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Un quadro
leggermente diverso di come immaginare il futuro ce lo da Emilio Salgari in un
suo romanzo del 1907, Le meraviglie del
Duemila, l’unico romanzo di anticipazione scientifica scritto dall’autore
italiano[6]. Siamo alla fine
del XIX secolo. Protagonisti della storia narrata sono due americani. Il dottor
Toby, il più anziano dei due, è un medico con la passione per la ricerca; il
secondo, James Brandok, è un giovane di ottima famiglia che, dopo aver
viaggiato praticamente per tutti gli angoli della Terra per combattere il suo
“male di vivere” galleggia nella noia e nello spleen, ed ha praticamente deciso di togliersi la vita quando il
suo amico gli offre la possibilità unica di “viaggiare nel tempo”. Toby ha infatti sviluppato
un sistema per addormentarsi per un certo periodo (cento anni, nel nostro caso)
riducendo al minimo le funzioni vitali, e poi risvegliarsi senza essere per
nulla invecchiato. Il giovane
accetta con entusiasmo, e i due si lanciano nell’esperimento. Al loro
risveglio, troveranno un mondo completamente trasformato dalla tecnologia, in
particolare da quella delle comunicazioni – i trasporti, ma anche
l’informazione. Ma la
propensione di Salgari è troppo spostata verso l’avventura in paesi esotici e i
combattimenti, perché non ce ne sia il riflesso anche in questo romanzo, tanto
che i due uomini cominciano a viaggiare e a trovarsi coinvolti in conflitti e
disordini. Il finale è
triste e malinconico: Toby e Brandok finiscono per impazzire, e vengono
condotti dal pronipote del primo, Holker, in un sanatorio, dove si presume
finiranno i loro giorni. Le riflessioni finali di Holker e del medico che li visita sono che – qualsiasi sia stata la causa della loro follia: l’elettricità troppo intensa dei tempi attuali, o l’eccesso di meraviglie conosciute nel duemila – forse i due avrebbero fatto meglio ad evitarsi quel sonno secolare che li avrebbe condotti fin lì nel tempo. E forse, aggiunge Holker, il problema un giorno potrebbe porsi per tutta l’umanità: gli scienziati dovrebbero cominciare a riflettere sui possibili effetti dannosi dell’elettricità. Rispetto a
Verne, Salgari ha un vantaggio: è più vicino al futuro di cui narra – ma non
dal punto di vista strettamente temporale (lo scarto che i due autori scelgono
fra il loro tempo e l’epoca in cui collocare i propri racconti è circa lo
stesso), piuttosto in senso culturale. La distanza che
separa il 1863 dal 1960 in termini di ricerca e sviluppo tecnologico è
infinitamente maggiore rispetto a quella che separa il 1907 dal 2000. Può
sembrare paradossale, perché le scoperte e le invenzioni sviluppatesi a partire
dalla fine del secolo scorso ad oggi sono state esse stesse artefici
dell’accelerazione delle conoscenze e delle tecnologie, per cui potrebbe
sembrare più logico il contrario. Il fatto è che, però, queste tecnologie hanno
riguardato prima di tutto la comunicazione – in tutti i sensi – e la nostra
formazione sociale è tutta innervata sulla centralità della comunicazione. Cosa
che non è vera in nessun senso, forse, per il periodo che va dalla metà del
secolo scorso alla metà di questo[7].
C’è però un
altro elemento che qui mi preme mettere in luce: la facilità – tutta salgariana
– con cui i due protagonisti si mettono in viaggio verso il futuro, e decidono
di troncare i legami col passato. Sanno che il loro è un viaggio senza ritorno:
non usano come mezzo una macchina, ma
la sospensione delle loro funzioni vitali. E’ vero, i due
sono mossi da motivazioni differenti: Toby dallo spirito di ricerca tipico
degli scienziati positivisti, Brandok dalla noia e dalla disperazione. E forse
è proprio il movente di quest’ultimo che dà senso al racconto: l’emergere del
disinteresse verso il passato – anche immediato – rispetto al futuro. Da questo punto
di vista i due protagonisti sono perfetti esempi, simboli, della logica della
modernità: la spinta al futuro. Con tutte le
conseguenze prevedibili. Sradicati dal proprio mondo, non riescono ad adeguarsi
alle velocità e alle energie dei tempi nuovi, e finiscono per impazzire[8]. Se si vuole, si
può ritrovare in questo finale un’intenzione moralistica, punitiva, nei
confronti di chi, per volontà di conoscenza, o per noia, rifiuta il suo tempo. Ma è più
interessante seguire un’altra riflessione: abbandonare il proprio tempo
significa rinunciare a parte della propria identità, a uno degli aspetti che ci
collocano non solo in un luogo fisico, ma prima di tutto in uno spazio sociale;
il rischio che si corre è la frammentazione e la distruzione dell’io – la
follia, come avviene appunto ai protagonisti. Per usare due
categorie elaborate da Eugène Minkowski[9],
forse, se Dufrénoy è preda del modo
dell’aspettativa, che indica un’attitudine passiva nei confronti degli
eventi che ci vengono incontro, Toby e Brandok si sono immersi troppo nel modo dell’attività, che indica la
propensione positiva ad andare incontro al futuro, tanto da rimanerne bruciati.
Per cui
possiamo immaginare che – postulando una sorta di fantapsicologia come disciplina presente nei futuri immaginari
della science fiction – come secondo
Minkowski il modo dell’aspettativa
portato all’estremo sarebbe tipico dello psicotico che quindi non sente più
nessun controllo sul mondo esterno e si sente in balia di tutto, così anche il modo dell’attività, come unico modo per
esperire la propria posizione del mondo, tanto da andare fin troppo incontro al
futuro, superandolo e precedendolo, potrebbe avere le stesse conseguenze
psicogene.
[6] E. Salgari, Le meraviglie del Duemila, Simone, Napoli, 1996. [7] Se vogliamo metterla in altri termini, Verne è fuori da quei quarant’anni circa – dal 1880 al 1918 – che hanno permesso, grazie allo sviluppo prima di tutto delle tecnologie della comunicazione, il compiersi della modernità e l’avvento della tarda modernità, mentre invece Salgari vi è proprio in mezzo (cfr. S. Kern, cit.). [8] Sempre Kern cita nel suo lavoro le preoccupazioni dei moralisti dell’epoca a cavallo fra XIX e XX secolo sugli effetti negativi dell’accelerazione delle attività quotidiane. [9] E. Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 1971 (1968).
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