I fisici teorici sono spesso provocatori e anche un po’ arroganti. Uno dei loro più famosi esponenti viventi, Stephen Hawking, nella prima pagina del suo discusso Il grande disegno, scrive ad esempio:
“Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo a cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi… Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola della nostra ricerca della conoscenza” (Hawking e Mlodinow, 2011).
Analogamente, l’italiano Carlo Rovelli, tra i massimi esperti mondiali di gravità quantistica, ha scritto recentemente un articolo pubblicato su Il Sole 24 ore dal provocatorio titolo Non possiamo non dirci naturalisti, facendo il verso al famoso pamphlet di Benedetto Croce. Per Rovelli, il naturalismo è l’unica filosofia possibile: la natura dev’essere l’unico oggetto dell’indagine sia scientifica che filosofica e qualsiasi tentazione trascendente dev’essere rifuggita. Questa presunzione di molti scienziati teorici contemporanei poggia, bisogna ammetterlo, su solide basi. I trionfi della scienza nella comprensione dei fondamenti ultimi della realtà sono sotto gli occhi di tutti: né la religione né la filosofia, a cui per secoli è spettato il diritto di spiegare il mondo, sono riuscite a dimostrare che l’universo è iniziato 13,7 miliardi di anni fa da una singolarità che definiamo “Big Bang”, a ricostruire tutto il percorso che ha portato alla nascita delle stelle, delle galassie, dei pianeti, a scoprire le forze fondamentali che regolano l’universo, i costituenti di base della materia, persino a riprodurre in laboratorio particelle che sono esistite solo per pochi istanti subito dopo il Big Bang. E tuttavia, a questo quadro così rassicurante mancano ancora alcune risposte. Ci sono infatti perlomeno due grandi domande fondamentali che chiedono una spiegazione: perché esiste qualcosa anziché il tutto e in che modo è nata la vita.
La stragrande maggioranza degli scienziati, naturalmente, non
si pone mai queste domande per tutto l’arco della propria
carriera; ma qualcuno lo fa. Alle grandi domande ha dedicato la propria
carriera, per esempio, John Brockman, che di mestiere fa
l’agente letterario e anni fa ha capito che facendo ai grandi
scienziati e intellettuali delle “grandi domande”
è possibile ingenerare riflessioni che di norma non sono
all’ordine del giorno delle loro preoccupazioni.
“Che cosa cambierà tutto?”,
“Qual è la spiegazione più elegante,
bella o profonda che preferisci?” e “Quali idee
scientifiche sono destinate ad essere archiviate?” sono solo
alcune delle domande impegnative che Brockman ha posto a un altissimo
numero di scienziati e pensatori negli ultimi anni, traendo dalle loro
risposte autentici best-seller prodotti dalla sua Edge Foundation.
Iniziativa analoga, pensata per il mondo del web, è
“Big Think”, fondato da due imprenditori di Harvard
come “una versione di YouTube per le idee”, che ha
intervistato a oggi oltre 3.000 pensatori sulle grandi
domande, condensando le loro idee in video brevi ed efficaci (www.bigthink.com).
Le
grandi domande, insomma, fanno audience. Ad esse sono dedicati non solo
i principali best-seller della divulgazione scientifica, ma anche i
generosi finanziamenti di magnati americani interessati ad alimentare
con il loro denaro la ricerca sulle verità ultime. Una
tradizione, questa, tipicamente made in Usa: nel 1930 i fratelli
Bamberger, che avevano fatto fortuna con un grande magazzino a Newark e
avevano salvato i loro guadagni ritirandoli dalla borsa prima del
crollo del 1929, decisero di finanziare quello che sarebbe diventato
l’Institute for Advanced Study di Princeton, il tempio della
“ricerca astratta”, dove andranno a rifugiarsi nei
loro ultimi anni uomini come Albert Einstein e Kurt Gödel. Nel
1934 Alfred P. Sloan, magnate della General Motors, fondò
l’omonima fondazione che da allora ha finanziato borse di
studio in tutti gli ambiti della ricerca scientifica, dalla lotta
contro il cancro alla cartografia degli oggetti
dell’universo. Paul Allen, il co-fondatore della Microsoft, a
partire dalla fine degli anni Ottanta ha finanziato grandi centri di
ricerca che portano il suo nome, per la ricerca sul cervello,
sull’intelligenza artificiale e le scienza di base, oltre a
una serie di radiotelescopi impiegati dal SETI per la ricerca di
segnali di civiltà extraterrestri. Nel 1999 è
stato inaugurato il Perimeter Institute di Waterloo, in Canada, grazie
a una donazione di 150 milioni da parte dal leader di BlackBerry Mike
Lazardis ed esclusivamente dedicato alla fisica teorica di frontiera.
