LA VERITÀ AL TEMPO DELLA FICTION di Adolfo Fattori
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Insomma, la dimensione giornalistica della conoscenza è – quantomeno – effimera, se non fungibile. Rischiamo di cadere, tuttavia, con queste affermazioni, proprio in quella dimensione di senso comune che vogliamo evitare, per cui si rende necessario andare più a fondo, e cercare di spiegare (spiegarci) queste affermazioni che sembrano così palesi. Partiamo da una premessa: seppure il termine “fiction”, nel glossario della postmodernità televisiva italiana, venga usato per indicare certe narrazioni seriali televisive, in realtà in origine significa racconto di finzione, narrazione: tutti i romanzi, i racconti, prima stampati, poi audiovisivi (Brancato, 2007). E, in effetti, il giornalista racconta. Racconta storie presunte vere, prese dalla realtà, dalla vita quotidiana nei suoi aspetti tendenzialmente più piccanti, bizzarri, grotteschi, feroci. Le notizie interessanti sono quelle che rompono con la normalità, l’ordine, la regolarità, i costumi e gli usi correnti. Quelle che hanno a che fare in qualche misura e maniera col perturbante. Sennò non sono notizie. E per far questo dovrà pure usare una grammatica. Parente, naturalmente, delle grammatiche del racconto, così come ipotizzate dagli studi sulla narrazione e la letterarietà. Questi studi hanno precedenti solidi. Senza scomodare Aristotele, possiamo far riferimento al Novecento, e a quegli studi e modelli che, partendo dal formalismo russo si sono trasferiti nello strutturalismo e nelle ricerche della semiotica. Partendo da Vladimir Propp, passando per Roland Barthes e Tzvetan Todorov, per arrivare a Umberto Eco e altri. Perché la narrazione ha le sue regole, che hanno a che fare con i meccanismi di connotazione e denotazione, con le presupposizioni, con le figure retoriche, con la pragmatica della comunicazione. Solo che il giornalista, rispetto al narratore – che sia un romanziere, o un regista – ha molti più vincoli. Non mi riferisco tanto alla deontologia professionale, per cui dovrebbe raccontare storie vere, non solo verosimili, quanto quelle legate alla gestione del tempo e dello spazio. Anche in questo caso, queste due categorie sono sovrane. Il giornalista ha poco spazio, su cui scrivere, se si tratta di un giornale, o parlare, se si tratta di televisione o di radio, e ha anche poco tempo a disposizione per comporre i suoi “pezzi”. Ma deve fornire comunque tutte le informazioni necessarie perché il lettore, l’ascoltatore, lo spettatore, capiscano. E quindi è costretto a usare le figure retoriche: le iperboli, le metafore, ad esempio. E c’è sempre il rischio che il destinatario del messaggio, come è logico, prenda per referenziale ciò che è metaforico, iperbolico. Perché sta consumando cronaca, non fiction. E così si slitta verso la fiction, verso lo spettacolo. E la distinzione fra le due sfere si riduce sempre di più. Il fenomeno, naturalmente, si amplifica nell’era dei media elettronici, e poi della simulazione, della virtualità. Dell’iperrealtà, come scriveva Jean Baudrillard. E non penso tanto alle “bufale” in senso stretto, alle notizie false spacciate come vere. Come la famosa foto del cormorano inzuppato di petrolio, per esempio. Quanto alle sovraesposizioni, alle estremizzazioni dovute alla necessità di fare presto, di colpire subito l’attenzione – quindi l’immaginazione – del destinatario. E così torniamo ad una dimensione sempre più vicina alla fiction, nel senso di una distanza dal reale che produce forse verosimiglianza, ma non “verità”. Ancor più nell’era del digitale, in cui la manipolazione è sempre più facile, perché è più che possibile costruire immagini sintetiche, e/o modificare quelle catturate alla realtà. E posso ragionare su due esempi, uno preso dalla cronaca di qualche anno fa – ormai storia, con i tempi che corrono – uno preso dall’immaginazione cinematografica. Negli anni Ottanta in una scuola superiore della provincia bolognese, avanti con i tempi da molti punti di vista, all’inizio della primavera era abitudine organizzare una settimana, orgogliosamente, e forse ambiziosamente, definita “di didattica alternativa”, in cui si rompeva la logica dell’orario normale per organizzare dibattiti, cineforum, laboratori. In questo dono che studenti e professori si facevano – in quei tempi, in quei luoghi – non c’era nessuno degli obiettivi o dei bersagli che poi si sarebbero fatti pressanti in seguito: dispersione scolastica, legalità, e altro. Era un modo per offrirsi qualcosa di diverso. Per cui, nel 1984 (serendipity?), fra proiezioni de Il cacciatore di Michael Cimino, laboratori di lavorazione del cuoio, dibattiti sulla pubblicità, venne inserito un dibattito sulla prostituzione cui dovevano partecipare, insieme a un magistrato, uno psicologo, un sacerdote (sic!), due prostitute, fondatrici a Pordenone di un comitato per i diritti civili. |
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