Forse, in caso contrario, non ci sarebbe senso di colpa, che
nel momento stesso in cui si innesca assume in sé elementi
di incoercibile, di ineluttabile, una sorta di nemesi greca.
Qui
ci si prova a credere poco al pentimento lucido razionale che porta a
pensare di non commettere una seconda volta, se non addirittura
ripetutamente, un medesimo errore, il quale, certo, dal momento che
è già stato compiuto ha avuto e continua ad avere
in qualche modo influenza. Il senso di colpa rischia di essere una
sorta di congelamento della norma dentro di sé, che
può essere tragico. Adozione di un comportamento libero
utopisticamente da norme e norma stessa interiorizzata, può
rivelarsi devastante anche perché il senso di colpa
è memoria dell’ineludibile: ormai il passato
è commesso, i fatti, i moti, movimenti, i gesti. Ma non
coincide necessariamente con quella forma di pentimento che
può essere portatrice di cambiamento: il senso di colpa si
configura al contrario, e al di sopra della propria volontà,
come una sorta di coma, inteso cioè non come stato dinamico,
ma giacente, per questo può manifestarsi ed essere tanto
doloroso e buio, immutabile: e l’immutabilità
è dello stesso e dallo stesso senso di colpa. Si rimane
inchiodati a ciò che si è commesso o a
ciò a cui riconduce il senso di colpa. Il passato a cui si
resta rivolti riporta a qualcosa che permane per sempre. Fatto per non
spegnersi, il senso di colpa è autoalimentazione,
autofagocitazione, se ad un aumento della sua stessa natura congelata,
fredda, immutabile, al tempo stesso sempre più gravosa,
corrisponde una dinamica, questa si muove come sommatoria, non per
evoluzione, ma, involvente, gira su se stesso l’unico
mutamento possibile, avvenendo per quantità, non per
qualità. Il senso di colpa, somma di tutti i sensi di colpa
possibili, è una sorta di costante rinnovarsi nel senso
quantitativo, pura configurazione materiale. Quindi il dramma. Per
definizione eterno soffrire, tribolare, tornare su se stessi, permanere
in una perenne dannazione. Un piccolo inferno privato, si accetti
l’immagine banale. Mancanza di libertà, blocco,
congelamento, ghiaccio che è paralisi per antonomasia.
La tragedia di tutto questo
è una sorta di umbratilità, entro la stessa
corporeità a cui per sua natura appartiene il senso di
colpa, e viceversa. Permanendo l’interiorizzazione anche di
qualcosa di molto aereo, difficile da definire, trasparenza di qualcosa
di molto materiale, senso di colpa che, pur addicendosi in misura
maggiore allo spirito, è anche assolutamente fisico. Siamo
così di fronte al congelamento del fiume
dell’anima. Gelido, glaciale, gelido; sorta di dimensione di
tortura; un continuo rimanere crocifissi. Non dimentichiamo che il
senso di colpa può scaturire anche per qualcosa che si
potrebbe fare, che ancora non si è fatto, ma la maggior
tragedia, il profondamente drammatico, è il senso di colpa
non per quello che si fa, il fare, ma per quello
che si è, l’essere.
L’aria
della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia e io non avevo
la forza di muovermi. (Plath, 2004,
p. 427).
È in effetti anche lo sguardo degli altri che
normalizza o colloca al di fuori della norma. Non
c’è senso di colpa senza riferimento: è
per definizione sociale. Se poi la socialità sia la voce
dentro di sé e non degli altri, permane comunque e sempre un
riferimento altro. Un senso di colpa che dunque divora se stessi
perché non si può non essere quelli che si
è. L’io è l’agente della
propria vita, ma congelamento significa anche solidificazione di
qualcosa che dovrebbe essere fluido. Quindi senso di colpa anche come
impermeabilità al mutamento della propria situazione. Può essere morte, stasi, anti-dinamicità,
immobilità, sorta di sonno senza sogni, cessazione di ogni funzione vitale. Anche come impenetrabilità nelle due direzioni, da interno da esterno.
Per
chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato
come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.
(Plath, 2004, p.478).
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