Oppure, ancora, i 16 Kavli Institute fondati dal 2000 in tutto il mondo
per opera della fondazione creata dal magnate norvegese Fred Kavli,
dedicati all’astrofisica, alla cosmologia, alle scienze
cognitive e alla fisica teorica.
La passione di
Kavli per le grandi domande è tale che dal 2008 ha fondato
un premio annuale di un milione di dollari da destinare ai principali
studiosi di queste materie. La differenza rispetto al Premio Nobel
svedese non sta solo nel fatto il Premio Kavli è norvegese,
ma che premia grandi lavori teorici che magari non riceveranno mai un
Nobel, riconoscimento che viene attribuito solo ed esclusivamente a
scoperte dimostrate empiricamente. Il problema delle grandi domande sta
proprio in questo. La maggior parte delle risposte elaborate dagli
scienziati teorici non è immediatamente verificabile. Per
tale motivo, in un sistema di ricerca pubblico che premia i risultati,
non c’è spazio per la speculazione teorica sulle
domande fondamentali: sono i capitali privati a dover compensare, in
America, questa mancanza.
Per molti anni, subito dopo la
Seconda guerra mondiale, l’attenzione per la filosofia
all’interno della ricerca scientifica scomparve del tutto. Il
“nuovo corso” colpì in particolare la
fisica quantistica, la più recente e sorprendente delle aree
di ricerca della fisica. Se negli anni Venti e Trenta, nel corso dei
quali erano stati scoperti i principi di base della meccanica dei
quanti, uomini come Werner Heisenberg, Niels Bohr o Erwin
Schrödinger affiancavano alle scoperte nei laboratori
un’imponente riflessione filosofica sulla natura ambigua
della realtà quantistica (lo dimostrano i titoli di alcune
delle loro opere più tarde: Fisica e filosofia di
Heisenberg, del 1961; L’immagine del mondo
di Schrödinger, pubblicato nello stesso anno; I
quanti e la vita di Bohr, del 1965), la Guerra Fredda impose
un radicale cambio di rotta, come racconta efficacemente David Kaiser:
“C’era chi lamentava lo «sforzo profuso per analizzare paradossi e strane questioni logiche del tutto inutili ai fini dell’esame» e chi denunciava il fatto che le domande non riguardassero affatto questioni di interpretazione, focalizzandosi invece su una gamma assai ristretta di problemi di routine (dimenticatevi la filosofia e snocciolate la «solita tiritera», disse uno studente a chi veniva dopo di lui in un esame). Le domande aperte (che richiedevano una dissertazione) sugli aspetti interpretativo-filosofici scomparvero dagli esami scritti in tutto il Paese, sostituite da puri problemi di calcolo. I recensori dei libri di testo negli Stati Uniti cominciarono a lodare i volumi sulla meccanica quantistica che «evitavano la discussione filosofica» o omettevano «domande contaminate dalla filosofia»” (Kaiser, 2012).
