponde a un desiderio più o meno disinteressato del suo creatore, come può essere un film e ancora di più un romanzo, si crea un conflitto di interessi. Fino a che punto, cioè, la creatività che è alla base della realizzazione di un’opera d’arte può essere disposta ad assoggettarsi a logiche di marketing? E fino a che punto è giusto tutto ciò?
Nel 2008 un saggio di un’esperta consulente di marketing, Susan Gunelius, dal titolo Harry Potter. Come creare un business da favola, ha per la prima volta gettato luce sui meccanismi messi in atto dal management per vendere il brand Harry Potter in tutti i modi possibili. Pur partendo dall’irrinunciabile premessa per cui se Harry Potter non fosse stato un ottimo prodotto non sarebbero bastati tutti i trucchi e le magie del marketing per creare il fenomeno attuale, il libro in realtà si fonda sulla convinzione che sia possibile replicare a tavolino un successo come quello ottenuto da J. K. Rowling. L’autrice stessa, che nel linguaggio settoriale viene definita  “custode del brand”, è considerata dalla Gunelius come la principale rotella dell’immenso ingranaggio commerciale di Harry Potter. Non tanto perché è stata colei che, attraverso un’operazione creativa, ha dato vita ai sette romanzi della fortunata serie, ma perché ha saputo tesaurizzare il suo prodotto attraverso operazioni come il perpetual marketing (la storia viene diluita in sette romanzi, fidelizzando gradualmente il cliente), il tease marketing (sporadicamente l’autrice rende nota qualche informazione sui romanzi successivi, ma mantenendo alta la curiosità e la febbre per il prossimo episodio), il vigile controllo sul proprio brand evitando fughe di notizie, banalizzazioni commerciali e overmerchandising.
Quest’ultimo termine viene usato dalla Gunelius per spiegare una delle ragioni che ha permesso al brand Harry Potter di diventare un fenomeno senza danneggiare tuttavia la qualità del prodotto stesso, rappresentato dai romanzi e dai film ad esso collegati. Come si è detto, il merchandising è tutto ciò che ruota intorno a un brand in termini di prodotti accessori che ne condividono la marca con quello principale. In una delle tabelle più impressionanti del saggio, l’autrice riassume i prodotti legati al merchandising di Harry Potter: action figure, peluche, set da gioco, costruzioni Lego, bacchette magiche, puzzle, carte da gioco e scambiabili, videogiochi, t-shirt, portachiavi, penne, matite e tutti i possibili articoli di cancelleria immaginabili, poster, tazze e piatti, orologi a muro, dolciumi a tema, adesivi, articoli per le feste, e persino articoli per il bagno e biancheria intima. Il fatturato complessivo di tutti questi prodotti è ciò che costituisce la parte dell’iceberg Harry Potter che sta sotto il pelo dell’acqua, la cui punta è invece rappresentata dai film e dai romanzi. Il brand Harry Potter ha oggi un valore stimato intorno ai 4 miliardi di dollari (pari al prodotto interno lordo del Ruanda). Eppure, la Rowling avrebbe avuto il merito – secondo l’autrice di questo studio – di non incorrere nell’errore tipico di un brand come Disney, che è appunto quello dell’overmerchandising. La scelta di J. K. Rowling di non concedere a McDonald’s i diritti milionari per lo sfruttamento di Harry Potter attraverso la vendita di gadget negli Happy Meal sarebbe esemplificativa di un atteggiamento di protezione verso la propria creatura, evitandone l’eccessiva esposizione commerciale che avrebbe come effetto il rigetto e la disaffezione da parte dei fan più maturi. Viceversa, scrive la Gunelius, Disney è il brand più soggetto a questo fenomeno: ogni film viene sfruttato attraverso i canali di merchandising più disparati fino allo sfinimento, allorquando la disaffezione diventa tale che è necessario lanciare un nuovo film per rimettere in moto con successo la macchina commerciale. Aver evitato l’overmerchandising avrebbe permesso alla Rowling di fare di Harry Potter un successo duraturo negli anni.
