Il mondo in cui viviamo ci obbliga a misurarci con noi stessi
e con i nostri limiti. Il cambiamento è un fronte
d’onda che modifica in continuazione i parametri su cui
possiamo configurare la nostra visione della realtà: la
frontiera di oggi non è quella di ieri e non sarà
quella di domani. Forse questo incessante lavoro di ridefinizione
è l’effetto più significativo prodotto
dal progresso scientifico e tecnologico; man mano che acquisiamo nuovi
dati non possiamo fare a meno di riconsiderare le nostre vecchie
ipotesi, in un processo di adeguamento che non di rado si spinge a
investire le certezze acquisite. Il nostro futuro molto difficilmente
coinciderà con il futuro delle prossime generazioni, anche
quelle a noi più vicine.
Se pure non è
stata centrale negli equilibri di un genere che con il tempo ha saputo
esprimersi in un ampio ventaglio di filoni (dalle ucronie ai viaggi nel
tempo, dalle distopie alle opere di fantapolitica), è
innegabile che la scienza abbia giocato un ruolo di primissimo piano
nella definizione delle caratteristiche della fantascienza. In effetti
il dibattito su cosa sia e debba fare la fantascienza va avanti
ininterrottamente fin dai suoi albori: ogni autore e ogni lettore,
attraverso la pratica e la passione, hanno probabilmente maturato a
riguardo una propria interpretazione personale. Nessun genere vanta
forse un numero equivalente di tentativi di teorizzazione, ma il
richiamo alla scienza è dichiarato fin dalla primissima
formulazione di Hugo Gernsback, con quel scientifiction derivato
nel 1926 da scientific fiction, che si
sarebbe infine evoluto in science fiction,
termine rimasto immutato fino ai giorni nostri.
È
poi altrettanto vero che nel corso del tempo il genere ha inglobato
territori di frontiera che non sempre presentano un aggancio diretto
con l’estrapolazione scientifica e tecnologica. Una sua
possibile definizione individua la fantascienza come letteratura
del cambiamento nella sua accezione più ampia,
alle prese con gli effetti di qualche stravolgimento ai
“danni” dei parametri culturali che
l’autore decide di mettere al centro della sua opera: la
scienza, la storia, la società, la politica…
Sia
pure non nelle tematiche, la fantascienza conserva comunque un canale
preferenziale con la scienza, in particolare con le basi del metodo
scientifico. È infatti possibile inquadrare molti lavori
riconducibili al genere come una sorta di “modelli
matematici” in grado di progettare spazi nuovi e tempi
diversi, se non interi universi, in cui collaudare idee ma anche
problemi, con le relative soluzioni o complicazioni.
Non siamo
tuttavia davanti alle condizioni asettiche di un laboratorio. Per
quanto possa trovare espressione in una miriade di
sensibilità diverse, la fantascienza non è quasi
mai slegata dal tessuto socio-culturale in cui è maturata,
né dal contesto in cui viene fruita. Presenta anzi una forte
inerzia che le consente di penetrare – e condizionare
– il nostro immaginario.
Un interrogativo che viene
spesso sollevato in relazione al ruolo della fantascienza riguarda la
sua facoltà di “anticipare il futuro”.
Se rivolgessimo questa domanda a cento autori probabilmente otterremmo
cento risposte diverse, ma nessuna contemplerebbe
l’accettazione del ruolo predittivo del genere. Il futuro
può essere di volta in volta uno specchio distorto del
presente, un filtro per focalizzare alcuni problemi del mondo
dell’autore, per certi versi un punto di vista da cui
“storicizzare” tendenze attuali drammatizzandone le
conseguenze e gli effetti. Se un ruolo proprio le vogliamo riconoscere,
tutt’al più la fantascienza non predice ma cerca
di scongiurare i futuri peggiori, come accade per esempio nelle distopie,
i futuri che sovvertono le condizioni positive delle utopie esprimendo
prospettive cupe e pessimiste sulle sorti della civiltà
umana.
