Giù, in fondo al senso di colpa, fino a sfiorarne la superficie | di Erika Dagnino | |
Come una persona paralizzata che a causa della sua stessa forma paralizzante non avrebbe neanche facoltà effettiva, tecnica di suicidarsi, perpetuando quella sorta di urlo muto che dura per l’eternità. Con una continuità talmente potente da risultare inestinguibile. L’immagine dell’immobilizzazione nella sua stessa fisicità, la paralisi, non ci impedisce di evocare l’uscita da Sodoma e Gomorra, il divieto di girarsi per guardarle distrutte, il tramutarsi in statua di sale della moglie di Lot.
Il proprio io è composto da infiniti gesti, atti,
ribadendo infiniti sensi di colpa perché ogni gesto
è una conferma del proprio io, quindi della propria colpa,
si materializza così una sorta di inferno della
gestualità.
Ma se si vuole guardare al potenziale: non può
esistere un dolore fecondo? Non è ammesso convivere con
tutto ciò in cui il senso di colpa può
consistere? L’unico modo, forse, è
tacerlo.
La parola più consona al senso di colpa sembra dunque essere strazio: è straziante, irrimediabile, perché in quanto tale non accetta remissione. Insopportabilità in assoluto. Che però impedisce persino la morte. La morte potrebbe essere, certo avviene, ma come estrema conferma, non come via di fuga, uscita. Conferma postuma del senso di colpa provato. | ||
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— La Bibbia, Genesi 19, 25-26, Elle Di Ci, Leumann, To, United Bible Societies, 1985.
— Kafka F., Diari, Mondadori, Milano, 2002. |
— Kafka F., Lettera al padre, SE, Milano, 1987.
— Kafka F., Tutti i racconti, Newton Compton, Roma, 1995. |
Quando si è qualcuno, in Opere, Mondadori, Milano, 2000.
— Plath S., I capolavori di Sylvia Plath, Mondadori, Milano, 2004. |
— Tasso T., La Gerusalemme liberata, Garzanti, Milano, 2003. | |||