I maghi del marketing, il brand Harry Potter e i cloni del successo |
di Roberto Paura | |
Tuttavia, come già negli anni
Quaranta sostenevano Horkheimer e Adorno (1997) in uno dei
più profetici capitoli del loro Dialettica
dell’illuminismo, dedicato appunto
all’industria culturale, nella società di massa
l’opera d’arte perde completamente i propri
connotati e diventa anch’essa inesorabilmente oggetto di una
produzione industriale, al di là dell’aspetto del
merchandising. Del resto la serie di Harry Potter,
con il suo susseguirsi di episodi, ben si presta alla metafora dei due
filosofi della Scuola di Francoforte che assimilano il prodotto
culturale a quello industriale frutto della produzione in serie. Ma
soprattutto, per Horkheimer e Adorno le opere divenute prodotti
assumono nuovi fini, diventano cioè impliciti veicoli
propagandistici da parte delle classi egemoniche. Il “brand
team” di cui discute la Gunelius sarebbe il soggetto perfetto
per l’analisi dei due filosofi, in quanto il suo scopo non
è valorizzare l’opera dell’autore ma
sfruttarla in tutti i modi possibili alimentando le aspettative dei
consumatori verso quel prodotto; in questo modo, esso riesce a
prevedere e indirizzare i desideri del consumatore, e così
facendo giunge a controllarlo. Del resto, i film di successo sono oggi
solo quelli realizzati dalle grandi case cinematografiche, e
così i libri di successo sono quelli pubblicati dai grandi
editori; e così le opere possono essere implicitamente
manipolate per gli scopi di chi mette a disposizione i capitali per la
pubblicazione e la diffusione. Ad esempio, quando nel 1989 la Mondadori
decise di pubblicare nella sua collana Oscar un titolo dedicato alla
storia della Rivoluzione francese, fece cadere la scelta
sull’opera di Pierre Gaxotte, che proponeva una tra le
interpretazioni più reazionarie di quell’evento
storico: la scelta si legava a precise idee politiche dei nuovi
detentori dei capitali della casa editrice. | ||
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