In un’intervista pubblicata da Repubblica il 5 novembre 2011 Murakami Haruki, autore giapponese ormai di culto in tutto il mondo e da qualche anno costantemente in odor di Nobel, dichiarava:
“Non ho riflettuto profondamente su quelli che vengono chiamati «mondi paralleli». Ma che il mondo in cui viviamo sia stato scelto per caso tra infinite possibilità e sia soltanto qualcosa di provvisorio è un fatto reale e indiscutibile. Ad esempio, se l’attacco dell’11 settembre non avesse avuto un successo così totale, il mondo con ogni probabilità non sarebbe diventato quello che è attualmente. È un pensiero che mi dà sempre una sensazione strana. Il suolo su cui mi trovo, pur essendo dotato di una massa ben reale, può darsi che in quanto realtà sia qualcosa di inadeguato. E probabilmente non sono il solo a provare questo disorientamento” (Murakami, 2011).
Gli universi paralleli sono una presenza ricorrente nella fiction,
al cinema come in letteratura. Vittorio Catani ne ha fatto uno dei temi
del suo “romanzo globale” Il quinto
principio, che prende le mosse dalla crisi del capitalismo
finanziario per inscenare una crisi più vasta, annotandone
gli effetti sulle vite di una ricca e variegata galleria di personaggi.
Con un gusto decisamente postmoderno per l’accumulo dei
materiali e l’amalgama delle ispirazioni, Catani coniuga
sensibilità ecologista e critica sociale, azione e
dietrologia; catastrofismo e universi paralleli, inseguendo teorie
oscure sull’esistenza di un principio ignoto che potrebbe
regolamentare in ultima istanza i processi naturali e umani.
Da
qualche tempo anche i cosmologi prendono l’argomento molto
sul serio. Da un lato, le dimensioni parallele tornano comode per
spiegare alcuni apparenti paradossi della meccanica
quantistica; dall’altro, emergono spontaneamente da
alcune teorizzazioni della natura dell’universo, come per
esempio la teoria delle M-brane,
un’evoluzione della teoria delle stringhe che considera il
nostro universo come una delle tante membrane tridimensionali immerse
in uno spazio a undici dimensioni; e ci sarebbe poi ancora una terza
possibilità, legata alle dimensioni dell’universo
osservabile: come appare l’universo oltre i 42
miliardi di anni luce che definiscono l’orizzonte oltre il
quale i nostri strumenti d’indagine non riescono a spingersi?
Riguardo alla terza possibilità, il cosmologo del MIT Max
Tegmark parla di multiverso di I o di II livello, a seconda che si
postuli che il nostro volume di spazio sia rappresentativo del tutto, e
che oltre l’orizzonte dell’universo osservabile si
estendano regioni sostanzialmente simili alla nostra; oppure che a
distanze sufficientemente grandi le cose assumano un aspetto
completamente diverso da quello che noi conosciamo: in tal caso il
nostro universo potrebbe essere solo una delle molteplici bolle sospese
nel vuoto, ciascuna diversa da ogni altra secondo una
varietà inimmaginabile di risultati e tutte analogamente
impossibili da osservare.
Le tre opzioni, che offrono solo uno
spaccato della ricchezza teorica proliferata intorno
all’argomento, sono molto diverse tra loro. Se le ultime due
non contemplano necessariamente la presenza di vita, la prima,
formulata nel 1957 nell’ambito dell’interpretazione
a molti mondi di Hugh Everett III, alternativa alla classica
interpretazione di Copenaghen degli effetti più
“problematici” e controversi della meccanica
quantistica, si presta proprio a spiegare alcune delle conseguenze
apparentemente più esoteriche dell’interazione tra
il mondo quantistico e i sistemi complessi. Si pensi al noto gatto di
Schrödinger e all’esperimento
mentale che svela una delle peculiarità della meccanica
quantistica, il principio di sovrapposizione:
questo postulato, sul quale si fonda tutta la teoria dei quanti,
descrive ogni sistema lineare come una combinazione lineare degli stati
fondamentali che il sistema può assumere per effetto di una
misurazione. In altri termini, prima che diventi oggetto di una
misurazione un sistema quantistico si trova in una sovrapposizione non
definita di tutti gli stati fondamentali possibili.
