Le parole di uno dei più celebri divulgatori
dell’evoluzionismo, il controverso scienziato e scrittore
Richard Dawkins, rendono giustizia più di molte altre al
grande problema della vita. In uno dei suoi primi libri, Il
fiume della vita, Dawkins definiva la vita una
“barocca stravaganza”. È barocca
perché, su questo nostro piccolo pianeta, ha assunto le
forme più diverse, eccentriche, versatili, ha riempito tutte
le nicchie, ha prodotto spesso orpelli che l’evoluzione ha
reso inutili come ombrelli in un deserto, per esempio la nostra
appendice o i denti del giudizio. È stravagante
perché sfugge alla logica rigorosa che invece descrive tutto
il resto della natura e regola il nostro universo. Sui misteri della
vita oggi ne sappiamo moltissimo. Sappiamo cosa sono le cellule,
cos’è il DNA e l’espressione genica,
abbiamo appreso il funzionamento dell’evoluzione e siamo
riusciti a ricostruire l’evoluzione della vita dalle prime
forme elementari fino alla complessa biodiversità che
riempie oggi la Terra. Eppure, così come nello studio
dell’universo, pur riuscendo a ricostruire tutta la sua
evoluzione a partire dalle prime frazioni di secondo, ma senza poter
squarciare il velo della singolarità costituita dal Big
Bang, analogamente non siamo ancora in grado di capire il segreto del
Big Bang della vita, di rispondere alla grande domanda fondamentale:
com’è nata? Non ci siamo spinti molto oltre
quell’evocativa intuizione che Charles Darwin butto
lì in una lettera a un suo amico, di un “caldo
piccolo stagno” (a warm little pond) dove,
ai primordi del tempo, sarebbe avvenuto il miracolo della nascita della
vita. Un’ipotesi che negli anni Cinquanta del secolo scorso
sembrò essere stata in parte dimostrata da un famosissimo
esperimento, entrato in tutti i libri di testo, quello di Stanley
Miller e Harold Urey: ricreando in un’ampolla le probabili
condizioni di quel caldo e piccolo stagno della Terra primordiale, con
un’atmosfera ricca di metano e ammoniaca, e sottoponendola a
scariche elettriche in grado di simulare i fulmini, i due scienziati
riuscirono a ottenere da composti inorganici degli amminoacidi le basi
della vita, essendo questi gli elementi che costituiscono le proteine.
Ma anche così, e anche dopo che le ricerche hanno dimostrato
la presenza di amminoacidi e altre molecole organiche nelle nubi
interstellari, resta un mistero il modo in cui da questi
“mattoni” è stato possibile produrre le
prime cellule e i primi organismi viventi unicellulari. Nonostante il Frankenstein
di Mary Shelley, sappiamo che non basta mettere insieme pezzi di un
essere umano e scariche elettriche per avere un individuo vivente.
Resta quindi ancora una “singolarità”,
un salto oltre il quale dallo stadio inanimato otteniamo la vita.
Talmente
complesso, questo problema, che a studiarlo si è inserita in
tempi recenti quella branca di frontiera della scienza rappresentata
dallo studio dei “sistemi complessi”. La
novità rivoluzionaria che essa ha rappresentato deriva dalla
sua capacità di introdurre nello studio del mondo una nuova
serie di strumenti matematici, la cosiddetta “matematica non
lineare”, maggiormente in grado di comprendere il
funzionamento di sistemi caotici. In epoca postmoderna la scienza dei
sistemi complessi rappresenta il contributo postmoderno di una scienza
che, inoltrandosi nel territorio inesplorato della natura, ha sentito
il bisogno di piegare la rigorosa matematica lineare per adattarla a
sistemi che non sono affatto lineari, dalla dinamica del clima ai
fenomeni biologici. Uno dei concetti alla base della scienza della
complessità è
“l’emergenza”: la complessità
è una proprietà emergente dall’insieme
delle parti, non posseduta cioè dalle singole parti che
compongono l’insieme. Mentre protoni e neutroni sono
semplicemente l’insieme dei quark che li costituiscono, e un
atomo è semplicemente l’insieme dei suoi protoni,
neutroni ed elettroni, un essere vivente non è semplicemente
l’insieme delle sue cellule. La
“configurazione” di queste cellule, o ancor di
più la configurazione dei geni all’interno del
DNA, rende diverso ogni essere vivente. E anche così,
continuiamo a non capire dove si trovi il pulsante di accensione della
vita. Allora, la vita è un fenomeno emergente, che
scaturisce allorquando la complessità del sistema ha
superato una certa soglia.