Quello che Susan Gunelius non fa nel suo saggio è differenziare le strategie di marketing a seconda dei fini. Infatti, c’è una differenza sostanziale tra le strategie volte a vendere i romanzi (e i film) e quelle volte a incrementare esponenzialmente i guadagni derivati attraverso il merchandising. Nel primo caso gli interessi del brand team e quelli dell’autore dell’opera coincidono: entrambi mirano a incrementare le vendite così che aumentino di conseguenza i guadagni, che sono per l’autore dell’opera il riconoscimento tangibile dell’apprezzamento del pubblico e il compenso per la fatica creativa. Nel secondo caso, le strategie di marketing sono tutte a vantaggio del brand team che vende il prodotto slegandolo completamente dal medium originario e svuotandolo del suo significato. Per un autore, il merchandising è la massificazione della propria opera, la sua trasformazione in un prodotto dell’industria culturale. 
Tuttavia, come già negli anni Quaranta sostenevano Horkheimer e Adorno (1997) in uno dei più profetici capitoli del loro Dialettica dell’illuminismo, dedicato appunto all’industria culturale, nella società di massa l’opera d’arte perde completamente i propri connotati e diventa anch’essa inesorabilmente oggetto di una produzione industriale, al di là dell’aspetto del merchandising. Del resto la serie di Harry Potter, con il suo susseguirsi di episodi, ben si presta alla metafora dei due filosofi della Scuola di Francoforte che assimilano il prodotto culturale a quello industriale frutto della produzione in serie. Ma soprattutto, per Horkheimer e Adorno le opere divenute prodotti assumono nuovi fini, diventano cioè impliciti veicoli propagandistici da parte delle classi egemoniche. Il “brand team” di cui discute la Gunelius sarebbe il soggetto perfetto per l’analisi dei due filosofi, in quanto il suo scopo non è valorizzare l’opera dell’autore ma sfruttarla in tutti i modi possibili alimentando le aspettative dei consumatori verso quel prodotto; in questo modo, esso riesce a prevedere e indirizzare i desideri del consumatore, e così facendo giunge a controllarlo. Del resto, i film di successo sono oggi solo quelli realizzati dalle grandi case cinematografiche, e così i libri di successo sono quelli pubblicati dai grandi editori; e così le opere possono essere implicitamente manipolate per gli scopi di chi mette a disposizione i capitali per la pubblicazione e la diffusione. Ad esempio, quando nel 1989 la Mondadori decise di pubblicare nella sua collana Oscar un titolo dedicato alla storia della Rivoluzione francese, fece cadere la scelta sull’opera di Pierre Gaxotte, che proponeva una tra le interpretazioni più reazionarie di quell’evento storico: la scelta si legava a precise idee politiche dei nuovi detentori dei capitali della casa editrice. 
Vero è che J.K. Rowling ha sempre goduto di un’ampia discrezionalità sui propri romanzi da parte degli editori, eppure alla luce delle considerazioni di Horkheimer e Adorno il dubbio che a questo punto si fa strada è: si può davvero considerare Harry Potter (o un’altra qualunque produzione narrativa di largo consumo, come quelle analizzate nei ‘case studies’ del libro della Gunelius) come un’opera artistica? In fin dei conti, si comincia a distinguere tra novel e romance per usare la definizione anglosassone  – degradando quest’ultima a “letteratura di serie B” – con l’affermarsi dei feuilleton dell’Ottocento, i romanzi d’appendice scritti per aumentare i guadagni diluendo la storia in innumerevoli puntate. Eppure i più fortunati feuilleton dell’epoca, si pensi al monumentale Il Conte di Montecristo, oggi sono considerati parte integrante della letteratura mondiale. Dumas quando lo scrisse usò un’operazione di perpetual marketing: aumentare sempre più gli intrecci della storia per prolungare la narrazione e dunque il numero degli episodi pubblicati, sfruttando il tema il più a lungo possibile. Eppure, si chiedeva Umberto Eco in un breve saggio sull’argomento (1985): “Se Dumas fosse stato pagato non a righe in più ma a righe in meno, e avesse accorciato, Montecristo sarebbe ancora quella macchina romanzesca che è?...l’opera avrebbe ancora il suo effetto…?”. Eco non ha dubbi: l’opera di Dumas è un capolavoro della letteratura pur se pubblicato - e allungato - per ragioni meramente economiche. Lo stesso vale per Harry Potter?
