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Il mondo in cui viviamo ci obbliga a misurarci con noi stessi e con i nostri limiti. Il cambiamento è un fronte d’onda che modifica in continuazione i parametri su cui possiamo configurare la nostra visione della realtà: la frontiera di oggi non è quella di ieri e non sarà quella di domani. Forse questo incessante lavoro di ridefinizione è l’effetto più significativo prodotto dal progresso scientifico e tecnologico; man mano che acquisiamo nuovi dati non possiamo fare a meno di riconsiderare le nostre vecchie ipotesi, in un processo di adeguamento che non di rado si spinge a investire le certezze acquisite. Il nostro futuro molto difficilmente coinciderà con il futuro delle prossime generazioni, anche quelle a noi più vicine.
Se pure non è stata centrale negli equilibri di un genere che con il tempo ha saputo esprimersi in un ampio ventaglio di filoni (dalle ucronie ai viaggi nel tempo, dalle distopie alle opere di fantapolitica), è innegabile che la scienza abbia giocato un ruolo di primissimo piano nella definizione delle caratteristiche della fantascienza. In effetti il dibattito su cosa sia e debba fare la fantascienza va avanti ininterrottamente fin dai suoi albori: ogni autore e ogni lettore, attraverso la pratica e la passione, hanno probabilmente maturato a riguardo una propria interpretazione personale. Nessun genere vanta forse un numero equivalente di tentativi di teorizzazione, ma il richiamo alla scienza è dichiarato fin dalla primissima formulazione di Hugo Gernsback, con quel scientifiction derivato nel 1926 da scientific fiction, che si sarebbe infine evoluto in science fiction, termine rimasto immutato fino ai giorni nostri. 
È poi altrettanto vero che nel corso del tempo il genere ha inglobato territori di frontiera che non sempre presentano un aggancio diretto con l’estrapolazione scientifica e tecnologica. Una sua possibile definizione individua la fantascienza come letteratura del cambiamento nella sua accezione più ampia, alle prese con gli effetti di qualche stravolgimento ai “danni” dei parametri culturali che l’autore decide di mettere al centro della sua opera: la scienza, la storia, la società, la politica…
Sia pure non nelle tematiche, la fantascienza conserva comunque un canale preferenziale con la scienza, in particolare con le basi del metodo scientifico. È infatti possibile inquadrare molti lavori riconducibili al genere come una sorta di “modelli matematici” in grado di progettare spazi nuovi e tempi diversi, se non interi universi, in cui collaudare idee ma anche problemi, con le relative soluzioni o complicazioni.
Non siamo tuttavia davanti alle condizioni asettiche di un laboratorio. Per quanto possa trovare espressione in una miriade di sensibilità diverse, la fantascienza non è quasi mai slegata dal tessuto socio-culturale in cui è maturata, né dal contesto in cui viene fruita. Presenta anzi una forte inerzia che le consente di penetrare – e condizionare – il nostro immaginario.
Un interrogativo che viene spesso sollevato in relazione al ruolo della fantascienza riguarda la sua facoltà di “anticipare il futuro”. Se rivolgessimo questa domanda a cento autori probabilmente otterremmo cento risposte diverse, ma nessuna contemplerebbe l’accettazione del ruolo predittivo del genere. Il futuro può essere di volta in volta uno specchio distorto del presente, un filtro per focalizzare alcuni problemi del mondo dell’autore, per certi versi un punto di vista da cui “storicizzare” tendenze attuali drammatizzandone le conseguenze e gli effetti. Se un ruolo proprio le vogliamo riconoscere, tutt’al più la fantascienza non predice ma cerca di scongiurare i futuri peggiori, come accade per esempio nelle distopie, i futuri che sovvertono le condizioni positive delle utopie esprimendo prospettive cupe e pessimiste sulle sorti della civiltà umana.
Ma se pure non avrà anticipato il mondo in cui viviamo, attraverso le ricadute dell’immaginario la fantascienza ha senz’altro contribuito a plasmarlo. Il futuro è per definizione relegato nella sfera delle possibilità, ciò che può produrre un effetto talvolta tangibile è il modo in cui di volta in volta lo si racconta, lo si disegna, lo si progetta. Tutti questi procedimenti non sono privi di impatto. Gli anglofoni hanno coniato un’espressione per indicare le conseguenze dell’immaginario sul reale: parlano di self-fulfilling prophecy, ovvero “profezia che si autoavvera”, riferendosi alla situazione per cui, nell’atto stesso della sua formulazione, una certa ipotesi ottiene un riscontro e un’accettazione che contribuiscono alla sua realizzazione. Le “profezie che si autodeterminano” sono tenute in altissimo conto dagli analisti dei mercati finanziari, ma non sono poi così lontane dall’idea del paradosso della predestinazione esplorato dalla letteratura dei viaggi nel tempo e per questo familiare a molti lettori di fantascienza. In termini pratici, potremmo ricondurre allo stesso contesto anche l’evoluzione della Rete e il suo successo.
Tim Berners-Lee, co-fondatore di Internet e tra i massimi esperti mondiali di web science, non ha esitato ad ammettere che mentre erano intenti a immaginare il futuro gettando le basi per il World Wide Web, tra il 1989 e il 1990, lui e i suoi colleghi non disponevano ancora del vocabolario adatto per descriverlo. Oggi quel vocabolario è entrato nell’uso comune e contamina incessantemente il linguaggio della strada con il gergo tecnico degli specialisti. Un panorama integrato molto simile era stato efficacemente prefigurato nel 1984 negli scenari descritti da William Gibson in Neuromante.