Ma se pure non avrà anticipato il mondo in
cui viviamo, attraverso le ricadute dell’immaginario la
fantascienza ha senz’altro contribuito a plasmarlo. Il futuro
è per definizione relegato nella sfera delle
possibilità, ciò che può produrre un
effetto talvolta tangibile è il modo in cui di volta in
volta lo si racconta, lo si disegna, lo si progetta. Tutti questi
procedimenti non sono privi di impatto. Gli anglofoni hanno coniato
un’espressione per indicare le conseguenze
dell’immaginario sul reale: parlano di self-fulfilling
prophecy, ovvero “profezia che si
autoavvera”, riferendosi alla situazione per cui,
nell’atto stesso della sua formulazione, una certa ipotesi
ottiene un riscontro e un’accettazione che contribuiscono
alla sua realizzazione. Le “profezie che si
autodeterminano” sono tenute in altissimo conto dagli
analisti dei mercati finanziari, ma non sono poi così
lontane dall’idea del paradosso della
predestinazione esplorato dalla letteratura dei viaggi nel
tempo e per questo familiare a molti lettori di fantascienza. In
termini pratici, potremmo ricondurre allo stesso contesto anche
l’evoluzione della Rete e il suo successo.
Tim
Berners-Lee, co-fondatore di Internet e tra i massimi esperti mondiali
di web science, non ha esitato ad ammettere che
mentre erano intenti a immaginare il futuro gettando le basi per il World
Wide Web, tra il 1989 e il 1990, lui e i suoi colleghi non
disponevano ancora del vocabolario adatto per descriverlo. Oggi quel
vocabolario è entrato nell’uso comune e contamina
incessantemente il linguaggio della strada con il gergo tecnico degli
specialisti. Un panorama integrato molto simile era stato efficacemente
prefigurato nel 1984 negli scenari descritti da William Gibson in Neuromante.
“Un’allucinazione consensuale condivisa ogni giorno da miliardi di operatori legittimi, in ogni nazione, insegnando ai bambini concetti matematici [...] Una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di qualsiasi computer e inviata al “sistema uomo”. Impensabile complessità. Linee di luce distribuite nel non-spazio della mente, ammassi stellari e costellazioni di dati. Come luci di città che si allontanano” (Gibson, 2014).
Cyberspazio, matrice, virus, firewall, contromisure
elettroniche di infiltrazione…
Che qualcosa in
quegli anni fosse nell’aria lo dimostra anche Superluminal
di Vonda N. McIntyre, che nel 1983 ci parla di biotecnologie, cyborg,
viaggi stellari faster than light, conflitti di
classe, nuovi mezzi di comunicazione e nuove lingue adottate da
sub-specie umane ingegnerizzate per dialogare con cetacei intelligenti.
Oceanografia e lampi di matematica illuminano un romanzo sorretto da
una vocazione universale, sorprendentemente in anticipo sui tempi, che
come sostiene nella postfazione Salvatore Proietti (traduttore e
curatore dell’opera) dimostra “quanto certe
preoccupazioni siano inerenti alla storia della fantascienza, da
moltissimo tempo”, da ancor prima che si cominciasse a
parlare di fantascienza postumana.
Un’ispirazione, quella di McIntyre, non distante
dall’idea di base del ciclo delle Cinque Galassie di David
Brin, formato da due trilogie consecutive di romanzi e da un certo
numero di racconti scritti tra il 1980 e il 1998, che seguono le
avventure di un’umanità futura in grado di
“elevare” (da cui il nome inglese della serie, Uplift
Universe) l’intelligenza di animali come delfini e
scimmie, nell’ambito di un programma di colonizzazione
spaziale che la porta in contatto con una varietà di specie
intelligenti: in una serie dalla pronunciata sensibilità ai
temi dell’ecologia, della religione e della
diversità genetica, si distingue il secondo romanzo, Le
maree di Kithrup.
Al pari delle immagini,
il linguaggio necessario per descriverne le invenzioni si è
diffuso molto al di là dei confini del genere. La
fantascienza è un campo in cui non si può fare a
meno di riscrivere la lingua, proprio per tener dietro alla
capacità immaginifica necessaria per la riuscita delle sue
storie. La fantascienza non anticipa il futuro, ma fornisce un
vocabolario pronto all’uso per poterlo descrivere, per
poterlo leggere. Per poterlo capire.