Il libro di Kaiser, intitolato Come gli
hippie hanno salvato la fisica, racconta la rinascita della
speculazione filosofica riguardo la meccanica quantistica nel corso
degli anni Settanta e come questa rinascita abbia salvato la fisica
dalla stasi. Di fatto, sono state le grandi domande ad aver fatto
avanzare la ricerca in alcuni settori di frontiera della scienza, e non
l’approccio “zitto e calcola!” imperante
tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Naturalmente, poiché
c’erano anche gli hippie di mezzo, un po’ di
problemi ci sono stati e ci sono tutt’ora. Quando si tratta
di elaborare teorie astratte sulla natura ultima della
realtà, il rischio di attirare persone un po’
eccentriche è sempre presente. Ciò spiega il boom
che negli ultimi anni sta vivendo il cosiddetto “misticismo
quantistico”, portato avanti da sedicenti guru
dall’autoguarigione, della ricerca olistica e della
meditazione trascendentale che sostengono di poggiarsi – in
modo per la verità a dir poco traballante – sui
fondamenti della fisica quantistica. Ogni giorno molti fisici in tutto
il mondo ricevono lettere da parte di bizzarri personaggi che credono
di aver scoperto la teoria del tutto, come ha raccontato Margaret
Wertheim nel suo Tutti pazzi per la fisica.
Anche
al netto di tutto ciò, quando un fisico teorico inizia a
trattare dei problemi interpretativi o delle grandi domande sulla
realtà ultima, finisce spesso per essere guardato con
sospetto. Lo racconta perfettamente Max Tegmark nel suo libro L’universo
matematico, opera a lungo attesa per lo spessore del
personaggio. Tegmark, infatti, è il fondatore del
Foundational Questions Institute, un istituto americano che si occupa
proprio delle domande fondamentali. Attirando ingenti capitali di
donatori privati, il FQXI (acronimo usato dall’istituto di
Tegmark) finanzia ogni anno con generose borse ricerche su temi di
frontiera che non riuscirebbero a essere finanziate dai canali standard
delle università proprio per il loro elevato grado di
speculazione filosofica.
Tegmark è il prototipo di
quella categoria di fisici che attribuisce grande importanza alla
“ricerca sulla natura ultima della
realtà” (così il sottotitolo del suo
libro) e, se si gira il volume per leggere le recensioni stampate sulla
quarta di copertina, si scopre che è in buona compagnia:
Brian Greene, Michio Kaku, Edward Witten, Mario Livio, Julian Barbour e
David Deutsch, tutti fisici e matematici eminenti, sono anche celebri
per i loro libri tradotti in tutto il mondo. In un paragrafo di L’universo
matematico, Tegmark racconta di quando,
all’indomani della pubblicazione di un suo articolo,
ricevette la mail di un collega: “Caro Max, i tuoi articoli
stravaganti non ti stanno affatto aiutando”, esordiva la
mail. “La questione potrà sembrarti priva di
importanza, se non fosse che i colleghi vedono in questo aspetto della
tua personalità un cattivo presagio per gli sviluppi
futuri… devi capire che se non riuscirai a mantenere
pienamente separate tali attività dalle tue ricerche serie
– magari eliminandole del tutto – e confinarle al
pub o in altri posti del genere – il futuro potrebbe
riservarti qualche sorpresa sgradita” (Tegmark,
2014).
Cosa aveva spinto il collega di Tegmark a
mandargli quell’avvertimento? Certamente le teorie alquanto
bizzarre del fisico. Ne L’universo matematico,
l’autore tratta in modo divulgativo (fino a un certo punto)
della sua risposta a una delle più recenti domande
fondamentali della scienza: perché la matematica funziona?
Domanda oziosa, si potrebbe pensare a una prima valutazione. Galileo
diceva che l’universo è scritto in linguaggio
matematico e da allora ci siamo sforzati di capirlo attraverso la
matematica, con grande profitto. Dov’è il
problema? In primo luogo, ci si potrebbe chiedere perché il
linguaggio della scienza sia proprio la matematica. Ma, in secondo
luogo, emerge una domanda ben più interessante: se la
soluzione di un’equazione matematica è corretta,
allora è anche reale? Queste domande hanno iniziato a
dominare una certa branca della filosofia della scienza dai tempi di
Einstein. Applicando la teoria della relatività generale
allo studio dell’universo, Einstein scoprì che
esistevano numerose soluzioni alle sue equazioni, ciascuna delle quali
in grado di descrivere un diverso modello di universo. Quale soluzione
è quella reale? Forse lo sono tutte quante? Si racconta che
John Wheeler, uno dei più grandi studiosi della
gravità, forse l’unico oltre Einstein ad aver
compreso fino in fondo la teoria della relatività, quando
finiva di scrivere un’equazione cosmologica sulla lavagna la
guardava e diceva: “Ora batterò le mani e
nascerà un universo” (Smolin, 2014). A
ciò si lega la fondamentale domanda che si poneva Stephen
Hawking: “Che cos’è che insuffla il
fuoco nelle equazioni, dando loro un universo da governare?”
