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Quello di Verne risulta alla fine essere un romanzo apocalittico, che ci mostra un futuro,
quello che lui poteva immaginare – per noi cronologicamente un passato –
alternativo a quello che abbiamo conosciuto, claustrofobico e sterilizzato, che
risulta semplicemente da un cambiamento di segno: dall’umanistico allo scientifico,
dall’affettivo al razionale. Ai giovani – ad alcuni di loro, almeno – spetta il
compito di tenere alta la bandiera della tradizione e della memoria culturale. Vengono in mente spontaneamente alcune catastrofiche
previsioni che, più tardi, all’affacciarsi del XX secolo, verranno espresse
pensando agli effetti che lo sviluppo delle tecnologie produrrà – o avrebbe
potuto produrre – sull’”animo umano”, o su ciò che ad esso corrisponde[5]. Ma, ancor prima, si impone qualcosa d’altro. E’ vero, le
previsioni di Verne sugli sviluppi della tecnologia nel secolo che seguirà il
suo sono del tutto sballate (e in questo non è secondo a molti degli scrittori
di cose future che lo seguiranno, anche se più vicini di lui ai tempi di cui
narrano), ma è anche vero che in qualche maniera lo scrittore francese – magari
giusto a fini narrativi – annuncia un pericolo: quello della perdita dei legami
con il passato che gli effetti della tecnologia e dello scientismo esasperato
possono portare. Una
preoccupazione espressa da Verne in termini molto ottocenteschi, rivolti a quel
positivismo venato di “evoluzionismo sociale” che caratterizzava i tempi in cui
lo scrittore francese lavorava ai suoi primi romanzi. Atteggiamento che cambierà in seguito, quando lo scrittore francese diventerà il cronista di un’epoca in cui si sviluppano tutti i mezzi di comunicazione, dal sommergibile, alle aeronavi, ai razzi, in una sequenza di romanzi in cui l’elemento centrale è il viaggio, la conquista dello spazio terrestre (e lunare), fino ad un macchinario (nel Castello dei Carpazi) che anticipa in qualche maniera il cinema.
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