L’evoluzione
tecnologica continua a produrre conseguenze che avremmo potuto
difficilmente prevedere fino a qualche anno fa: uno su tutti, la
smaterializzazione dello spazio delle relazioni umane, con il web
che è ormai diventato, come lo definisce il giurista Stefano
Rodotà, il “più grande spazio pubblico
che l’umanità abbia conosciuto”, e che
anche per questo necessita di una regolamentazione riconosciuta a
livello transnazionale. Il cyberspazio di Gibson si
fonde con i mass media classici in
quella che Luciano Floridi, tra i maggiori esperti al mondo
di filosofia dell’informazione, ha definito Infosfera:
la “globalità dello spazio delle
informazioni”, che ormai comprende il mondo fisico e la
stessa biosfera, e gli esseri viventi che lo costituiscono ne sono a
loro volta parte integrante in quanto organismi informazionali (per un
approfondimento, cfr. De Matteo e Proietti, 2014).
Le
tecnologie emergenti, sempre più spesso raccolte sotto la
sigla NBIC (che raggruppa nanotecnologia, biotecnologie, information
technology e cognitive science), adottata
anche dalla National Science Foundation americana, producono effetti
che diventeranno sempre più profondi e irreversibili man
mano che si realizzano forme di convergenza tra i diversi settori della
ricerca. Quanto dovremo ancora aspettare prima che soggetti
progressivamente sempre più distanti dalla nostra natura
biologica comincino a rivendicare i loro diritti?
Nell’elaborare
sensibilità adatte a quest’ordine di problemi la
fantascienza ha saputo dimostrarsi in anticipo sui tempi. Lo ha fatto
in opere inquadrate a pieno titolo nell’immaginario del
genere, come la serie dei Rifters composta da Starfish,
Maelstrom e βehemoth,
in cui il biologo marino canadese Peter Watts riprende il tema
dell’adattamento e si misura con un gruppo di sociopatici
coinvolti in un esperimento oltre ogni limite, condannati
all’emarginazione e all’isolamento nelle
profondità oceaniche; oppure la sofisticata trilogia dei
Morti di Richard Calder, che fin dalla progressione dei titoli Dead
Girls, Dead Boys e Dead Things
sviluppa a partire dalla critica alla mercificazione della figura
femminile un’indagine sui confini tra finzione e
autenticità, nel momento in cui un contagio virale fa
esplodere le barriere tra organico e inorganico; o ancora L’era
del flagello di Walter Jon Williams, che presenta un mondo
post-scarsità che ha finalmente sconfitto l’annosa
piaga della fame, in cui individui modificati geneticamente, tecnologie
di backup della memoria e della
personalità, clonazione e nanoingegneria sono parte
integrante della quotidianità, ma che non può
dirsi ancora pacificato.
Senza dimenticare il
seminale Do Androids Dream of Electric Sheep?
(l’anno è il 1968) di Philip K. Dick (e la
pellicola diretta da Ridley Scott nel 1982 tratta dal romanzo: Blade
Runner), in cui un gruppo di androidi umanoidi fugge dalle
colonie marziane e atterra nell’hinterland di una San
Francisco devastata dall’olocausto nucleare (nel romanzo),
dove vengono braccati dal cacciatore di taglie Rick Deckard, in una
indagine che lo costringe ripetutamente a fare i conti con
l’ambivalenza delle figure umane che lo assistono e degli
automi che si nascondo tra di essi. Deckard non avrà altra
scelta che affidarsi al principio di empatia per riscoprire la linea di
demarcazione tra umano e artificiale.
Ma lo ha fatto
sicuramente anche in opere che potremmo definire borderline,
come l’adrenalinico Ricambi di Michael
Marshall Smith, che nel 1996 prende le mosse dal tema della clonazione
(il protagonista fugge da una clinica che funge da serbatoio
d’organi per facoltosi patrocinatori, portando via con
sé i loro cloni più o meno malandati) per
sviluppare un noir crudo e visionario, oppure il non meno spietato
lavoro di Jacek Dukaj, autore polacco dell’antologia La
cattedrale, che include un racconto difficile da dimenticare
sulle pratiche di adattamento condotte in una singolare
“Scuola” per sviluppare messaggeri da inviare su
pianeti alieni; se non proprio oltre il confine, come
l’incursione dell’acclamato Kazuo Ishiguro nei
territori fantascientifici della clonazione, con il celebrato Non
lasciarmi.