(Hawking, 2000). Nel suo Il libro degli universi,
il matematico John Barrow elenca non meno di cinquanta modelli diversi
di universi, molti dei quali potrebbero efficacemente descrivere quello
in cui viviamo. Nessuno di questi modelli, se non in casi rarissimi,
è emerso dall’osservazione; sono tutti frutto di
soluzioni di equazioni matematiche.
Tale
l’importanza “ontologica” che certi
scienziati attribuiscono oggi alla matematica, che si è
sviluppata una sorta di nuova branca della filosofia, il platonismo
matematico, secondo la quale esiste una sorta di iperuranio dove tutti
i concetti previsti dalla matematica sono effettivamente reali. Tra i
sostenitori di quest’idea c’è Roger
Penrose dell’Università di Oxford, che nel suo
celebre La mente nuova dell’imperatore scrive:
“La matematica è invenzione o scoperta? Quando un matematico ottiene i suoi risultati sta solo producendo complesse costruzioni mentali che non hanno realtà di fatto, ma la cui potenza ed eleganza sono semplicemente sufficienti a ingannare persino i loro inventori, inducendoli a credere che queste mere costruzioni mentali siano «reali»? Oppure i matematici scoprono davvero verità già «esistenti»: verità la cui esistenza è del tutto indipendente dalle attività del matematico? Io penso che, a questo punto, dovrebbe essere chiaro al lettore che io aderisco alla seconda concezione...” (Penrose, 1991).
Il platonismo di Penrose è portato alle estreme
conseguenze da Tegmark. L’idea di base del suo ragionamento
è che “la realtà non è
semplicemente descritta dalla matematica, ma è
matematica… Non solo alcuni suoi aspetti, ma tutta
la realtà, compresi voi” (Tegmark, 2014). Da qui
deriva l’ipotesi dell’Universo Matematico, secondo
cui tutte le strutture che esistono in senso matematico esistono anche
in senso fisico. Esiste un multiverso, ipotizza Tegmark, composto da un
numero forse infinito di universi ciascuno con proprie strutture
matematiche e regolato da proprie equazioni. In tal modo si
può rispondere a un’altra domanda fondamentale
posta da Wheeler: “Perché queste equazioni, e non
altre?”. Le altre sono valide in altri universi.
A
ben guardare, il problema della “irragionevole efficacia
della matematica” (così è noto oggi,
dal titolo di un famoso articolo del 1960 del fisico Eugene Wigner)
è alla base di qualsiasi tentativo di comprendere la natura
ultima della realtà. Tutte le teorie fondamentali che gli
studiosi stanno elaborando in questi anni si basano esclusivamente su
equazioni e modelli creati al computer; la maggior parte di queste
teorie fa delle predizioni che la scienza sperimentale potrebbe poi
confermare o smentire, ma in un lasso di tempo che può
essere anche molto lungo. Il bosone di Higgs fu teorizzato negli anni
Sessanta, e si è dovuto attendere il 2012 per la sua
osservazione empirica all’acceleratore LHC del Cern. Molte
delle previsioni che emergono da teorie dominanti nell’ambito
della fisica, come la supersimmetria, non sono state ancora confermate.
Compito dell’acceleratore di particelle LHC dopo la scoperta
del bosone di Higgs è proprio scoprire l’esistenza
delle particelle supersimmetriche previste fin dagli anni Settanta.