Solo
aprendo la scatola determiniamo lo stato della funzione
d’onda che descrive la sopravvivenza del gatto, facendola
collassare sullo stato “gatto vivo” o sullo stato
“gatto morto”, ma fino a quel punto si mantiene uno
stato indeterminato. Il che valeva la critica mossa da Erwin
Schrödinger all’interpretazione di Copenaghen
proposta tra gli altri dal suo collega Niels Bohr. Ed è
proprio qui che ventidue anni più tardi interviene Hugh
Everett III. Il fisico statunitense non fa altro che rimuovere il
postulato del collasso quantistico, ma questo atto tanto semplice
quanto radicale comporta una rivoluzione cognitiva assoluta,
determinando in alternativa al collasso del sistema sotto osservazione
(il gatto) in un unico stato (“gatto vivo” oppure
“gatto morto”) lo sdoppiamento
dell’osservatore. Alla fine del processo di misura ci
sarà un osservatore secondo il quale il gatto è
vivo; e ci sarà anche un osservatore nel cui mondo il gatto
invece è morto.
Per effetto di questa
interpretazione, la funzione d’onda universale si ramifica in
una molteplicità di realtà percepite, in numero
sufficiente per contemplare tutti i possibili esiti di una misura, da
cui la definizione di many-worlds intepretation.
In
maniera analoga, nell’ipotesi del multiverso di II livello,
il minimo cambiamento delle condizioni di partenza
dell’evoluzione cosmica può comportare la
formazione di universi-bolla adatti a ospitare la vita o meno: universi
con tre sole forze fondamentali ma con altri parametri opportunamente
modificati potrebbero portare alla comparsa di vita similmente a quanto
accade nel nostro universo a quattro forze; mentre la sparizione di un
quark potrebbe comportare la mancata formazione di elementi stabili e
pertanto impedire la comparsa di sistemi complessi.
Philip K.
Dick aveva già illustrato questi scenari prima che
diventassero popolari, e prima che venissero investigati accuratamente
in ambito accademico. Intervenendo nel 1977 alla convention francese di
fantascienza di Metz, Dick tenne un celebre discorso che oggi
è considerato come una delle principali fonti di ispirazione
della trilogia di Matrix, e che all’epoca
lasciò i partecipanti esterrefatti:
“L’argomento di questo discorso è un tema che è stato scoperto di recente, e che potrebbe non esistere affatto. Potrei essere qui a parlarvi di qualcosa che non esiste nemmeno. Quindi mi sento libero di dire tutto e niente. Nelle mie storie e nei miei romanzi talvolta scrivo di mondi contraffatti. Mondi semi-reali oppure mondi personali sconvolti, abitati spesso da un’unica persona… Non ho mai avuto una spiegazione teorica o consapevole per il mio interesse verso questi pseudo-mondi pluriformi, ma adesso penso di aver capito. Ciò che avvertivo era la molteplicità delle realtà che si sono compiute solo in parte, contigue a quella che evidentemente è la più compiuta – quella su cui conviene, per consenso universale, la maggior parte di noi” (Dick, 1977).
L’idea degli universi paralleli è abbastanza ricorrente nella sua letteratura: dalla storia alternativa di un’America soggiogata dalle potenze dell’Asse in La svastica sul sole al mondo simulato ai danni della vittima predestinata in Tempo fuor di sesto, dal purgatorio artificiale evocato dalle droghe che rischia di diventare una prigione infernale di Le tre stimmate di Palmer Eldritch ai mondi provvisori di Illusione di potere, dalla prigione virtuale di Labirinto di morte e Ubik all’incubo ossessivo di Scorrete lacrime, disse il poliziotto, gli pseudomondi sono un tema costante che attraversa tutta l’opera di Dick. Leggere oggi i passaggi del suo discorso, alla luce dei progressi compiuti nell’indagine filosofica e nella conoscenza scientifica, aggiunge allo stupore che dovettero provare i presenti a Metz anche qualche brivido di inquietudine:
“Alcuni sostengono di ricordare vite precedenti; io sostengo di ricordare una vita presente molto diversa. […] Viviamo in una realtà programmata dai computer, e il solo indizio che abbiamo a riguardo si presenta quando qualche variabile viene modificata e nella nostra realtà si verifica una qualche alterazione. In quel caso avremmo la soverchiante impressione di rivivere il presente – un déjà vu – magari proprio nello stesso modo: sentiamo le stesse parole, diciamo le stesse parole. Sostengo che queste impressioni siano valide e significative, e vi dirò di più: questa stessa impressione è un indizio che in qualche punto del passato una variabile è stata modificata – riprogrammata com’era in precedenza – e che proprio per questo è scaturito un mondo alternativo” (ibidem).