Robot, androidi, cyborg, intelligenze
artificiali, cloni, simbionti, creature ibride, dalla duplice natura,
prefigurano la nuova realtà di un mondo che non
può più trincerarsi dietro diritti esclusivi e
benefici per pochi, ma che anzi dovrebbe lavorare su una logica
inclusiva per estendere a tutti le ricadute positive del progresso.
Nick
Bostrom, filosofo svedese della Oxford University molto attivo in seno
alla comunità transumanista, direttore del Future of
Humanity Institute, ha proposto una classificazione del rischio basata
su tre parametri: portata, intensità e
probabilità che la minaccia si verifichi. La portata
può essere “sostenibile” o
“terminale”, l’intensità
“personale”, “locale” oppure
“globale”. Bostrom definisce come rischio
esistenziale un rischio globale terminale, una minaccia che
potrebbe annichilire la vita intelligente di origine terrestre o
limitarne drasticamente e irreversibilmente le potenzialità
di sviluppo. Oltre al pericolo di un olocausto nucleare,
dell’impatto di un asteroide o di una cometa sulla superficie
terrestre, del global warming, di
un’epidemia naturale, di una qualche catastrofe collegata a
un esperimento di fisica nucleare, Bostrom annovera anche
l’abuso deliberato o accidentale delle nanotecnologie, la
diffusione di agenti patogeni bio-ingegnerizzati o l’avvento
di una superintelligenza ostile o semplicemente mal programmata.
Con
l’eccezione dell’impatto di un corpo celeste,
nessuno di questi rischi minacciava la sopravvivenza della specie umana
prima della metà del XX secolo, e di certo nessuno contro
cui l’umanità potesse adottare una qualche
contromisura. Sono tutti fenomeni contro i quali si dimostra del tutto
inefficace il classico approccio empirico dei tentativi successivi.
Senza un protocollo adeguato alla gestione del rischio, uno qualsiasi
di questi eventi potrebbe rivelarsi fatale al primo errore, se non
addirittura prima. Secondo Bostrom, andrebbero adottate contromisure
preventive, e tra le azioni che suggerisce è annoverata
anche l’adozione di uno sviluppo tecnologico differenziato
volto a posticipare l’implementazione di tecnologie
pericolose e accelerare invece lo sviluppo di tecnologie benefiche,
specie quelle in grado di attenuare le potenzialità delle
tecnologie dannose. Un’idea che echeggia lo scenario
delineato nel 1992 da Vernor Vinge nel romanzo Universo
incostante: una galassia ormai interamente civilizzata divisa
in quattro zone caratterizzate ognuna da leggi fisiche diverse. Nelle
due zone più interne (le Profondità Imponderabili
e la Zona Lenta) la velocità della luce rappresenta una
barriera invalicabile all’avanzamento tecnologico delle
civiltà che vi risiedono; oltre si estende
l’Esterno, una zona piuttosto vasta in cui la luce non
è più una costante e avanzatissimi stadi di
civiltà sono possibili; al di là dei suoi
mutevoli confini ci si addentra nella Trascendenza e
l’universo acquisisce proprietà eccezionali, in
cui qualsiasi sistema d’informazione può
sviluppare autocoscienza.
Nel 1993 con il citatissimo articolo
The Coming Technological Singularity: How to Survive in the
Post-Human Era Vinge conia il concetto di
Singolarità Tecnologica per definire il momento storico in
cui si compirà il superamento delle capacità
dell’intelletto umano da parte di un costrutto artificiale
(sia esso una IA a tutti gli effetti, un’interfaccia
umano-macchina o un sistema di cognitive augmentation),
segnando un punto di non ritorno nell’evoluzione del
progresso, oltre il quale la velocità delle innovazioni
vanifica qualsiasi tentativo di estrapolazione. All’idea sono
legate diverse opere successive di Vinge, tra cui il prequel di Universo
incostante, Quando la luce tornerà,
il romanzo breve Tempi veloci a Fairmont High e Alla
fine dell’arcobaleno. Ma sono numerosi gli autori
che si sono cimentati nel campo.
