[ conversazioni ]
Giuseppe Genna, un personaggio in cerca di oblio
di Adolfo Fattori
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G
iuseppe Genna è oggi uno degli scrittori italiani più
interessanti. Nato a Milano nel 1969, ha pubblicato i romanzi Catrame, Assalto a un tempo devastato e vile, Nel nome di Ishmael, Non toccate la pelle del drago, Grande Madre Rossa, L’anno luce e Dies Irae. Con Michele Monina ha pubblicato Costantino e l’impero.
Anima fra l’altro il sito della rivista I miserabili e Giuseppe Genna Central Station su cui ha pubblicato on-line il romanzo Medium, e il sito www.myspace.com/giuseppegenna. Da poco ha pubblicato con Mondadori il romanzo Hitler,
affrontando un’impresa sicuramente faticosa, cercando di
riprodurre il percorso che ha condotto una perfetta nullità a
innescare una delle devastazioni peggiori che il mondo abbia
conosciuto.
Un appello alla ragione, e un tributo ai milioni di morti, non solo ebrei, che il sonno novecentesco della ragione ha preteso. Molte le ispirazioni ad altri scrittori: nelle descrizioni della guerra e dei massacri si avvertono la stessa passione e lo stesso disgusto dell’Altieri di Magdeburg, come i tentativi di riprodurre i percorsi mentali di Hitler fanno pensare al tentativo di Joyce Carol Oates di riprodurre il diario immaginario di un serial killer in Zombie, pubblicato da Marco Tropea nel 1996. Infine, lucidamente tremende le pagine che Genna dedica al bombardamento di Dresda da parte degli Alleati: “Il male esiste”, insomma, ed è irriducibile, e non appartiene a nessuno in particolare. Poiché lo riteniamo vicino alle stesse spinte e agli stimoli che nutrono “Quaderni d’altri tempi”, abbiamo provato a sottoporgli alcune domande sul suo lavoro e sulla situazione della narrativa e della cultura di massa in Italia. La tua collocazione nell’ambito della narrativa italiana
contemporanea è decisamente eccentrica, a cavallo fra seriale e
mainstream, in un panorama che invece appare piuttosto piatto, se
escludiamo Andrea Camilleri e qualcun altro. Ti ritrovi in questo
nostro attribuirti una posizione così “tangenziale”
rispetto alla consuetudine?
Direi che bisogna aggiungere altri autori a questa posizione che si
può definire “eccentrica”, nel senso che mira a un
centro vuoto, all’impossibilità di catalogazione in generi
precostituiti e in gabbie poetiche che è non solo mio desiderio
allargare o rompere. La serializzazione è stata
un’esperienza interrotta, chiusa, eventualmente rilanciabile
attraverso appunto un’eccentricità, che è la
serializzazione del personaggio “Giuseppe Genna”. Tuttavia
non posso non fare notare che, da Wu Ming a Franco Evangelisti,
passando per Giulio Mozzi (i cui racconti inseriscono fili rossi
paragonabili a serializzazioni microscopiche) e per Tommaso Pincio,
sono diversi ormai gli autori che non stanno fermi in una posizione
fissa e collocabile criticamente in una casella unica. Si tratta di un
lavoro di demolizione e ricostruzione formale e tematica, di
immaginario, che per me è automaticamente un atto politico,
spesso in conflitto con l’interesse editoriale...
Nei tuoi romanzi ritroviamo una miscela di storia e immaginario,
ipotesi estreme quanto affascinanti a incorniciare vicende tragiche,
misteri insoluti e vezzi provinciali della storia italiana degli ultimi
cinquant’anni, un po’ come ha fatto James Ellroy in America
con American Tabloid e Sei pezzi da mille. Ti riconosci in questa parentela con lo scrittore americano?
Ellroy è sicuramente uno dei modelli a cui ho guardato
dall’inizio, calcolando però le differenze tra Impero e
Periferia, laddove ormai non è ben chiaro se perfino la
Periferia non sia un Impero da riguardare attentamente. Il lavoro fatto
si accompagna a protocolli di immaginario, affabulazione e ricerca
storica sulla contemporaneità finché forze sociali non si
muovono a compierlo in luogo della letteratura.
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Ora mi pare che sia dilagante la mania complottistica e ritengo che il paradigma sociale su cui lavorare, intercettando l’implicito e l’emotivo e l’immaginario, sia mutato: non più la paranoia, ma la sindrome da stress post-traumatico. Questo significa che agirò sicuramente su altri piani. Quanto allo stile, io mutuo, copio proprio, da Ellroy un movimento che rende ipotattica la paratassi. Siccome inserisco stilisticamente altre variabili, l’elemento ellroyano appare uno tra tanti – bisogna considerare le ritmiche mutuate dallo Zibaldone e da Petrolio, i giri di frasi e le strutture carsiche ispirate a Victor Hugo, alcuni spostamenti che si rifanno a certo William Burroughs. Il tutto, ovviamente, in spregio a qualunque poetica postmoderna per come il Postmoderno è stato recepito in Italia. Nella tua narrativa, oltre alla profusione di tributi più o meno mascherati a molti maestri della narrativa, emerge – ci pare – una forte passione civile. La riconosci, o è una nostra forzatura?
Non è affatto una forzatura: se scrivo, scrivo politicamente
– altrimenti non scrivo. Si tratta di mettere a disposizione di
una comunità un artigianato appreso e l’eventuale
capacità di intercettazione di radiazioni dell’immaginario
collettivo. Io intendo in questo modo la scrittura, anche quando si
tratta di affrontare l’autobiografico, il verosimile o
addirittura il lirico.
Ancora sullo “stato dell’arte”
dell’industria della cultura in Italia: quanto pesano la
forza di una certa tradizione e il potere dell’accademia e della
cultura ufficiale? È possibile che ci sia anche una sorta di
sudditanza automatica da parte di molti scrittori nei confronti della
cultura istituzionale o istituzionalizzata?
Questo è un problema molto spinoso. Personalmente considero
questo elemento di disturbo il Nemico. Detto che, a mio parere, la
critica italiana risulta del tutto impreparata a comprendere una
letteratura che, pur essendo nazionale, non aspira a essere soltanto
nazionale, è più che altro l’industria editoriale a
porre binari o monorotaie in cui si dovrebbe stare. Vittima di storture
interpretative di ciò che è detto “mercato”,
che è invece un insieme di persone e comunità,
l’industria culturale dismette i cataloghi e impone
implicitamente un veicolo unico che sia traducibile in termini di
leggibilità vendibile. Da questo punto di vista, io osservo
alcune varianti nella scrittura di certi colleghi e mi rendo conto che
l’ossessione del pensiero di non complicare la vita o annoiare il
lettore è ormai sovrana – come se fosse penetrata una
tendenza all’autocensura stilistica, laddove per stile non
intendo unicamente la lingua di superficie, ma anche la struttura, la
metrica strutturale.
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