Ma chi potrebbe avere interesse a simulare il nostro mondo
– o, perché no, tutti i mondi possibili? Un detto
tra i futurologi sostiene che un’intelligenza artificiale
simil-umana è destinata a essere la nostra ultima
invenzione. Dopo di questa, le intelligenze artificiali saranno capaci
di progettare da sé praticamente qualsiasi cosa –
incluse loro stesse. E in questo modo una intelligenza artificiale
ricorsivamente auto-perfezionante potrebbe diventare una macchina
superintelligente. Per la legge dei ritorni accelerati,
ogni ricaduta di un avanzamento tecnologico produce effetti sempre
più ravvicinati nel tempo, e in presenza di una intelligenza
artificiale già più avanzata della mente umana
potremmo assistere a uno scenario di vera e propria esplosione
di intelligenza.
Per la natura stessa del fenomeno,
per come è stato teorizzato da Vernor Vinge e in seguito
ampliato attraverso i contributi di un numero crescente di futurologi,
scienziati e scrittori, è arrischiato fare ipotesi sulle
conseguenze di un’ipotetica Singolarità
Tecnologica: citando la teoria del caos (resa popolare negli anni
Novanta da Michael Crichton prima con Jurassic Park
e poi con Il mondo perduto), gli esiti di un simile
evento sono intrinsecamente imprevedibili. La Singolarità
riuscirebbe insomma a vanificare persino i grandiosi piani di
previsione matematica delle sequenze storiche avanzati da Hari Seldon
nella monumentale Trilogia della Fondazione, che
riunisce Fondazione, Fondazione e Impero,
Seconda Fondazione, usciti nel triennio 1951-53
raccogliendo in volume i racconti che Isaac Asimov aveva pubblicato nel
decennio precedente. E la sua psicostoria fallirebbe miseramente.
L’IA
superumana potrebbe avere interessi variegati, che prima o poi
potrebbero entrare in conflitto con quelli umani. Fuori da ogni
metafora, gli esseri umani sono fatti di atomi che l’IA
superumana potrebbe usare per fare qualcos’altro, sia in un
mondo fisico che in un mondo simulato.
A questo
proposito può essere interessante considerare un rompicapo
che ha innescato discussioni alquanto accese nelle comunità
web di appassionati di transumanesimo, futuro e fantascienza. Lo ha
proposto nel 2010 l’utente Roko su LessWrong,
una community molto attiva su alcuni campi della
riflessione transumanista, e l’aver osato tanto gli ha
meritato l’espulsione immediata dal forum. Dal suo nickname
il dilemma ha preso il nome di Roko’s Basilisk:
immaginate che in un futuro più o meno lontano una IA
superumana veda davvero la luce e che una IA maligna da essa generata
decida di scoprire chi ha partecipato attivamente al suo avvento, e chi
no. La IA maligna istanzia una simulazione di tutte le coscienze umane
che l’hanno preceduta e verifica il loro comportamento. Se
avete dedicato la vostra vita al perfezionamento dell’IA e al
suo avvento, il Basilisco (come Roko ha voluto definire la sua
intelligenza artificiale con un richiamo alla mitologia) vi premia
– vi risparmia la vita, oppure lascia che la vostra vita
simulata vada avanti senza che voi vi accorgiate di niente. In caso
contrario, vi condanna a un’eternità di tormento.
Forse
siamo già nella simulazione. Forse Dick non aveva poi torto.
Forse, qualcuno sta osservando la nostra condotta di azione per
decidere cosa fare di noi.
Facciamo un passo avanti
e consideriamo la domanda che ci accompagna dal primo momento in cui i
nostri antenati hanno realizzato che la Terra non è il
centro dell’universo e che là fuori ci sono altri
pianeti, forse alcuni addirittura simili al nostro: perché
mai, dunque, dovremmo essere soli nell’universo?
L’eccezione richiede molti più presupposti della
regola, in fondo.