“Un’allucinazione consensuale condivisa ogni giorno da miliardi di operatori legittimi, in ogni nazione, insegnando ai bambini concetti matematici [...] Una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di qualsiasi computer e inviata al “sistema uomo”. Impensabile complessità. Linee di luce distribuite nel non-spazio della mente, ammassi stellari e costellazioni di dati. Come luci di città che si allontanano” (Gibson, 2014).

Cyberspazio, matrice, virus, firewall, contromisure elettroniche di infiltrazione…
Che qualcosa in quegli anni fosse nell’aria lo dimostra anche Superluminal di Vonda N. McIntyre, che nel 1983 ci parla di biotecnologie, cyborg, viaggi stellari faster than light, conflitti di classe, nuovi mezzi di comunicazione e nuove lingue adottate da sub-specie umane ingegnerizzate per dialogare con cetacei intelligenti. Oceanografia e lampi di matematica illuminano un romanzo sorretto da una vocazione universale, sorprendentemente in anticipo sui tempi, che come sostiene nella postfazione Salvatore Proietti (traduttore e curatore dell’opera) dimostra “quanto certe preoccupazioni siano inerenti alla storia della fantascienza, da moltissimo tempo”, da ancor prima che si cominciasse a parlare di fantascienza postumana. Un’ispirazione, quella di McIntyre, non distante dall’idea di base del ciclo delle Cinque Galassie di David Brin, formato da due trilogie consecutive di romanzi e da un certo numero di racconti scritti tra il 1980 e il 1998, che seguono le avventure di un’umanità futura in grado di “elevare” (da cui il nome inglese della serie, Uplift Universe) l’intelligenza di animali come delfini e scimmie, nell’ambito di un programma di colonizzazione spaziale che la porta in contatto con una varietà di specie intelligenti: in una serie dalla pronunciata sensibilità ai temi dell’ecologia, della religione e della diversità genetica, si distingue il secondo romanzo, Le maree di Kithrup
Al pari delle immagini, il linguaggio necessario per descriverne le invenzioni si è diffuso molto al di là dei confini del genere. La fantascienza è un campo in cui non si può fare a meno di riscrivere la lingua, proprio per tener dietro alla capacità immaginifica necessaria per la riuscita delle sue storie. La fantascienza non anticipa il futuro, ma fornisce un vocabolario pronto all’uso per poterlo descrivere, per poterlo leggere. Per poterlo capire.
L’evoluzione tecnologica continua a produrre conseguenze che avremmo potuto difficilmente prevedere fino a qualche anno fa: uno su tutti, la smaterializzazione dello spazio delle relazioni umane, con il web che è ormai diventato, come lo definisce il giurista Stefano Rodotà, il “più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto”, e che anche per questo necessita di una regolamentazione riconosciuta a livello transnazionale. Il cyberspazio di Gibson si fonde con i mass media classici in quella che Luciano Floridi, tra i maggiori esperti al mondo di filosofia dell’informazione, ha definito Infosfera: la “globalità dello spazio delle informazioni”, che ormai comprende il mondo fisico e la stessa biosfera, e gli esseri viventi che lo costituiscono ne sono a loro volta parte integrante in quanto organismi informazionali (per un approfondimento, cfr. De Matteo e Proietti, 2014).
Le tecnologie emergenti, sempre più spesso raccolte sotto la sigla NBIC (che raggruppa nanotecnologia, biotecnologie, information technology e cognitive science), adottata anche dalla National Science Foundation americana, producono effetti che diventeranno sempre più profondi e irreversibili man mano che si realizzano forme di convergenza tra i diversi settori della ricerca. Quanto dovremo ancora aspettare prima che soggetti progressivamente sempre più distanti dalla nostra natura biologica comincino a rivendicare i loro diritti?
