LA VERITÀ AL TEMPO DELLA FICTION di Adolfo Fattori
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E qui ho bisogno di porre alcune premesse. Mi aiuterà il riferimento a un film, The Truman Show di Peter Weir, in particolare la scena in cui il regista della soap di cui Truman è l’inconsapevole star accetta di essere intervistato dal pubblico planetario che segue la trasmissione. All’intervistatore, che gli chiede come è possibile che il giovane non si sia mai accorto di nulla, Christof, il “creatore” di Truman, risponde: “E perché dovrebbe? Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta10. Una traduzione in senso letterale del concetto sociologico di “realtà come costruzione sociale”, realizzata però attraverso la dimensione produttiva dell’industria televisiva – e la complicità degli spettatori – ai danni (o perlomeno all’insaputa) del protagonista di questa stessa realtà. Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta… Questa è la frase chiave del bellissimo film di Weir. Nel film la frase è relativa al fatto che per il protagonista è stata predisposta una realtà materiale artificiale in cui viene collocato sin dalla nascita, così da credere che sia la vera realtà. Scoprirà alla fine che le cose stanno diversamente. Fra l’altro, l’indotto, per così dire, comunicativo del film è altamente significativo. La pellicola è stata descritta come un riferimento a 1984 di George Orwell11, parlando di “Grande Fratello”, producendo così un doppio errore: quello di scambiare un mondo opprimente e fondato sul controllo collettivo con un mondo in cui una sola persona è eventualmente oppressa, e in più è inconsapevole di far parte di un inganno. Altro esempio della sciatteria e faciloneria della via giornalistica alla produzione della conoscenza. I reality show, quelli veri, come pure tutti quei programmi di confessioni in pubblico, di esibizione dell’intimità, pongono semmai il problema della “verità” degli eventi proiettati o narrati “fuori campo”, “dietro le quinte”, realizzando una versione nuovissima del rapporto fra realtà e finzione12. Per noi cittadini dell’Occidente abituati ormai a conoscere gran parte della realtà per sentito dire, la realtà è anche – se non solo – quella che ci viene trasmessa dagli schermi. Per cui, appunto, attribuiamo alle immagini uno statuto di verità sicuramente maggiore rispetto a quello che attribuiamo alla parola scritta o “detta”. Fra l’altro, questa presunzione di verità è con grande chiarezza sintetizzata da Rudolf Arnheim13. Noi siamo infatti abituati a dire: “Sento il suono di quel violino”, ad esempio, o anche “Sento l’odore di quelle rose”, ma diciamo anche “Vedo quell’albero”, non “Vedo l’immagine di quell’albero”, anche se in realtà è corretta la seconda frase. Perché fra noi e il mondo c’è sempre una mediazione, costituita dai nostri organi di senso, ma anche dalla visione del mondo che abbiamo, che è il frutto della socializzazione, del nostro inserimento nella rete di significati che collettivamente la società in cui viviamo costruisce e si dà. E c’è un altro grosso “ma&rdquo. Già quando le tecnologie di registrazione e riproduzione delle immagini erano analogiche, era possibile “manipolarle”. Oggi, col digitale, è addirittura possibile produrne di totalmente “di sintesi”, segni del tutto privi di un referente reale. Possiamo creare dei veri e propri idoru, il termine giapponese per idolo, di cui scrive William Gibson nel romanzo omonimo14. A questo punto il dubbio su quello che vediamo diventa inestricabile, quasi metafisico, come – giusto per rimanere all’oggi – nella narrativa di Philip K. Dick, o come nel romanzo di Stephen King L’uomo in fuga15. Perché, mettendo da parte tutti gli entusiasmi sull’allargamento della democrazia grazie a internet, alla rete, alla circolazione delle informazioni, un dato rimane cruciale: Fin quando fra emittenti dei messaggi e loro intenzioni e riceventi degli stessi e loro aspettative regnerà l’asimmetria attuale, non potremo mai essere sicuri che le tecnologie della comunicazione siano al servizio di una informazione completa e veritiera. Perché, al di là di tutte le discussioni tradizionali sulla possibilità o meno di avere una informazione veramente “obiettiva” – l’alibi da sempre terreno di conflitto fra stampa, pubblico e altre agenzie - bisogna accettare il fatto che la verità, come la realtà, sono sempre il frutto di una negoziazione che riguarda il senso da dare alle cose, e che avviene sempre a livello sociale. Tutto dipende da quanto la società – ormai globalizzata: la comunità degli uomini – partecipa effettivamente a questa negoziazione. |
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14.
W. Gibson, Aidoru, Mondadori, Milano, 1996.
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15.
S. King, L’uomo in fuga, Sperling & Kupfer, Milano, 1997; Cfr. “Quaderni d’Altri Tempi” n. 5.
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bibliografia
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Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 2006. Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979. Il delitto perfetto La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano, 1996. |
Roland Barthes, “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti”, in AA.VV. L’analisi del racconto, Bompiani, Milano, 1969. Sergio Brancato, Senza fine, Liguori, Napoli, 2007. |
Daniel Dayan, Elihu Katz, Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna, 1993. Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979. William Gibson, Aidoru, Mondadori, Milano, 1996. |
Stephen King, L’uomo in fuga, Sperling & Kupfer, Milano, 1997. Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, Boringhieri, Torino, 1966. Tzvetan Todorov, Poétique, Seuil, Paris, 1968. |
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filmografia
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Peter Hyams, Capricorn One, USA, 1978. Mariano Laurenti, La liceale seduce i professori, 1979. Peter Weir, The Truman Show, USA, 1998. | ||||||
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