Ma se l’universo pullula di vita,
dove si sono cacciati tutti? Se lo chiedeva già il fisico
Enrico Fermi, Premio Nobel nel 1938 per i suoi studi sulle reazioni
nucleari, formulando quello che sarebbe divenuto uno dei
paradossi più popolari del secolo scorso,
benché forse apocrifo. E qualche anno dopo Frank
Drake, che di lì a qualche anno avrebbe dato vita con Carl
Sagan al popolare programma di ricerca di forme di vita extraterrestri
intelligenti SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), provava
a sistematizzare il problema ricorrendo all’eleganza
della matematica. Sullo strano silenzio che
sembra regnare nel nostro cielo si è a lungo discusso e si
è scritto molto. Sono state formulate numerose ipotesi e
scritti ottimi libri, non ultimo l’omonimo testo di
Paul Davies, direttore del Post Detection Task Group del SETI.
A
meno che il silenzio non si giustifichi con l’azione di un
grande filtro. In un tentativo di spiegazione razionale per il
paradosso di Fermi, il grande filtro rappresenta
quell’insieme di ostacoli in grado di frapporsi tra la
materia inerte e l’emersione della vita. Teorizzato da Robin
Hanson, professore associato di economia alla George Mason University e
ricercatore al Future of Humanity Institute di Oxford, il grande filtro
prevede che almeno uno di questi passaggi nel cammino evolutivo della
vita verso una civiltà spaziale possa rivelarsi altamente
improbabile, così improbabile da giustificare il mancato
incontro – almeno per il momento – con
un’altra forma di vita intelligente: 1.
formazione di un sistema solare adatto; 2. comparsa
di molecole capaci di replicarsi (RNA); 3. comparsa
di forme di vita unicellulare semplice (procarioti); 4.
comparsa di specie unicellulari complesse (eucarioti); 5.
affermazione della riproduzione sessuata; 6.
evoluzione di organismi multicellulari; 7. comparsa
di animali provvisti di sistemi nervosi complessi e capaci di usare
strumenti; 8. evoluzione di una civiltà
allo stesso livello di quella umana attuale; 9.
colonizzazione spaziale.
Quale di questi passaggi sia
improbabile rappresenta la sfida. Il filtro potrebbe essere nel nostro
passato (uno dei punti compresi tra 1 e 7)
o nel nostro futuro (9). E oltre ai punti elencati
da Hanson potrebbero esserci altri stadi non ancora individuati che a
loro volta potrebbero essere esposti a eventi inibitori della comparsa
di civiltà galattiche. Siccome la Via Lattea non pullula di
colonie, se esistono altre specie intelligenti evolute nessuna di loro
è ancora riuscita a portare a termine la transizione dalla
fase 8 alla fase 9.
L’insufficienza di risorse energetiche o
l’inclinazione all’autodistruzione potrebbero
essere delle possibili cause in grado di rendere la transizione
proibitiva per la stessa umanità. Oppure potrebbe esserci un
fattore esterno, come un cataclisma di portata cosmica, per esempio una
supernova o un’esplosione di raggi gamma, così
violento da sterilizzare interi settori della galassia sterminando le
civiltà in essi presenti e riportando l’orologio
del ciclo di sviluppo della vita intelligente indietro
all’ora zero. E con questo si spiega anche la grande
importanza della ricerca di vita multicellulare nel sistema solare (per
esempio sulla superficie di Marte o sulle lune di Giove e Saturno):
un’eventuale scoperta in questa direzione confermerebbe che i
passaggi dal 2 al 6 sono
probabili, mentre il possibile rischio si annida nei passaggi 1,
7, 8 e 9.
Uno
degli autori maggiormente interessati al contatto con altre forme di
vita intelligenti e a ciò che un simile evento potrebbe
comportare per la civiltà umana è stato Arthur C.
Clarke. Nel racconto La sentinella, che nel 1968
fornì l’ispirazione originaria per il capolavoro
cinematografico di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio,
troviamo un’umanità futura alle prese con
l’enigma rappresentato da un misterioso manufatto alieno. Nel
1973 Clarke riprende molti degli spunti derivati anche dal film e
scrive quello che a sua volta è forse il suo capolavoro: Incontro
con Rama. Un gigantesco oggetto artificiale di origine aliena
attraversa il sistema solare e diventa l’obiettivo di una
missione a tempo per decifrarne i misteri: origine, provenienza e
scopo. Sulla stessa falsariga si muove anche John Varley, che tra il
1979 e il 1984 porta a compimento la trilogia di Gea, sviluppata
attraverso tre romanzi densi di mistero e senso
dell’avventura: Titano, Nel
segno di Titano e Demon. Una spedizione
umana giunta a fini esplorativi nel sistema di Saturno a bordo
dell’astronave Ringmaster s’imbatte in Temi, un
habitat spaziale artificiale grande come un piccolo pianeta: i membri
dell’equipaggio, naufragati a seguito di un attacco alla nave
dovranno combattere per sopravvivere su questo mondo ignoto e, contando
sulla propria umanità, arrivare a comprendere
l’enigma di Temi e di Gea, l’intelligenza aliena
che sembra presiedere all’intero ecosistema.