Nell’elaborare sensibilità adatte a quest’ordine di problemi la fantascienza ha saputo dimostrarsi in anticipo sui tempi. Lo ha fatto in opere inquadrate a pieno titolo nell’immaginario del genere, come la serie dei Rifters composta da Starfish, Maelstrom e βehemoth, in cui il biologo marino canadese Peter Watts riprende il tema dell’adattamento e si misura con un gruppo di sociopatici coinvolti in un esperimento oltre ogni limite, condannati all’emarginazione e all’isolamento nelle profondità oceaniche; oppure la sofisticata trilogia dei Morti di Richard Calder, che fin dalla progressione dei titoli Dead Girls, Dead Boys e Dead Things sviluppa a partire dalla critica alla mercificazione della figura femminile un’indagine sui confini tra finzione e autenticità, nel momento in cui un contagio virale fa esplodere le barriere tra organico e inorganico; o ancora L’era del flagello di Walter Jon Williams, che presenta un mondo post-scarsità che ha finalmente sconfitto l’annosa piaga della fame, in cui individui modificati geneticamente, tecnologie di backup della memoria e della personalità, clonazione e nanoingegneria sono parte integrante della quotidianità, ma che non può dirsi ancora pacificato. 
Senza dimenticare il seminale Do Androids Dream of Electric Sheep? (l’anno è il 1968) di Philip K. Dick (e la pellicola diretta da Ridley Scott nel 1982 tratta dal romanzo: Blade Runner), in cui un gruppo di androidi umanoidi fugge dalle colonie marziane e atterra nell’hinterland di una San Francisco devastata dall’olocausto nucleare (nel romanzo), dove vengono braccati dal cacciatore di taglie Rick Deckard, in una indagine che lo costringe ripetutamente a fare i conti con l’ambivalenza delle figure umane che lo assistono e degli automi che si nascondo tra di essi. Deckard non avrà altra scelta che affidarsi al principio di empatia per riscoprire la linea di demarcazione tra umano e artificiale.
Ma lo ha fatto sicuramente anche in opere che potremmo definire borderline, come l’adrenalinico Ricambi di Michael Marshall Smith, che nel 1996 prende le mosse dal tema della clonazione (il protagonista fugge da una clinica che funge da serbatoio d’organi per facoltosi patrocinatori, portando via con sé i loro cloni più o meno malandati) per sviluppare un noir crudo e visionario, oppure il non meno spietato lavoro di Jacek Dukaj, autore polacco dell’antologia La cattedrale, che include un racconto difficile da dimenticare sulle pratiche di adattamento condotte in una singolare “Scuola” per sviluppare messaggeri da inviare su pianeti alieni; se non proprio oltre il confine, come l’incursione dell’acclamato Kazuo Ishiguro nei territori fantascientifici della clonazione, con il celebrato Non lasciarmi.
Robot, androidi, cyborg, intelligenze artificiali, cloni, simbionti, creature ibride, dalla duplice natura, prefigurano la nuova realtà di un mondo che non può più trincerarsi dietro diritti esclusivi e benefici per pochi, ma che anzi dovrebbe lavorare su una logica inclusiva per estendere a tutti le ricadute positive del progresso.
Nick Bostrom, filosofo svedese della Oxford University molto attivo in seno alla comunità transumanista, direttore del Future of Humanity Institute, ha proposto una classificazione del rischio basata su tre parametri: portata, intensità e probabilità che la minaccia si verifichi. La portata può essere “sostenibile” o “terminale”, l’intensità “personale”, “locale” oppure “globale”. Bostrom definisce come rischio esistenziale un rischio globale terminale, una minaccia che potrebbe annichilire la vita intelligente di origine terrestre o limitarne drasticamente e irreversibilmente le potenzialità di sviluppo. Oltre al pericolo di un olocausto nucleare, dell’impatto di un asteroide o di una cometa sulla superficie terrestre, del global warming, di un’epidemia naturale, di una qualche catastrofe collegata a un esperimento di fisica nucleare, Bostrom annovera anche l’abuso deliberato o accidentale delle nanotecnologie, la diffusione di agenti patogeni bio-ingegnerizzati o l’avvento di una superintelligenza ostile o semplicemente mal programmata.