Greg Egan è il
più brillante esponente contemporaneo dell’hard
sci-fi, e di certo anche il meno incline a compromessi. Se da
un lato appare di solito – comunque con le dovute eccezioni
– poco interessato alla psicologia umana, riesce a dare il
meglio di sé quando si tratta di prendere in esame
intelletti superiori, come l’intelligenza artificiale di Singleton,
storia di Helen, la prima IA costruita su un processore quantistico
(cui Egan dà il nome di Qusp, che evoca
nell’immagine della “cuspide” la
Singolarità stessa), e dei suoi
“genitori” impegnati in una durissima lotta per
difenderla dai pericoli del mondo. La “Qusp”
potrebbe essere infatti l’unica entità
dell’universo svincolata dalla natura probabilistica della
realtà e per questo provvista di libero arbitrio. Un bel
paradosso, per i suoi creatori umani. Luminous e Axiomatic
sono due imperdibili antologie che raccolgono il
meglio della sua narrativa breve.
Egan ha la capacità unica di prendere una teoria matematica, una scoperta scientifica, una possibilità tecnologica e svilupparla fino alle sue più estreme conseguenze, illuminandole con la precisione della sua scrittura. Le sue opere tendono a esplorare un’umanità sempre più remota nel futuro, alle prese con interrogativi che investono i segreti dell’universo, della vita e della coscienza: Permutation City, Teranesia, Distress, Diaspora, La scala di Schild.
In Oceanic, romanzo breve del 1998, Egan
affronta una delle sue sfide più coraggiose, presentando il
pianeta Covenant e il giovane Martin alle prese con una indagine
sull’origine della sua società, discendente dagli
Angeli che sfiorarono l’immortalità e portarono a
compimento un ambizioso piano di colonizzazione galattica, e ora divisa
in comunità di terraferma e comunità sottomarine.
Tra ecopoiesi, esobiologia e misticismo si dipana uno sconvolgente
trattato sulla necessità umana del sovrannaturale, che si
risolve nella rivelazione laica di una “trascendenza
biochimica”.
Nel 2004 Massimo Pietroselli prova a
fondere millenarismo ultratecnologico, suggestioni matematiche e
speculazioni sull’intelligenza artificiale in un romanzo mai
abbastanza citato, L’undicesima frattonube.
Sempre sulla nascita dell’intelligenza artificiale vanno
ricordati Cyberworld di Alessandro Vietti, tra i
primissimi italiani (la prima edizione del romanzo risale al 1996) a
riflettere sugli spazi virtuali dei mondi senza ombre e sui costrutti
artificiali, e il più recente (2009) L’algoritmo
bianco di Dario Tonani alle prese con un futuro di
intelligenze artificiali e virus metalinguistici in grado di uccidere.
Nel 2010 Alberto Cola ci prospetta invece la possibilità di
costruire delle repliche sintetiche di persone scomparse e il suo Lazarus
racconta la storia del redivivo Yukio Mishima.
Nella novella Il
ciclo di vita degli oggetti software l’acclamato e
sfuggente Ted Chiang riprende sotto l’influsso di Egan il
tema dell’intelligenza artificiale per imbastire una parabola
filosofica, nel suo stile raffinato e inimitabile. Altre intelligenze
artificiali sono quelle che incontriamo grazie a Ian McDonald nel
monumentale romanzo Il
fiume degli dei e nei racconti legati allo scenario hindi
e uniti nella raccolta Cyberabad Days, di cui in
Italia abbiamo avuto modo di apprezzare La moglie del djinn,
Il circo dei gatti di Vishnu e Un buon
partito. Lo scrittore nord-irlandese dispensa immagini dal
forte impatto emotivo e al contempo sfida il lettore sul terreno della
complessità, esplorando il fronte della
singolarità e le sue ricadute nel complesso scenario del
subcontinente indiano: sullo sfondo di una penisola balcanizzata,
dilaniata dai conflitti sociali e continuamente minacciata dai venti di
guerra, McDonald segue una galleria di personaggi (umani, artificiali,
postumani) alle prese con un mondo che cambia di giorno in giorno,
proponendo insistentemente il dilemma della scelta tra due visioni
inconciliabili del futuro della specie umana, dove
“più nuovo” non è
necessariamente sinonimo di “più giusto”.