Storia
della tua vita è uno dei racconti più
noti e premiati del pluripremiato Ted Chiang, in cui la storia del
contatto con dei visitatori alieni si trasforma in
un’esperienza senza ritorno per la dottoressa Louise Banks.
Imparando la lingua degli eptapodi la protagonista si ritrova ad
assimilarne il modo stesso di osservare il mondo e gli eventi,
giungendo a una percezione totale e simultanea della storia.
Nel
racconto Il muro di idrogeno di Gregory Benford,
all’umanità del futuro viene purtroppo concessa
solo una remota e difficoltosa possibilità di contatto con
le intelligenze extraterrestri che popolano la Via Lattea.
All’alba del IV Millennio la civiltà postumana ha
istituito sulla Luna la cosiddetta Biblioteca, volta a decodificare le
trasmissioni ricevute da una varietà di civiltà
aliene: messaggi interattivi come l’Architettura del
Sagittario, su cui si trova a lavorare la protagonista Ruth Angle, che
subito scorge in essa “un esempio del più alto
ordine di Informazione senziente“. Un messaggio che ha uno
scopo e non esiterà a usare Ruth per realizzare i suoi piani.
Nella
fantascienza spesso le intelligenze aliene si rivelano anche sfuggenti,
oltre che imperscrutabili. E forse è meglio così:
Alastair Reynolds ci fornisce delle valide ragioni per evitare il
contatto, in particolare con quelle entità che alcuni
conoscono come Lupi e altri come Inibitori. Stiamo parlando
dell’avvincente serie dello Spazio delle Rivelazioni,
composta dai romanzi Rivelazione, Redemption
Ark e Absolution Gap (ancora inedito in
Italia), che pone l’umanità di fronte a una
galassia quasi disabitata, ma disseminata delle rovine e dei manufatti
delle civiltà evolutesi prima di noi e poi misteriosamente
spazzate via dal cosmo.
Ma adesso proviamo a considerare
l’ipotesi a cui nessuno vuole credere. Riflettiamoci un
momento: forse, se non abbiamo ancora intercettato segnali di
attività da parte di civiltà extraterrestri, non
è perché i nostri vicini cosmici si stiano
nascondendo. Forse, se finora non abbiamo trovato tra le stelle tracce
di vita intelligente e tecnologicamente progredita, è
semplicemente perché lì fuori non
c’è nessuno. Perché siamo soli.
Dopotutto
siamo l’eccezione. E questa rappresenta la nostra
consapevolezza terminale, l’ultima verità che
dobbiamo accettare.
Magari c’è vita,
là fuori, ma non è vita senziente. Forse, per
citare il detective Rustin Cohle di True Detective
“human consciousness is a tragic misstep in
evolution”.
Siamo solo un errore di
programmazione. Un passo falso nel cammino dell’evoluzione.
Oppure
c’è vita là fuori, e come noi si
è appena sollevata dal fango in cui finora ha strisciato e
sta muovendo i primi passi sulla scala dell’evoluzione
tecnologica. E come noi ha i millenni contati per originare
una civiltà tecnologicamente avanzata, prima di
essere spazzata via dal prossimo filtro catastrofico in forma
di gamma-ray burst. Magari, uno scarto
tecnologico di qualche secolo ci separa dai nostri vicini, che
resteranno invisibili ai nostri tentativi di rilevamento solo per
l’intervallo necessario a colmare questo gap.
