Inoltre, e soprattutto, questa sembra rispondere al desiderio
di rifugiarsi in un universo simbolico solidale, quello femminile, che
dispensa fiducia e sicurezza ontologica, alimentandosi di diffidenza ed
ostilità verso gli uomini. Anche il rapporto di
solidarietà e compassione che Nina ha con la madre pare
avvalorare questa ipotesi, sebbene la genitrice disapprovi, incarnando
di nuovo una morale sottomessa, il lavoro della figlia. La
sicurezza che Nina sente così di avere acquisito viene
però messa in crisi quando scopre di avere un tumore.
Ottiene adesso forse più spessore una simbologia che
interviene più volte nell’impalcatura visiva del
film: la simbologia dell’acqua. Molteplici inquadrature di
Nina in piscina intervengono più volte nel racconto,
così come si avverte la ricchezza di riferimenti
all’elemento acqueo, al mare, ai fiumi. Probabilmente si
suggerisce, in modo latente, un legame con un percorso simbolico
traboccante di significati e ambivalenze che trova riscontro in
millenni di storia delle civiltà. Ed il film pare ispirare
l’idea di una purezza ricercata al di fuori delle comuni
ipocrisie moralistiche, quasi per associazione tattile ed emotiva tra
Nina che nuota e l’innocenza trasparente che ognuno accosta
alle limpide acque. Così come sembrano esistenti accenni
all’ambivalenza e reciprocità tra la vita e la
morte, questione che sarà poi una delle strutture portanti
dell’intero film. Anche perché uno dei problemi
che Nina si troverà improvvisamente ad affrontare, da viva,
sarà proprio il rapporto con la morte, la sua, che irrompe
minacciosa. La narrazione sottolinea, nella difficoltà
sostanziale che la società attuale trova ad elaborare
rassicuranti rappresentazioni collettive della morte, la particolare e
poco invidiabile condizione di solitudine in cui è costretto
il morente (Elias, 1985; Cavicchia Scalamonti, 1991). In un corpo
sociale fortemente individualizzato, in cui l’esistenza del
singolo difficilmente può essere inglobata in un universo di
senso razionalmente condiviso, se ognuno muore per conto suo risulta
improbabile identificarsi con chi è in fin di vita. Specie
se ciò ostacola una confortante presunzione inconscia di
immortalità (Freud, 1982). Così il moribondo
abbandona la sfera pubblica, che può percepirlo addirittura
come dannoso, per isolarsi spesso nelle inaccoglienti strutture
sanitarie, ponendo in questo modo la società al riparo dalla
sua immagine tanto preoccupante e tanto rivelatrice. Non dimentichiamo
che la tarda modernità pone frequentemente nella noncuranza
nei confronti della morte una strategia, indubbiamente illusoria e
caduca, di rassicurazione (Bauman, 1995).
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