La
condizione di disabilità come premessa concreta per una
“abilità diversa” è
sapientemente delineata dal canadese Robert J. Sawyer nella sua
acclamata trilogia del WWW: WWW 1: Risveglio, WWW
2: In guardia e WWW 3: La Mente. Caitlin
Decter, una ragazza non vedente dotata di un’intelligenza
brillante, accetta di sottoporsi a un intervento che le dona una
visione ampliata: da quel momento comincia ad addentrarsi nei segreti
della Rete, dove entra in contatto con una nuova autocoscienza emersa
da internet, Webmind.
Nel ciclo della Rivoluzione
d’Autunno, composto da Il piano clandestino,
The Stone Canal (uscito nel 1996, ma tuttora inedito
in Italia) e La Divisione Cassini, lo scozzese Ken
MacLeod conduce il lettore in un futuro segnato
dall’affermazione di una dottrina anarchica come presupposto
per la stabilità di una società equa ed
egualitaria. I ribelli neo-capitalisti sono stati confinati in riserve
in cui non possono nuocere, oppure sono riusciti a riparare lontano
dagli avamposti dell’Unione Solare. Quando un groviglio
postumano di nanotecnologie e coscienze digitalizzate, isolato da tempo
su Giove sotto la supervisione della Divisione Cassini, manifesta
all’improvviso segni di un’attività che
prelude all’imminente uscita dal letargo tecnologico in cui
è stato relegato, per questa utopia si pone il problema di
affrontare la minaccia con tutti i mezzi a sua disposizione.
L’umanità dovrà dimostrarsi capace di
superare le sue divisioni interne per scongiurare la propria
estinzione.
Un tema, quello delle macchine ribelli,
che viene ripreso anche da Charles Stross nel suo seminale Accelerando,
un fix-up di nove racconti apparsi sulle pagine
della Asimov’s Science Fiction, che nel
2005 ha fatto incetta di riconoscimenti, salutato da molti come il
romanzo di fantascienza più importante dell’anno,
e forse non solo. Stross aveva già affrontato il tema del
futuro postumano nei romanzi precedenti Singularity Sky
(del 2003, ma anch’esso inedito in Italia) e L’alba
del disastro, in cui Eschaton, l’entità
emersa dagli albori della Singolarità, si dota di poteri da
demiurgo e si pone come ultimo baluardo in difesa
dell’umanità dall’umanità
stessa. Ma con questo romanzo si attesta definitivamente come una delle
voci più rappresentative della fantascienza contemporanea. Accelerando
ci accompagna nella società umana del tardo XXI secolo, dopo
che l’avvento della Singolarità Tecnologica ha
reso possibile ed economicamente conveniente
l’immortalità fisica e dove nanotecnologie,
intelligenze artificiali e contatti alieni sono all’ordine
del giorno. Tra ammiccamenti alla fantascienza letteraria, televisiva e
cinematografica e richiami alle più sofisticate teorie
scientifiche sulla futura evoluzione della civiltà umana,
trovate affascinanti e geniali si mescolano a visioni oscillanti tra
l’incubo e la meraviglia. Un processo incessante e sempre
più rapido di trasformazione coinvolge inesorabilmente gli
eventi e i protagonisti, e mentre la storia viene computata non
più in anni ma in secondi, lo Zeitgeist e il senso comune
cominciano a cambiare con una tale rapidità da stravolgere
le finalità stesse dei piani degli uomini e dei loro
discendenti mentre questi vengono messi in opera.
Di
portata ancora maggiore dei possibili effetti collaterali della
Singolarità Tecnologica è un altro dei rischi
esistenziali esposti da Bostrom, quello legato al cosiddetto Simulation
argument. Inizialmente proposta da Hans Moravec,
l’ipotesi dell’universo simulato è stata
ripresa da Bostrom sviluppando un ragionamento volto a esaminare la
probabilità che la nostra realtà possa essere un simulacro.