Sono stati spesi miliardi di dollari in esperimenti come quelli del
Cern o in altri laboratori in tutto il mondo – alcuni anche
nello spazio – per confermare la supersimmetria. Da
ciò deriva che i fisici sono davvero convinti della sua
validità, nonostante al momento non ci siano prove a suo
favore. Come mai? Perché la matematica alla base della
supersimmetria è elegante, o bella,
due aggettivi che oggi dominano il dibattito sulla natura ultima della
realtà. La “teoria del tutto”, la teoria
fondamentale della fisica, dovrebbe essere così semplice ed
elegante, secondo i fisici, da poter essere stampata su una maglietta,
proprio come E=MC2, il prototipo della teoria bella
ed elegante. Per la verità, al momento nessuna
delle teorie del tutto più in voga tra quelle proposte gode
di queste caratteristiche. Quella dominante, la teoria delle stringhe,
o meglio una sua estensione, la teoria-M (la “M”,
che molti scienziati sostengono stia per “mistero”
o per “madre”, si riferisce in realtà
alle “membrane”, alla base di tale teoria),
è estremamente complicata, al punto da essere
spesso presa in giro da sit-com nerd come The
Big Bang Theory. Ma poiché la complicatissima
matematica che c’è alla base sembra corretta,
allora – affermano i suoi sostenitori –
dev’essere anche vera. Poco importa che la teoria funzioni
solo prevedendo l’esistenza di dieci dimensioni spaziali al
posto delle tre che sperimentiamo quotidianamente, o ipotizzando che
esistano particelle mai viste (quelle supersimmetriche), o che tutte le
particelle che compongono la materia non siano altro che diverse
configurazioni di un’unità fondamentale, le
“stringhe”, date dalla loro vibrazione: stringhe le
cui dimensioni sarebbero così piccole da renderne
impossibile l’osservazione. Secondo Brian Greene, il
più noto dei sostenitori della teoria delle stringhe come
teoria ultima, già solo la matematica ci suggerisce la sua
validità: tale teoria, per esempio, ha come sua conseguenza
la relatività generale, che quindi può essere
descritta mediante questa più grande teoria. Non solo: ha
dato già rilevantissimi contributi all’avanzamento
della matematica, per cui possiede qualche intrinseca
verità. Per accettarla, si tratta solo di superare il nostro
senso comune. La teoria-M, che riassume in sé tutte le
varianti (circa 10500) della teoria delle
stringhe, sostiene che il nostro universo sia semplicemente una
membrana tridimensionale, o 3-brana, in un multiverso o bulk
a più dimensioni. Ecco perché non ci accorgiamo
dell’esistenza delle altre. Solo la forza di
gravità si estende sull’intero bulk,
per questo ha un’intensità inferiore alle altre
tre forze fondamentali (elettromagnetica, nucleare forte e nucleare
debole). Un’idea rivoluzionaria che faremmo meno fatica a
digerire se leggessimo Flatlandia di Edwin Abbott,
un classico – pubblicato per la prima volta nel 1884
– che tutti gli stringhisti hanno per lettura obbligatoria:
è il racconto di un mondo a due dimensioni che non ha
percezione dell’esistenza di una realtà
tridimensionale superiore.
Quella delle stringhe è
senza dubbio la teoria mainstream
nell’ambito della fisica teorica di frontiera, ma non mancano
le voci critiche. Una delle più celebri resta quella di Lee
Smolin, che nel 2006 pubblicò un libro che fece molto
discutere, L’universo senza stringhe. In
esso, Smolin accusava gli stringhisti di aver ostracizzato i
ricercatori in altri ambiti (lo stesso Smolin è stato
“costretto” a portare avanti le sue ricerche sulla
gravità quantistica fuori dagli Usa, al Perimeter Institute
in Canada, divenuto poi una sorta di “centro di
raccolta” degli scissionisti anti-stringhe) e metteva in luce
tutte le manchevolezze della teoria:
“La sensazione era che potesse esistere soltanto una teoria coerente per unificare la fisica e, dato che la teoria delle stringhe sembrava farlo, doveva essere corretta. Non si doveva più dipendere dagli esperimenti per verificare le teorie! Quella era roba di Galileo. Oramai bastava la matematica per esplorare le leggi di natura. Eravamo entrati nell’era della fisica postmoderna” (Smolin, 2007).