Con l’eccezione dell’impatto di un corpo celeste, nessuno di questi rischi minacciava la sopravvivenza della specie umana prima della metà del XX secolo, e di certo nessuno contro cui l’umanità potesse adottare una qualche contromisura. Sono tutti fenomeni contro i quali si dimostra del tutto inefficace il classico approccio empirico dei tentativi successivi. Senza un protocollo adeguato alla gestione del rischio, uno qualsiasi di questi eventi potrebbe rivelarsi fatale al primo errore, se non addirittura prima. Secondo Bostrom, andrebbero adottate contromisure preventive, e tra le azioni che suggerisce è annoverata anche l’adozione di uno sviluppo tecnologico differenziato volto a posticipare l’implementazione di tecnologie pericolose e accelerare invece lo sviluppo di tecnologie benefiche, specie quelle in grado di attenuare le potenzialità delle tecnologie dannose. Un’idea che echeggia lo scenario delineato nel 1992 da Vernor Vinge nel romanzo Universo incostante: una galassia ormai interamente civilizzata divisa in quattro zone caratterizzate ognuna da leggi fisiche diverse. Nelle due zone più interne (le Profondità Imponderabili e la Zona Lenta) la velocità della luce rappresenta una barriera invalicabile all’avanzamento tecnologico delle civiltà che vi risiedono; oltre si estende l’Esterno, una zona piuttosto vasta in cui la luce non è più una costante e avanzatissimi stadi di civiltà sono possibili; al di là dei suoi mutevoli confini ci si addentra nella Trascendenza e l’universo acquisisce proprietà eccezionali, in cui qualsiasi sistema d’informazione può sviluppare autocoscienza.
Nel 1993 con il citatissimo articolo The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era Vinge conia il concetto di Singolarità Tecnologica per definire il momento storico in cui si compirà il superamento delle capacità dell’intelletto umano da parte di un costrutto artificiale (sia esso una IA a tutti gli effetti, un’interfaccia umano-macchina o un sistema di cognitive augmentation), segnando un punto di non ritorno nell’evoluzione del progresso, oltre il quale la velocità delle innovazioni vanifica qualsiasi tentativo di estrapolazione. All’idea sono legate diverse opere successive di Vinge, tra cui il prequel di Universo incostante, Quando la luce tornerà, il romanzo breve Tempi veloci a Fairmont High e Alla fine dell’arcobaleno. Ma sono numerosi gli autori che si sono cimentati nel campo.
Greg Egan è il più brillante esponente contemporaneo dell’hard sci-fi, e di certo anche il meno incline a compromessi. Se da un lato appare di solito – comunque con le dovute eccezioni – poco interessato alla psicologia umana, riesce a dare il meglio di sé quando si tratta di prendere in esame intelletti superiori, come l’intelligenza artificiale di Singleton, storia di Helen, la prima IA costruita su un processore quantistico (cui Egan dà il nome di Qusp, che evoca nell’immagine della “cuspide” la Singolarità stessa), e dei suoi “genitori” impegnati in una durissima lotta per difenderla dai pericoli del mondo. La “Qusp” potrebbe essere infatti l’unica entità dell’universo svincolata dalla natura probabilistica della realtà e per questo provvista di libero arbitrio. Un bel paradosso, per i suoi creatori umani. Luminous e Axiomatic sono due imperdibili antologie che raccolgono il meglio della sua narrativa breve. 