Edgar Morin, nel suo fondamentale studio sull’industria culturale (1963), ritiene che si possa parlare di opera d’arte e non di prodotto culturale quando a vincere in questo braccio di ferro tra ruolo creativo dell’autore e interesse lucrativo dell’industria culturale è il primo contendente. Non raramente, osserva Morin, avviene che un autore parlando del proprio romanzo o un regista parlando del proprio film non lo riconosca come suo, ripudiando le scelte imposte dall’industria culturale: “Allora viene meno la soddisfazione più grande dell’artista, che è quella di identificarsi con la propria opera, cioè di giustificarsi attraverso di essa, di fondarvi la propria trascendenza. È un fenomeno di alienazione, non senza analogia con quello dell’operaio dell’industria, ma in condizioni soggettive e oggettive particolari, e con questa differenza essenziale: lui, l’autore, è super-pagato”. Per J.K. Rowling il problema non si è posto: i romanzi da lei scritti sono stati accettati senza tagli dagli editori e i film sono stati realizzati dietro la sua stretta supervisione garantita per contratto. Per la Gunelius, il ruolo della Rowling come “custode del brand” ha fatto sì che opera d’arte e prodotto culturale siano riusciti a convivere.
Diverso è ciò che è avvenuto con la saga cinematografica di Star Wars. Come si sa, George Lucas alla metà degli anni Settanta riuscì a imporre il suo film dopo molte fatiche e rinunciò a buona parte del suo compenso per favorirne la riuscita. In cambio, però, ottenne percentuali altissime sui guadagni del merchandising abbinato, per un valore all’epoca stimato intorno al miliardo di dollari. La trilogia prequel di Star Wars uscita tra il 1999 e il 2006 non fu tanto voluta da Lucas per raccontare una storia, ma per incrementare i suoi guadagni. E ancora oggi, nonostante a più riprese il regista abbia dichiarato di voler dedicarsi a film “sperimentali”, egli non riesce a staccarsi dal brand che cerca di capitalizzare il più possibile con film e serie d’animazione, videogiochi e serie televisive. In un saggio sul merchandising di Star Wars (Corbò, Aghemo 1999) si può leggere l’intero impressionante catalogo della Kenner che tra il 1978 e il 1984 produsse le action-figures e i giocattoli legati al brand. Spulciando oggi un report di una società di marketing realizzato per il lancio della serie animata The Clone Wars, si rimane impressionati da come il prodotto sia considerato solo come elemento commercializzabile: “I tempi sono maturi per portare anche in Italia Star Wars in una dimensione di mass market”, si legge. E si continua con l’elenco di tutti i prodotti oggetto di merchandising: i giocattoli Hasbro e Lego, i videogames dell’Activision, le carte da gioco di Wizard of the Coast, i gadget degli Happy Meal di McDonald’s, della Kellog’s e così via. 
Quello che emerge è esattamente il fenomeno aborrito dalla Gunelius: la trasformazione del merchandising in overmerchandising, dell’opera d’arte in prodotto culturale tout court. La lezione che si apprende dalla lettura dello studio di Susan Gunelius è quindi che esiste ancora un margine per la fantasia in un mondo dominato dall’industria culturale. Eppure, quando questa lezione viene veicolata attraverso uno studio di marketing qual è il saggio in questione, qualche dubbio lecito sui tempi che corrono sorge spontaneo.

 


 

:: letture ::

— Gunelius S., Harry Potter. The Story of a Global Business Phenomenon, 2008, trad. it. Harry Potter. Come creare un business da favola, a cura di Paola Dublini, Egea, Milano, 2008.

— Riccardo Corbò e Enrico Aghemo, Il merchandise di Star Wars, in Massimo Benvegnù (a cura di), Guida completa a Star Wars, Falsopiano, Alessandria, 1999.

— Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, 1947, trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1997.

— Morin E., L'industrie culturelle, 1962, trad. it. L’industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Il Mulino, Bologna, 1963.

— Umberto Eco, Elogio del Montecristo, in Id., Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione, l’illusione, l’immagine, Bompiani, Milano, 1985.

 


 

:: visioni ::

— Columbus C., Harry Potter e la Pietra Filosofale, Usa, 2001, Warner Home Video.

— Lucas G., Guerre Stellari, USA, 1977, 20th Century Fox International.

— Spielberg S., Jurassic Park, USA, 1993, Columbia Tristar.