Probabilmente siamo ancora nell’era fisica
postmoderna, e ci rimarremo per un po’. Il ritorno in auge
della ricerca sulle grandi domande ha rimesso di nuovo in discussione
gli assunti di base della scienza, tra cui la validità
stessa del vecchio concetto popperiano di falsificazione per discernere
ciò che è scientificamente vero da ciò
che non lo è, e questo perché, proseguendo nella
ricerca, ci si immerge sempre più nelle
profondità della speculazione teorica.
Prendiamo
in considerazione il multiverso. Ormai quasi tutti i cosmologi, fisici
e matematici convivono con quest’idea, non ancora assorbita
dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ma
perché è necessario presupporre
l’esistenza di un multiverso, ossia di una cornice
all’interno del quale convivono infiniti universi? Per una
serie incredibilmente alta di ragioni, alcune delle quali le abbiamo
già citate: la teoria-M presuppone un multiverso composto da
3-brane e brane con dimensioni superiori alle nostre 3. Il multiverso
è inoltre la risposta alla domanda di Wheeler
“perché queste equazioni, e non altre”.
In generale, il multiverso è più o meno la
risposta a tutte le domande più difficili. Per esempio,
sposta in avanti il problema di cosa c’era prima del Big Bang
(esisteva, ed esiste, il multiverso) o se l’universo sia
infinito (il nostro non lo è, ma il multiverso
sì). E risolve anche uno più grandi problemi
posti dalla fisica, quello delle costanti fondamentali. Un problema di
cui si sente poco parlare, per la verità, perché
infastidisce molto gli scienziati e porta spesso
all’elaborazione di spiegazioni poco apprezzate, come quella
del “principio antropico” (così
disprezzata come spiegazione che Tegmark racconta nel suo libro che a
un convegno un relatore dovette citare l’aggettivo
“antropico” parlando di “quella parola
che inizia per A”, suscitando nondimeno
una salva di fischi).
Il problema è
essenzialmente posto dal fatto che esistono delle costanti fondamentali
della natura dotate di certi valori che non solo non siamo in grado di
spiegare (perché questi valori, e non altri?), ma che se
variassero anche solo di qualche decimale renderebbero impossibile
l’esistenza di vita nell’universo. Se mettiamo
insieme tutte queste costanti – la massa degli elettroni e
dei protoni, la costante gravitazionale, la velocità della
luce, la costante di struttura fine, solo per citare le più
famose, ma ce ne sono molte altre – e fissiamo per ciascuna
di esse il range di variabilità oltre il
quale il loro valore renderebbe impossibile l’emergere della
vita, scopriremmo che la nostra esistenza è davvero un
incredibile caso, come se qualcuno avesse appositamente sintonizzato le
manopole di una grande macchina su determinati valori per far uscire il
nostro universo così com’è, adatto per
la nascita della vita come la conosciamo. Il mistero del fine
tuning (“sintonia fine”) puzza di
metafisica, naturalmente, perché alimenta pretese mistiche
sull’origine dell’universo, oppure conduce a
soluzioni radicali e teleologiche, come il principio antropico appunto,
che nella sua accezione forte sostiene che le costanti hanno questi
valori perché l’emergere della vita è
l’obiettivo ultimo dell’universo stesso.
Per
molto tempo la comunità scientifica ha liquidato la
questione parlando di mera casualità, ma in tempi
più recenti il multiverso è apparso ai
più come la migliore soluzione. In un multiverso in cui
convivono, separati tra loro, infiniti universi, le costanti
fondamentali assumono valori diversi in ciascuno di essi e quindi
esisteranno universi adatti alla vita (come il nostro) e altri
– la maggior parte – in cui la vita non
può svilupparsi. Va da sé che anche quella del
multiverso è una teoria di difficile dimostrazione, anzi
forse la più difficile da dimostrare, dal momento che
postula che gli universi non debbano comunicare tra loro, per cui non
potremmo mai avere prove dell’esistenza di altri universi.
