Essere quello che si
è, è il vero problema, perché investe
il nucleo portante dell’io stesso, che si manifesta proprio
attraverso i suoi atti. C’è qualcosa in
più del compiere atti? Esiste prima l’io e poi
esistono gli atti? Sì, prima l’essere,
poi il fare. Se si
parte dal senso dell’io che oltrepassa gli atti che compie
allora si ‘riduce’ a quello che si è il
senso di colpa. Non semplicemente senso di colpa perché si
ha rubato, mentito, o chi sa cosa d’altro, ma per quello che
effettivamente è il rapporto tra io e se stessi, il proprio
io che viene visto specchiato dentro di sé. Il senso di
colpa risulta in qualche modo riflettersi in qualche zona, qualora sia
deformante resta comunque sempre un vedersi: il soggetto coinvolto si
vede: si piace o non si piace. Se non si vedesse mai non si sentirebbe
in colpa, probabilmente. Importante lo sguardo collegato al senso di
colpa. Ritorno sui propri passi legato strettamente alla dimensione di
guardare se stessi. Il rapporto tra esteriorizzazione e
interiorizzazione è un guardarsi estrinseco o intrinseco,
cosa si guarda di sé quando ci si sente in colpa per quello
che si è? È sguardo che potremmo definire scritto:
il senso di colpa è sempre comparazione alla norma, anche
perché si presuppone il conflitto di un’idea di
sé che non si è, secondo una regola ritenuta come
quella “giusta”, e fare in modo di aderire il
più possibile a questo modello, se non ideale, almeno di
quello che il soggetto in questione identifica tale.
Il senso di colpa
si delinea come uno scarto da una norma, alligna proprio lì
dove c’è lo scarto, è una sorta di
vuoto di non partecipazione in concreto, presupponendo una assenza.
Dal partecipare, dall’essere uno scarto di essere.
Scarto nel senso di non allineamento, di non partecipazione,
estraneità, essere inteso come moto da luogo, fuori da
qualcosa. Il senso di colpa consiste quindi in una certa mancanza di
pienezza dell’essere, quasi in termini
geografico-qualitativi, definibile in termini di scarto-mancanza,
poiché manca la scadenza dell’essere: mancato
appuntamento dell’essere a se stesso, alla sua compiutezza,
l’essere non si compie. L’inerzia, lo scarto, lo
stato inerziale bloccano, raggelano; raggelamento, congelamento, stati
ricorrenti anche nell’opera di Pirandello: quando
l’essere guarda se stesso c’è una forma
di paralisi, finanche alla paralisi del guardarsi famosi in Quando
si è qualcuno (2000), si raggela, si blocca anche
nel senso meccanico del termine. Sorta di paralisi quasi psicomotoria,
in senso metaforico, in senso fisico anche: l’essere
sentendosi in colpa immobilizza le sue funzioni e si sente inadeguato
anche a compierle. Quindi senso di colpa come sguardo, sempre
e comunque, e immobilità al tempo stesso.
…dovunque
mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di
Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a
respirare la mia stessa aria mefitica. (Plath,
2004, p. 427)
Di
Prometeo si riferiscono quattro leggende…Secondo la seconda
Prometeo per il dolore dei colpi di becco si addossò sempre
più alla roccia fino a diventare una sola cosa con essa.
(Kafka, 1995, p. 279)
Viene prima lo sguardo o il bloccarsi? Si presuppone la
contemporaneità, con la persistenza dello sguardo come
funzione corporea ed extracorporea che rimane in atto. Il senso di
colpa diventa un urlo congelato, sorta di urlo di Munch, una ribellione
all’essere quello che si è e non voler esserlo,
tale da impedire l’emissione di suono. Sorta di rifiuto anche
della propria comunicatività, in quanto radicale rifiuto del
proprio essere. Rende muti, nella sua assolutezza il senso di colpa
è una paralisi totale, non parziale o contingente.
È una assoluta immersione nel nulla: rifiutando quello che
si è non si esiste più.
Ma proprio
perché presuppone un io che lo prova, si viene a creare un
cortocircuito: tutto è paralizzato, fuorché lo
sguardo che rimane l’unico aspetto vivo. Immobilizzazione
totale con i soli occhi che si muovono, ma permanere di
quell’invisibile ingombro che spesso trascolora nella fin
troppo evidente visibilità. Restò
l’inspiegabile montagna rocciosa. (Kafka, 1995, p.
279). Il dramma fosco la mancanza di remissione, sentirsi in
colpa per quello che si è: se si pensa al suicidio, persino
il suicidio come uscita dal senso di colpa si pone fuori dalla
paralisi. Azione, atto, non può essere una o la via
d’uscita. Il congelamento è talmente radicato nel
proprio modo di essere, che nemmeno il suicidio può far
uscire. Non si interrompe, permane la dimensione di pura
fisicità, pura materia, pura pietra, entro uno stato di
consapevolezza.
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