Ma
vale la pena ricordare che tutta la fantascienza è ricca di
universi simulati, già prima del citatissimo Dick, pensiamo
a Theodore Sturgeon con il racconto Il
signore del microcosmo (1941) o a Robert A. Heinlein con Il
mestiere dell’avvoltoio (1942), oppure a Daniel F.
Galouye, già con Stanotte il cielo cadrà
(1952-55), ma soprattutto con Simulacron-3 (1964),
da cui il cinema e la televisione avrebbero attinto a piene mani (oltre
a Il mondo sul filo di Rainer Werner Fassbinder del
1973, non dimentichiamo nemmeno la sottovalutata pellicola di Josef
Rusnak Il tredicesimo piano, stretta nella tenaglia
tra i più celebri e popolari eXistenZ di
David Cronenberg e Matrix dei fratelli Wachowski).
Il
ragionamento di Bostrom si basa sulla premessa che, data una tecnologia
sufficientemente avanzata, sia possibile ottenere simulazioni tanto
accurate da risultare indistinguibili dalla realtà nella
percezione dei soggetti che le sperimentassero. Se si assume che gli
umani arriveranno a sviluppare una simile tecnologia prima di
estinguersi, e che i discendenti dell’umanità non
avranno restrizioni legali prevalenti o riserve morali contro la
simulazione della loro storia, allora sarebbe irragionevole annoverarci
nella esigua minoranza degli organismi reali; prima
o poi, il loro numero sarà infatti largamente sopravanzato
dal numero dei costrutti artificiali.
Per trovare la
più fedele trasposizione narrativa di questo scenario
dobbiamo tornare a Charles Stross e al suo romanzo breve Universo
distorto, con l’umanità che, in piena
Guerra Fredda, si sveglia una gelida mattina del 1962 e si scopre
trasferita su una Terra piatta e gigantesca. Gli effetti dello
“Spostamento” non tardano a produrre conseguenze
sugli assetti geopolitici, mentre i governi d’emergenza di
Washington, di Londra e del Cremlino organizzano missioni civili per
colonizzare i misteriosi nuovi continenti comparsi sulle mappe, e
spedizioni militari a tracciarne i confini ancora ignoti ed esplorare i
resti di antichi esperimenti di civilizzazione. Il tutto sotto gli
occhi di una enigmatica società di insetti intelligenti.
La
tesi dell’universo simulato ci pone di fronte a un dilemma
degno di nota. Se non si accetta l’idea di poter essere
nient’altro che una simulazione in un universo simulato, si
sta implicitamente negando la possibilità che
l’umanità evolva in una civiltà
postumana, oppure che tutte le civiltà postumane saranno
soggette a qualche tipo di prescrizione che vieti loro di simulare i
mondi dei loro precursori. Ma se il mondo in cui viviamo è
una simulazione, se le nostre stesse vite altro non sono che una
simulazione, di punto in bianco qualcuno potrebbe decidere di
interromperne l’esecuzione. E sarebbe,
all’improvviso, la fine della realtà.
È
il volto oscuro riservato dal progresso. E la fantascienza non smette
di mostrarci le infinite possibilità che potrebbero andare
storte e degenerare in incubo. Forse potremmo collettivamente esigere,
anche nel mondo al di là dello specchio della finzione
letteraria, uno sforzo di volontà in più per
inseguire i sogni che potrebbero invece dischiuderci le altrettanto
infinite meraviglie connesse alla scoperta, alla ricerca e
all’avanzamento tecno-scientifico. Soprattutto in una
congiuntura storica come quella che stiamo attraversando da qualche
anno: se c’è una lezione che dovremmo aver
imparato dal passato è che i periodi di crisi si traducono
spesso in periodi di opportunità. E allora
l’augurio è che l’attenzione e
l’acutezza della fantascienza possano essere presi a esempio,
continuando ad alimentare il circolo virtuoso delle ricadute
dell’immaginario sulla realtà, regalandoci la
continua sorpresa di ulteriori profezie autoavveranti.
LETTURE
VISIONI