Tegmark arriva a sostenere l’esistenza di ben quattro livelli
del multiverso: il primo sarebbe formato da regioni al di là
del nostro orizzonte cosmico, che condividono quindi le nostre stesse
leggi ma che non possiamo vedere perché la luce da loro
emessa non arriva fino a noi (per via dell’espansione
dell’universo); il secondo livello è quello che
definiremmo “classico”, ossia un numero infinito di
universi separati tra loro, ciascuno con proprie leggi, continuamente
prodotti da un meccanismo di inflazione eterna; il livello III
è quello previsto dalla “teoria dei molti
mondi” della meccanica quantistica, una particolare
interpretazione secondo cui l’universo si scinderebbe ogni
volta che viene compiuta un’osservazione, dando vita a
universi paralleli coesistenti (un classico topos della
fantascienza, come in Assurdo universo di Frederic
Brown o nel film Sliding Doors di Peter
Howitt); e infine il IV livello, quello delle strutture matematiche che
abbiamo visto in precedenza.
Secondo Greene, ci sono diverse
speranze di poter un giorno verificare la teoria del multiverso. Le
proposte vanno da esperimenti negli acceleratori di particelle alle
analisi del fondo cosmico a microonde, l’eco del Big Bang,
che secondo alcune ipotesi potrebbe portare le
“cicatrici” di scontri primordiali con altri
universi (è la proposta, per esempio, di Roger Penrose in Dal
Big Bang all’eternità). Lee Smolin ha
proposto alcuni anni fa una teoria, la “selezione cosmologica
naturale” (Smolin, 1998), che fa delle previsioni
verificabili, o meglio falsificabili – che si possono
cioè dimostrare sbagliate attraverso
l’osservazione – e risponde al problema dei valori
delle costanti fondamentali ipotizzando che i buchi neri originino
altri universi. Ciascun universo nato da un buco nero sarebbe simile
all’universo-madre, ma con una piccola variazione nei valori
delle costanti fondamentali. Un principio di selezione naturale simile
a quello che regola gli esseri viventi, e che li spinge a fare
più figli per avere più possibilità
che la propria eredità genetica sopravviva, porterebbe gli
universi a generare più buchi neri possibili. Noi saremmo
quindi semplicemente il sotto-prodotto di un meccanismo di selezione
naturale a livello cosmologico che premia gli universi che hanno
più buchi neri in grado, quindi, di generare più
figli.
In tutto questo fiorire di ipotesi e teorie ce
n’è anche per il tempo, grande assente da tutti i
dibattiti su multiversi e dimensioni aggiuntive (anche la teoria delle
stringhe prevede un’unica dimensione temporale). Dopotutto,
Einstein ha dimostrato che spazio e tempo sono inesorabilmente legati.
Non tutti la pensano così. Sulla natura del tempo sono state
avanzate tantissime teorie, fino alle più radicali, come
quella di Julian Barbour nel suo La fine del tempo,
che spiega – in modo abbastanza complicato per un libro di
divulgazione – come il tempo sia solo il succedersi di una
serie di momenti, gli “Adesso”, e che la sensazione
di un suo fluire sia solo un’illusione. Caso estremo di
fisico teorico eterodosso, sebbene le sue teorie siano considerate con
rispetto nell’ambiente per la loro rigorosità,
Barbour non appartiene all’establishment accademico: dopo il
dottorato, si è mantenuto facendo il traduttore
specialistico e vive in una fattoria alla periferia di Oxford.