Esplorando questa
concezione, gli scienziati si sono spinti a cercare di decifrare
l’altro grande dilemma della vita, la coscienza. La filosofia
e la scienza si sono arrovellate per secoli sul problema
mente-cervello. Dopo essere stato per molto tempo oggetto della sola
riflessione della filosofia (“cogito, ergo sum”),
il problema della mente è passato in eredità alla
scienza. Il classico Gödel, Escher, Bach
di Douglas Hofstadter, pubblicato nel 1979, fu tra i primi a suggerire
l’idea della coscienza come proprietà emergente.
Partendo dall’analisi del “teorema di
incompletezza” di Kurt Gödel, Hofstadter giungeva a
dimostrare come la logica formale non si possa applicare allo studio
della mente umana e dei suoi meccanismi. Hofstadter ha avuto il grande
merito di aver portato all’attenzione del grande pubblico (il
suo libro vinse anche il Pulitzer) la rivoluzione introdotta da
Gödel e le sue estensioni nello studio del problema della
coscienza e dell’intelligenza artificiale.
La
celebre “predizione” di Laplace, secondo la quale
se esistesse un’intelligenza in grado di conoscere tutte le
forze e gli oggetti dell’universo e calcolarne i movimenti,
essa sarebbe in grado di predire con esattezza il futuro, veniva a
cadere. In questa concezione meccanista, infatti, manca il termine
principale: non il famoso Creatore che Napoleone sosteneva mancasse nel
“sistema del mondo” di Laplace, sentendosi
rispondere che di quell’ipotesi si poteva fare a meno; ma la
vita e la coscienza, appunto: quelle barocche stravaganze che sfuggono
all’analisi della matematica e tuttavia esistono e sono
diffuse su tutto il nostro pianeta.
Le neuroscienze stanno
vivendo oggi un’autentica età dell’oro
nel loro impegno per rispondere alla grande domanda sulla coscienza
umana. Progetti ambiziosi come lo Human Brain Project
e il Blue Brain Project (il primo a guida europea e
il secondo a guida americana), grazie a finanziamenti di miliardi di
euro, stanno mettendo insieme la potenza di calcolo dei supercomputer e
le ultime teorie sul funzionamento della mente per simulare un cervello
umano e comprendere il modo in cui in esso emerge la coscienza. Secondo
alcune scuole di pensiero, questi tentativi sono destinati a fallire:
la simulazione di un cervello umano è impossibile, sostiene
per esempio, tra gli altri, Roger Penrose. Proprio rifacendosi a
Gödel, Penrose afferma che un computer non potrà
mai emulare una mente: i computer, infatti, non sono in grado di
risolvere problemi di logica non formale, mentre l’essere
umano sì. Per tale motivo, secondo Penrose, non
sarà mai possibile realizzare nemmeno
un’intelligenza artificiale, grande sogno della
modernità e della fantascienza. Di opinione contraria si
è espresso invece nel suo ultimo libro, Il
significato dell’esistenza umana, il celebre
biologo Edward O. Wilson. Noto assertore della teoria del
superorganismo, che egli ha applicato con successo allo studio degli
insetti sociali e in particolare delle formiche, Wilson è
convinto che i grandi progetti di ricerca sul cervello umano
dimostreranno che la coscienza è una proprietà
emergente prodotta dall’interazione tra le diverse componenti
del cervello:
“Nel frattempo, il sistema nervoso può essere utilmente concepito come un superorganismo dotato di una magnifica organizzazione, fondato sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione in seno alla società delle cellule; un superorganismo intorno al quale il corpo svolge principalmente un ruolo di supporto. Se vogliamo, possiamo trovare un’analogia con la regina delle formiche o delle termiti, e con lo sciame di operaie che le assicura il necessario sostegno. Presa singolarmente, ogni operaia è relativamente ottusa; segue un programma di cieco istinto, privo di qualsiasi sofisticazione, la cui espressione consente una flessibilità molto limitata… Nel loro complesso, invece, le operaie costituiscono un insieme capace di grande intelligenza. Affrontano simultaneamente tutti i compiti necessari e possono modulare l’entità del proprio impegno per affrontare emergenze potenzialmente letali come inondazioni, carestie e attacchi da parte di colonie nemiche” (Wilson, 2015).
