LA VERITÀ AL TEMPO DELLA FICTION di Adolfo Fattori
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La cosa, non si sa come, arrivò alla stampa. I quotidiani non si fecero pregare a prendere le proverbiali lucciole per lanterne, e di un topolino si fece una montagna. Articoli a stampa, corsivi, dibattiti: due ore di discussione diventarono “una settimana di lezioni di sesso”, la scuola si trovò ad avere due presidi, a diventare da istituto per ragionieri a istituto per geometri. Insomma, la verità si allontanò e si nascose. Gli studenti per una settimana bloccarono la scuola, e tutto finì con una grande manifestazione cittadina in un cinema bolognese (il Settebello: ancora serendipity?). All’evento mancò solo il gonfalone del Comune, e avremmo avuto una precoce versione postmoderna di Bocca di rosa di Fabrizio De André. A pensarci bene, se – come sostiene qualcuno, e siamo nello stesso ordine del discorso – la nascita della maturità mediale italiana è segnata dall’episodio di Vermicino (la prima lunga diretta non stop della televisione italiana) nel 19817, il battesimo del bisogno di reality show avviene nella bassa emiliana immaginata dai media nella primavera del 1984, fra studentesse di Castelmaggiore e belle di notte di Pordenone, a partire dall’immaginario provinciale di una italietta restia a sparire, ben rappresentata da film come La liceale seduce i professori, con Gloria Guida e Alvaro Vitali8. Posso a buon diritto misurare la distanza fra i fatti e l’affabulazione che ne fece l’informazione, perché ero lì: ero uno degli insegnanti della scuola. E feci una cosa: da buon sociologo della comunicazione (allora in erba) proposi ai miei studenti di raccogliere i quotidiani, e monitorare quanto e come l’informazione fornita differisse dalla realtà delle cose. Da questo lavoro (i cui materiali conservo gelosamente) nacque anche una pubblicazione a spese della Provincia di Bologna, intitolata naturalmente Lucciole per lanterne9, e in cui provavamo a definire una eventuale “grammatica dell’articolo giornalistico”, le cui conclusioni ho sintetizzato più sopra. Oggi, a distanza di tanti anni, altre riflessioni si affacciano. Intanto, che l’applicare al formato dell’informazione come “racconto” le grammatiche della narrativa, rappresenta solo un primo livello di analisi. È necessario accedere ad un altro livello, quello della pragmatica della comunicazione, e quindi di come il tipo di comunicazione che si istituisce fra i media e il pubblico influisca sul rapporto fra loro, producendo una relazione particolare, che incide in modo specifico sul sistema costituito dalle intenzioni dell’emittente e dalle attese del ricevente di messaggi. Ancora, diventa cruciale riflettere sulle eventuali differenze fra allora e oggi, in termini di evoluzione di questo rapporto, anche sulla base dell’enorme sviluppo che i media di massa hanno avuto da allora. Nell’episodio delle lucciole a Castelmaggiore è evidente la forza di una comunicazione che tocca un interdetto potente, il sesso e tutto ciò che vi è collegato. I giornali – e anche la TV – diedero la possibilità di scatenare nell’immaginazione del pubblico sogni (inconfessabili) e incubi (paranoici), giocando sull’intreccio che si sarebbe innescato fra detto e non detto, fra comunicazione e metacomunicazione. Ma contemporaneamente sdoganarono lo stesso interdetto, aprendo la strada alla futura gestione da parte della TV del trash e dell’intimità, su cui prosperano reality e talk show. Il tutto, sulla base di un antico meccanismo, che dalla sfera del magico passa alla sfera della cronaca: “Non è vero ma ci credo” diventa “Non è vero ma posso crederci”. Perché sarebbe divertente se fosse vero, perché mi fa piacere crederci, perché… perché no? Perché anche se la cronaca pretende di parlare del mondo reale, in effetti parla di mondi che non conosciamo direttamente, di cui abbiamo nozione “per sentito dire”, molto più vicini agli universi del sogno e della fiction, in cui tutto, dunque, è possibile. Perché, insomma, comunque tendiamo/possiamo immaginare che certe notizie presumibilmente sono vere. Dico presumibilmente, perché il problema reale è qui: nello statuto di verità che assegniamo alle informazioni che riceviamo. E che oggi viaggiano sempre più indissolubilmente insieme alle immagini che vediamo. |
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7.
Il 13 giugno del 1981, alle 7 del mattino, milioni di telespettatori italiani assistono impotenti alla morte di Alfredino Rampi. La Rai trasmette in diretta da ben 18 ore a reti unificate la
lenta agonia del povero bambino, precipitato alle 19 di due
giorni prima in un pozzo artesiano di soli 30 cm di diametro, ma profondo ben 30 metri, lasciato sconsideratamente aperto alle porte di Roma. È una grande tragedia, come purtroppo tante altre simili che capitano in ogni angolo del pianeta. Ma questo dramma ha qualcosa di speciale. Diventa un evento mediatico, un racconto per immagini del vano
tentativo di salvare una vita umana, |
che indirizza l'eterno flusso
televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento. Sul luogo della tragedia accorrono con il presidente Sandro Pertini
centinaia di persone che fanno una ressa inutile, nani e volontari dal
fisico minuscolo che cercano di calarsi nel pozzo per afferrare le mani
di Alfredino. Invano... Dal punto di vista narrativo, come nota lo storico Giovanni De Luna,
la diretta di Vermicino è il primo mix tra generi televisivi differenti, in particolare tra informazione e fiction: una inedita commistione tra le istanze relative al conoscere - legate all'informazione - e quelle relative al “partecipare emotivamente
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e passionalmente”, tipiche della fiction (…) La tragedia di Vermicino non è servita dunque a riflettere
sull'opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su come
trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare questo nuovo genere di
spettacolo basato sulla sofferenza.
Questo strano caso di real tv conclusosi con la morte di Alfredino non ha insegnato nulla ai responsabili della Tv: è stata solo il pass per uno sciacallaggio senza altro fine che quello di far lievitare gli ascolti. Da: Blogosfere, “1981, a Vermicino nasce la TV del dolore”. |
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