Cosa potrebbe consentire di penetrare, di rompere il ghiaccio?
Il vero senso di colpa come assolutizzazione di uno stato non lascia
spazi alla penetrazione, è un blocco inerziale
assoluto. Parliamo sempre di una sorta di
radiografia istantanea dell’anima. Quasi assolutizzando,
comunque restando questo stato paralisi e immobilità ma non
silenzio, al contrario può essere permeato da fin troppe
voci. Il senso di colpa parla, urla, per definizione non può
tacere. Tutto si traduce invece, verbale extraverbale, voce, emozione
come voce, emozione, sorta di impazzimento, di riconduzione a se stessi
nell’impotenza più assoluta. Sorta di tortura
inerziale, di assoluta refrattarietà a tutto ciò
che esce ed entra. Il senso di colpa è per sua stessa natura
il momento, perpetuo, della tortura. Parlando in termini figurati, come
un Prometeo che è sempre lì a farsi cogliere, a
farsi beccare. Il silenzio risultando esterno,
poiché è il singolo stesso, sorta di doccione
eterno, che non ha la minima opportunità di contrapporre
alle voci qualcosa di esterno o di interno che possa risultare udibile.
Immobilità silenzio esteriore, orrore interiore, senza
possibilità di contrapposizione udibile esternamente.
Più che la paura, si addensa il raccapriccio, come qualcosa
che si sente giungere dall’esterno ma viene da dentro di
sé. La direzione è importante, sembra essere
sì una norma da fuori, ma anche da sé stessi si
auto produce, nell’impotenza assoluta fino a cui
può arrivare a ridurre.
Chi mi salva? E dentro
di me, quell’affollamento, nel profondo, quasi
irraggiungibile con lo sguardo. Io sono come un reticolato vivente, un
cancello che sta ritto e vuol cadere.
(Kafka, 2002, p. 426).
Esiste anche un senso di irrimediabilità del fatto
compiuto, in generale gli atti i fatti compiuti sembrano avere una
propria rimediabilità, il fatto, per riprovato che sia, in
qualche modo appare rimediabile. Investendo una dimensione prettamente
etica. Ma dove il senso di colpa coincide con quello che si
è, ecco l’innescarsi del senso
dell’irrimediabile. Si vuole qui ammettere che prima esiste
l’essere e poi il fare,
non asserendo che siamo la somma di ciò che abbiamo e non
abbiamo fatto, affermiamo che la scaturigine di ogni atto deriva da come
si è. E qualsiasi atto non è lo stesso se chi lo
mette in essere è in un modo piuttosto
che in un altro. Il senso di colpa dell’essere
riguarda una modalità di espressione nel mondo, altra parola
chiave, sempre in termini di concetti, è
l’asserzione su se stessi, che riguarda la propria
identità o quella che pensiamo di essere. Ancora, ci si
sente in colpa. Ma si sta vedendo sé stessi come si
è realmente o si sbaglia nel vedersi? Un senso di colpa per
quello che si è parte dall’esistenza e presenza
dell’io e noi vediamo quello che siamo davvero? Questo deve
essere il presupposto. Diamo quindi per scontato il rapporto di
autenticità con se stessi. E se c’è
l’io stesso che si sente in colpa per quello che
è, ci sono allora due atti distinti: l’io in
quanto tale e, come se ci fossero due ego, in qualche modo la propria
soggettività che si distacca scindendosi in quella che vede
e che si vede. Ma la funzione del senso di colpa a cosa si collega?
È l’io che si sente in colpa per la sua vera
essenza, o per le manifestazioni accessorie, i comportamenti, le
modalità?
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