Egan ha la capacità unica di prendere una teoria matematica, una scoperta scientifica, una possibilità tecnologica e svilupparla fino alle sue più estreme conseguenze, illuminandole con la precisione della sua scrittura. Le sue opere tendono a esplorare un’umanità sempre più remota nel futuro, alle prese con interrogativi che investono i segreti dell’universo, della vita e della coscienza: Permutation City, Teranesia, Distress, Diaspora, La scala di Schild.

In Oceanic, romanzo breve del 1998, Egan affronta una delle sue sfide più coraggiose, presentando il pianeta Covenant e il giovane Martin alle prese con una indagine sull’origine della sua società, discendente dagli Angeli che sfiorarono l’immortalità e portarono a compimento un ambizioso piano di colonizzazione galattica, e ora divisa in comunità di terraferma e comunità sottomarine. Tra ecopoiesi, esobiologia e misticismo si dipana uno sconvolgente trattato sulla necessità umana del sovrannaturale, che si risolve nella rivelazione laica di una “trascendenza biochimica”.
Nel 2004 Massimo Pietroselli prova a fondere millenarismo ultratecnologico, suggestioni matematiche e speculazioni sull’intelligenza artificiale in un romanzo mai abbastanza citato, L’undicesima frattonube. Sempre sulla nascita dell’intelligenza artificiale vanno ricordati Cyberworld di Alessandro Vietti, tra i primissimi italiani (la prima edizione del romanzo risale al 1996) a riflettere sugli spazi virtuali dei mondi senza ombre e sui costrutti artificiali, e il più recente (2009) L’algoritmo bianco di Dario Tonani alle prese con un futuro di intelligenze artificiali e virus metalinguistici in grado di uccidere. Nel 2010 Alberto Cola ci prospetta invece la possibilità di costruire delle repliche sintetiche di persone scomparse e il suo Lazarus racconta la storia del redivivo Yukio Mishima.
Nella novella Il ciclo di vita degli oggetti software l’acclamato e sfuggente Ted Chiang riprende sotto l’influsso di Egan il tema dell’intelligenza artificiale per imbastire una parabola filosofica, nel suo stile raffinato e inimitabile. Altre intelligenze artificiali sono quelle che incontriamo grazie a Ian McDonald nel monumentale romanzo Il fiume degli dei e nei racconti legati allo scenario hindi e uniti nella raccolta Cyberabad Days, di cui in Italia abbiamo avuto modo di apprezzare La moglie del djinn, Il circo dei gatti di Vishnu e Un buon partito. Lo scrittore nord-irlandese dispensa immagini dal forte impatto emotivo e al contempo sfida il lettore sul terreno della complessità, esplorando il fronte della singolarità e le sue ricadute nel complesso scenario del subcontinente indiano: sullo sfondo di una penisola balcanizzata, dilaniata dai conflitti sociali e continuamente minacciata dai venti di guerra, McDonald segue una galleria di personaggi (umani, artificiali, postumani) alle prese con un mondo che cambia di giorno in giorno, proponendo insistentemente il dilemma della scelta tra due visioni inconciliabili del futuro della specie umana, dove “più nuovo” non è necessariamente sinonimo di “più giusto”.
La condizione di disabilità come premessa concreta per una “abilità diversa” è sapientemente delineata dal canadese Robert J. Sawyer nella sua acclamata trilogia del WWW: WWW 1: Risveglio, WWW 2: In guardia e WWW 3: La Mente. Caitlin Decter, una ragazza non vedente dotata di un’intelligenza brillante, accetta di sottoporsi a un intervento che le dona una visione ampliata: da quel momento comincia ad addentrarsi nei segreti della Rete, dove entra in contatto con una nuova autocoscienza emersa da internet, Webmind.