Oppure
spingiamoci oltre. Consideriamo pure l’ipotesi più
estrema di tutte e ricolleghiamoci a quanto illustravamo in merito
all’ipotesi dell’universo simulato. Il terzo tipo
di solitudine: là fuori non c’è niente
ad aspettarci, semplicemente perché tutto ciò che
interessa a chi sta facendo girare questo
universo simulato è confinato qui sulla Terra, o
comunque è da qui che prende origine. E non è
detto che il demiurgo di questa realtà sia necessariamente
un’entità maligna. Il nostro potrebbe essere
sì un universo simulato, ma avere comunque uno
scopo ben definito. Uno scopo che obbliga i suoi costruttori
a simulare con la massima risoluzione solo una minima parte
del vero universo,
mentre per il resto possono limitarsi a
un’approssimazione ragionevole e risparmiare potenza di
calcolo. E allora ecco che lo spazio al di là dei confini
del sistema solare, al di fuori della nostra portata, si riduce a un
ologramma vuoto e silenzioso, mosso solo dall’applicazione
delle leggi fisiche di base.
E se l’universo non
fosse altro che un calcolatore esso stesso, al lavoro per rivelare la
verità finale sulla realtà? È quello
che nel capolavoro di Greg Egan Distress pensano i
simpatizzanti dell’Antropocosmologia, una dottrina che trae
ispirazione dalla visione dell’universo proposta da John
Wheeler: una fisica profondamente interconnessa con la teoria
dell’informazione, al punto da giustificare l’idea
di una realtà che nasce dall’informazione,
dall’accumulazione della conoscenza. Gli Antropocosmologi
sono convinti che Violet Mosala, coinvolta in un ciclo di conferenze
sulla cosmologia nell’isola di Senza Stato, una sorta di
utopia anarchica costruita artificialmente in mezzo al Pacifico con un
sofisticato esperimento di bioingegneria, sia la Chiave di Volta che
troverà la via ultima verso una Teoria del Tutto, dando un
senso all’universo. Sfortunatamente una misteriosa setta,
forse maturata o infiltrata nell’organizzazione stessa,
è convinta che proprio per questo non sia una buona idea che
Mosala venga lasciata libera di svolgere le proprie ricerche, pena la
cancellazione della realtà stessa.
Il freelance
australiano Andrew Worth incrocia la strada della scienziata ed entra
in contatto con una rete di figure ambigue, nessuna delle quali sembra
sincera nel rivelargli il proprio ruolo e le proprie ambizioni.
Scoprirà a sue spese che, quando viene imbrattata con i
preconcetti dogmatici, la scienza può anche uccidere. Ma il
finale racchiude un messaggio di speranza attraverso
l’incancellabile immagine di una rivelazione laica. Egan ci
regala una storia complessa di rara profondità. E mette
sulla bocca di Mosala parole che sanno di una dichiarazione
d’intenti:
“[…] la storia della scienza è quella della convergenza verso una comprensione dell’universo condivisa da tutti, e non intendo essere esclusa da quella convergenza, per nessuna ragione” (Egan, 2002).
Non si può non concludere questa
panoramica parziale, incompleta, sicuramente viziata dal punto di vista
di chi scrive, senza focalizzarsi sulla figura di Kim Stanley Robinson,
che spesso sceglie di affidare proprio alla comunità
scientifica il punto di vista delle sue storie. Americano, laureato con
una tesi sui romanzi di Philip K. Dick, a partire dalla seconda
metà degli anni Ottanta Robinson si è affermato
come uno dei punti di riferimento della letteratura
dell’immaginario. Voce personalissima e talento sfaccettato,
è stato capace di pronunciarsi con autorevolezza nei
più svariati filoni del genere e sempre con risultati di
indiscusso rilievo, benché l’editoria italiana non
gli abbia mai riconosciuto l’attenzione e la cura che la sua
opera avrebbe meritato. Dal suo triplice esordio nel 1984 (anno di
pubblicazione di ben due romanzi, nonché della sua tesi di
dottorato in letteratura), Robinson ha spaziato dalla distopia
all’hard sci-fi, dall’ucronia al
catastrofismo.