Nell’ottobre scorso, Barbour ha pubblicato con due colleghi,
Tim Koslowski dell’Università del New Brunswick e
Flavio Mercati del Perimeter Institute, una prima versione di una nuova
teoria che sostituisce la precedente. Il tempo esiste, spiega Barbour,
ma non ha una direzione preferenziale. Sì, è vero
che noi percepiamo una direzione inequivocabilmente tesa dal passato al
futuro, ma solo perché esiste un altro universo gemello che
viaggia in senso inverso. Il Big Bang non sarebbe allora
l’origine del tempo, ma solo una fase che inverte la
direzione del tempo (è questa la tesi riassunta da Lee
Billings nell’articolo Due futuri per spiegare il
misterioso passato del tempo, pubblicato da “Le
Scienze.it”, 13 dicembre 2014). Nell’universo a noi
speculare esisteranno esseri umani che sperimenteranno una vita molto
simile a quella che Philip Dick immaginava nel suo romanzo In
senso inverso.
Nell’ultimo suo libro, La
rinascita del tempo, Lee Smolin sostiene, in disaccordo con
Barbour, che non solo il tempo esiste, ma è anche la
componente fondamentale della teoria ultima della realtà. In
questo senso, nonostante le distanze evidenti tra Smolin e Tegmark (il
primo rigetta l’ipotesi del platonismo matematico), il punto
in comune tra i due è la convinzione che esista un livello
più profondo della realtà di cui le nostre teorie
sono solo un’approssimazione. Per Smolin il tempo
è fondamentale perché le leggi di natura cambiano
nel tempo, come presuppone la sua teoria della selezione naturale
cosmologica. Esiste però una metalegge,
che agisce direttamente sulle altre leggi e ne regola il funzionamento.
Ciò, riconosce Smolin, porterebbe a una nuova grande
domanda: “Perché proprio quella metalegge e non
un’altra?”. Ma sarebbe, secondo il fisico,
l’ultima grande domanda, quella che ci spingerà a
trovare finalmente la spiegazione ultima della realtà,
l’agognata teoria del tutto.
Non tutti sono
così ottimisti. In un recente articolo sulla rivista Nature
che ha suscitato molto dibattito, i fisici George Ellis e Joe Silk
hanno chiesto di mettere un freno al florilegio di teorie estremamente
speculative, a partire da quella delle stringhe: “La fisica
teorica rischia di diventare una terra di nessuno al confine tra
matematica, fisica e filosofia che non rispetta in realtà i
requisiti di nessuna di queste discipline”, scrivono.
“A nostro avviso, la questione si riduce a chiarire una
questione: quali potenziali evidenze osservative o sperimentali
potrebbero convincervi che la vostra teoria è sbagliata e
spingervi ad abbandonarla? Se non ce n’è nessuna,
non è una teoria scientifica” (Ellis e Silk 2014).
Per esempio, quando si è chiesto ai sostenitori della
supersimmetria se la mancata scoperta delle loro particelle a LHC
comportasse l’invalidità della teoria,
seraficamente questi hanno risposto dicendo che probabilmente le
particelle hanno una massa maggiore di quella che si può
raggiungere in LHC; e se anche nella nuova fase di indagine a
più alta energia che inizierà
quest’anno non si trovasse niente, significa semplicemente
che la loro massa è ancora più alta.
Tendenzialmente, potremmo non riuscire a scoprirle mai con i mezzi di
cui disponiamo, ma questo non vuol dire che non esistano. È
scienza questa? (sul tema cfr. Rovelli, 2011)
Naturalmente non
esiste una risposta, ma quest’anno ci sarà un
grande convegno internazionale che cercherà di fare delle
proposte concrete per risolvere l’impasse. Se ci
accontentassimo di dire che non esistono risposte, non saremmo arrivati
dove siamo oggi e ci saremmo fermati migliaia di anni fa, lungo il
cammino della conoscenza, convinti che il Sole giri ancora intorno alla
Terra. D’altro canto, Anassimandro, Talete e Democrito
ipotizzarono la natura corpuscolare della realtà migliaia di
anni prima che le loro tesi potessero essere sottoposte a verifica. Era
scienza, quella? No, era filosofia. Ma allora non è vero che
la filosofia è morta, come scrive Hawking: si è
solo trasformata ed ora, da ancilla theologiae,
com’è stata nel medioevo, è diventata ancilla
scientiae, “ancella della
scienza”.
LETTURE
VISIONI