Nel ciclo della Rivoluzione d’Autunno, composto da Il piano clandestino, The Stone Canal (uscito nel 1996, ma tuttora inedito in Italia) e La Divisione Cassini, lo scozzese Ken MacLeod conduce il lettore in un futuro segnato dall’affermazione di una dottrina anarchica come presupposto per la stabilità di una società equa ed egualitaria. I ribelli neo-capitalisti sono stati confinati in riserve in cui non possono nuocere, oppure sono riusciti a riparare lontano dagli avamposti dell’Unione Solare. Quando un groviglio postumano di nanotecnologie e coscienze digitalizzate, isolato da tempo su Giove sotto la supervisione della Divisione Cassini, manifesta all’improvviso segni di un’attività che prelude all’imminente uscita dal letargo tecnologico in cui è stato relegato, per questa utopia si pone il problema di affrontare la minaccia con tutti i mezzi a sua disposizione. L’umanità dovrà dimostrarsi capace di superare le sue divisioni interne per scongiurare la propria estinzione. 
Un tema, quello delle macchine ribelli, che viene ripreso anche da Charles Stross nel suo seminale Accelerando, un fix-up di nove racconti apparsi sulle pagine della Asimov’s Science Fiction, che nel 2005 ha fatto incetta di riconoscimenti, salutato da molti come il romanzo di fantascienza più importante dell’anno, e forse non solo. Stross aveva già affrontato il tema del futuro postumano nei romanzi precedenti Singularity Sky (del 2003, ma anch’esso inedito in Italia) e L’alba del disastro, in cui Eschaton, l’entità emersa dagli albori della Singolarità, si dota di poteri da demiurgo e si pone come ultimo baluardo in difesa dell’umanità dall’umanità stessa. Ma con questo romanzo si attesta definitivamente come una delle voci più rappresentative della fantascienza contemporanea. Accelerando ci accompagna nella società umana del tardo XXI secolo, dopo che l’avvento della Singolarità Tecnologica ha reso possibile ed economicamente conveniente l’immortalità fisica e dove nanotecnologie, intelligenze artificiali e contatti alieni sono all’ordine del giorno. Tra ammiccamenti alla fantascienza letteraria, televisiva e cinematografica e richiami alle più sofisticate teorie scientifiche sulla futura evoluzione della civiltà umana, trovate affascinanti e geniali si mescolano a visioni oscillanti tra l’incubo e la meraviglia. Un processo incessante e sempre più rapido di trasformazione coinvolge inesorabilmente gli eventi e i protagonisti, e mentre la storia viene computata non più in anni ma in secondi, lo Zeitgeist e il senso comune cominciano a cambiare con una tale rapidità da stravolgere le finalità stesse dei piani degli uomini e dei loro discendenti mentre questi vengono messi in opera. 
Di portata ancora maggiore dei possibili effetti collaterali della Singolarità Tecnologica è un altro dei rischi esistenziali esposti da Bostrom, quello legato al cosiddetto Simulation argument. Inizialmente proposta da Hans Moravec, l’ipotesi dell’universo simulato è stata ripresa da Bostrom sviluppando un ragionamento volto a esaminare la probabilità che la nostra realtà possa essere un simulacro
Ma vale la pena ricordare che tutta la fantascienza è ricca di universi simulati, già prima del citatissimo Dick, pensiamo a Theodore Sturgeon con il racconto Il signore del microcosmo (1941) o a Robert A. Heinlein con Il mestiere dell’avvoltoio (1942), oppure a Daniel F. Galouye, già con Stanotte il cielo cadrà (1952-55), ma soprattutto con Simulacron-3 (1964), da cui il cinema e la televisione avrebbero attinto a piene mani (oltre a Il mondo sul filo di Rainer Werner Fassbinder del 1973, non dimentichiamo nemmeno la sottovalutata pellicola di Josef Rusnak Il tredicesimo piano, stretta nella tenaglia tra i più celebri e popolari eXistenZ di David Cronenberg e Matrix dei fratelli Wachowski).