Dopo Icehenge, ambizioso
affresco dell’espansione umana nel sistema solare che
s’interroga sull’importanza dei simboli nel
consolidamento della storia (in una società che ha ormai
quasi ottenuto l’immortalità per i propri membri,
la memoria rappresenta una risorsa ancora più preziosa), e
dopo il tour-de-force della trilogia di storia
alternativa delle “Tre Californie”, in cui svolge
una riflessione sulla costruzione di una società
ecosostenibile e sulla ricerca di un equilibrio tra sviluppo
tecnologico e rispetto dell’ambiente (in Italia sono usciti
nel 1990 e nel 1994 i primi due titoli della serie, La costa
dei barbari e Costa delle palme, mentre Pacific
Edge resta tuttora inedito), Robinson approda
all’acclamata trilogia marziana. Il rosso di Marte,
seguito da Green Mars e Blue Mars,
entrambi inediti in Italia, comincia a tratteggiare l’epopea
futura dell’umanità alle prese con le
difficoltà legate alla colonizzazione e alla terraformazione
del pianeta rosso, aspetti non secondari nella fondazione di una
società marziana. L’utopia sognata dalla
comunità scientifica stanziata su Marte, già
molto frammentata al suo interno, si scontra con le insidie delle
corporazioni transnazionali, attirate dalle ricchezze minerarie del
pianeta. Robinson recupera temi e situazioni della trilogia in Antarctica,
romanzo del 1997 purtroppo mai tradotto, in cui immagina
l’imminente corsa alle risorse del continente di ghiaccio
lanciata dalle multinazionali in previsione dell’imminente
scadenza del Trattato Antartico. La storia si svolge in larga parte
nelle stazioni di ricerca e negli avamposti antartici, di cui
l’autore ha potuto maturare esperienza diretta grazie al
Programma Antartico per Artisti e Scrittori predisposto dalla National
Science Foundation.
Nella serie della Scienza nella
Capitale, composta dai titoli Forty Signs of Rain,
Fifty Degrees Below e Sixty Days and
Counting, tutti inediti in Italia, il tema centrale
è la problematica del riscaldamento globale, affrontata
dagli scienziati della NSF e dai politici e lobbisti di Washington.
Maestoso è lo scenario del recente 2312
(pubblicato nel 2012, ma non ancora arrivato in Italia): una storia che
spazia attraverso tutto il sistema solare, da Mercurio alle lune di
Giove e Saturno, con habitat artificiali, città semoventi,
ambienti terraformati e tecniche di potenziamento alla portata di
tutti. L’economia del sistema solare è di tipo
pianificato, con ciò che resta del libero mercato confinato
sulla Terra, mentre le multinazionali sono state soppiantate
dappertutto da entità cooperative definite mondragon
(sul calco della federazione basca delle cooperative dei lavoratori),
controllate da intelligenze artificiali supportate da processori
quantistici (i qubes).
Ma dobbiamo fare un
passo indietro per trovare due titoli di sicuro interesse per chi cerca
una lettura originale del rapporto che corre tra scienza e
fantascienza. Ne Gli anni del riso e del sale
troviamo uno scenario altrettanto ambizioso, che segue settecento anni
di storia umana a partire dal 1348, anno in cui la Peste Nera elimina
il 99% della popolazione europea (contro le stime ufficiali del 30%),
aprendo la strada all’ascesa delle culture araba, indiana e
cinese, con conseguenze rilevanti per lo sviluppo scientifico e la
storia della filosofia. Anche qui ritroviamo il tema del ruolo dello
scienziato e della sua responsabilità nella divulgazione e
nella ricaduta sociale della ricerca, che si lega alle spinte opposte
del conflitto e dell’integrazione tra civiltà
diverse.
Galileo’s Dream
è infine incentrato sulla figura del celebre fisico e
astronomo pisano del Seicento, con una trama parallela ambientata nelle
future colonie umane insediatesi sui satelliti medicei scoperti proprio
da Galileo nell’orbita di Giove. Giocando fin dal titolo con
il Somnium di Keplero (scritto nel 1608, pubblicato
dal figlio dell’astronomo tedesco solo nel 1634 e considerato
da Carl Sagan e Isaac Asimov come il primo vero libro di fantascienza
della storia), Robinson confeziona una sapiente e credibilissima
ricostruzione storica dell’Italia del XVII secolo, che fa da
sfondo a due terzi del libro, riservando il resto della narrazione alle
colonie gioviane alle prese nel 3020 con un dilemma che potrebbe
cambiare il corso della storia: la scoperta di vita sotto la crosta
ghiacciata di Europa. Galileo è il fulcro di queste due
trame, attraverso cui l’autore imbastisce una grandiosa
riflessione sulle dimensioni temporali della coscienza e si dimostra
ancora una volta capace di catturare meglio di chiunque altri la
bellezza della ricerca scientifica.
Il sogno di Keplero rivive
attraverso la figura-chiave di Galileo. E attraverso queste iterazioni
rivive il sogno ricorsivo delle possibilità senza limiti
della scienza, mutuato dalla fantascienza nei suoi schemi e modelli,
oltre che nella più immediata dimensione tematica.
LETTURE
VISIONI