Il ragionamento di Bostrom si basa sulla premessa che, data una tecnologia sufficientemente avanzata, sia possibile ottenere simulazioni tanto accurate da risultare indistinguibili dalla realtà nella percezione dei soggetti che le sperimentassero. Se si assume che gli umani arriveranno a sviluppare una simile tecnologia prima di estinguersi, e che i discendenti dell’umanità non avranno restrizioni legali prevalenti o riserve morali contro la simulazione della loro storia, allora sarebbe irragionevole annoverarci nella esigua minoranza degli organismi reali; prima o poi, il loro numero sarà infatti largamente sopravanzato dal numero dei costrutti artificiali.
Per trovare la più fedele trasposizione narrativa di questo scenario dobbiamo tornare a Charles Stross e al suo romanzo breve Universo distorto, con l’umanità che, in piena Guerra Fredda, si sveglia una gelida mattina del 1962 e si scopre trasferita su una Terra piatta e gigantesca. Gli effetti dello “Spostamento” non tardano a produrre conseguenze sugli assetti geopolitici, mentre i governi d’emergenza di Washington, di Londra e del Cremlino organizzano missioni civili per colonizzare i misteriosi nuovi continenti comparsi sulle mappe, e spedizioni militari a tracciarne i confini ancora ignoti ed esplorare i resti di antichi esperimenti di civilizzazione. Il tutto sotto gli occhi di una enigmatica società di insetti intelligenti.
La tesi dell’universo simulato ci pone di fronte a un dilemma degno di nota. Se non si accetta l’idea di poter essere nient’altro che una simulazione in un universo simulato, si sta implicitamente negando la possibilità che l’umanità evolva in una civiltà postumana, oppure che tutte le civiltà postumane saranno soggette a qualche tipo di prescrizione che vieti loro di simulare i mondi dei loro precursori. Ma se il mondo in cui viviamo è una simulazione, se le nostre stesse vite altro non sono che una simulazione, di punto in bianco qualcuno potrebbe decidere di interromperne l’esecuzione. E sarebbe, all’improvviso, la fine della realtà.
È il volto oscuro riservato dal progresso. E la fantascienza non smette di mostrarci le infinite possibilità che potrebbero andare storte e degenerare in incubo. Forse potremmo collettivamente esigere, anche nel mondo al di là dello specchio della finzione letteraria, uno sforzo di volontà in più per inseguire i sogni che potrebbero invece dischiuderci le altrettanto infinite meraviglie connesse alla scoperta, alla ricerca e all’avanzamento tecno-scientifico. Soprattutto in una congiuntura storica come quella che stiamo attraversando da qualche anno: se c’è una lezione che dovremmo aver imparato dal passato è che i periodi di crisi si traducono spesso in periodi di opportunità. E allora l’augurio è che l’attenzione e l’acutezza della fantascienza possano essere presi a esempio, continuando ad alimentare il circolo virtuoso delle ricadute dell’immaginario sulla realtà, regalandoci la continua sorpresa di ulteriori profezie autoavveranti.

 


 

LETTURE

 

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  Nick Bostrom, Are You Living in a Computer Simulation? ( www.simulation-argument.com/simulation.html),
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  David Brin, Le maree di Kithrup, Nord, Milano, 1985.
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  Greg Egan, Diaspora, Urania Mondadori, Milano, 2003.
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  Walter Jon Williams, L’era del flagello, Delos Books, Milano, 2005.

 


 

VISIONI

 

  David Cronenberg, eXistenZ, Cecchi Gori Home Video, 2002 (home video).
  Rainer Werner Fassbinder, Il mondo sul filo, WDR, 1973.
  Josef Rusnak, Il tredicesimo piano, Sony Pictures, 2009 (home video).
  Ridley Scott, Blade Runner (Final Cut), Warner Home Video, 2014 (home video).
  Lana e Andy Wachowsky, Matrix, Warner Home Video, 2014 (home video).