La questione della coscienza pone tutta una serie di problemi
che principalmente girano intorno alla straordinaria
complessità del cervello umano. Gli scienziati sono unanimi
nel definire il nostro cervello “l’oggetto
più complicato dell’universo”. E lo
è: con i suoi oltre cento miliardi di neuroni e le
misteriose interazioni che avvengono al suo interno, il cervello
è la cosa più complessa che conosciamo. Un primo
problema che esso pone riguarda la differenza tra noi esseri umani e
gli altri esseri viventi. È vero infatti che la teoria
dell’evoluzione di Darwin ci ha definitivamente scalzati dal
podio che la Bibbia ci aveva attribuito, dimostrando che
l’essere umano ha in comune con tutti gli altri esseri
viventi un’analoga origine e un analogo processo evolutivo;
ma è anche vero che, nonostante molti animali mostrino una
particolare intelligenza (non solo le scimmie, ma anche i delfini, gli
elefanti, alcuni tipi di uccelli e i polpi), la superiorità
dell’intelletto umano su tutte le altre specie è
incontestabile. Per i biologi evoluzionisti, la cosa non appare di
particolare interesse. Semplicemente, nel suo percorso evolutivo,
l’uomo si è trovato ad attribuire maggiore
importanza allo sviluppo della scatola cranica e
dell’encefalo, tramite il quale ha avuto modo di superare le
insidie della natura e stabilire su di essa una supremazia. Il caso
e la necessità, per usare le parole del
celebre libro di Jacques Monod, hanno reso l’uomo
l’essere più intelligente oggi vivente sulla
Terra, ma non esiste una teleologia, un fine ultimo
dell’evoluzione verso l’intelligenza, in base al
quale all’uomo spetta il primo posto nell’ordine
gerarchico della natura.
Eppure, quando iniziamo a proiettare
questa considerazione oltre gli angusti confini del nostro pianeta,
all’interno dei quali operano i biologi evoluzionisti, tutte
le convinzioni iniziano a traballare. Innanzitutto, diversamente da
quanto immaginavano, unanimi, i pensatori dai tempi antichi fino alla
metà del XX secolo, gli altri corpi celesti del nostro
sistema solare non sono abitati. Ciò apparve strano, dal
momento che si riteneva che, essendo la Luna, Marte e gli altri pianeti
simili per composizione alla Terra, dovessero ospitare non solo vita,
ma anche vita intelligente (a rigettare questa ipotesi era solo la
Chiesa, che non a caso condannò come eretico Giordano Bruno,
che invece sosteneva la pluralità dei mondi abitati;
diventava difficile spiegare l’incarnazione di Dio nel suo
figlio fatto uomo come gesto di salvezza, se tale incarnazione era
avvenuta anche su altri mondi, magari all’interno di corpi
alieni). L’evolversi della scienza dimostrò presto
che agli altri pianeti del nostro sistema solare mancavano le
condizioni adatte per lo sviluppo della vita: l’ossigeno
nell’atmosfera e l’acqua liquida in superficie,
dove la vita ha iniziato a prosperare sul nostro pianeta. Oggi gli
esperti definiscono “zona di Goldilocks” (o
“zona Riccioli d’Oro” in una traduzione
letterale ormai abbandonata) quella fascia di un sistema solare
all’interno della quale può svilupparsi la vita:
non troppo lontana e non troppo vicina rispetto al proprio sole per
consentire di avere temperature miti in superficie, tali da favorire i
legami del carbonio e quindi lo sviluppo di molecole organiche
complesse, all’interno di soluzioni acquose. Prerequisito
fondamentale è quindi l’esistenza di acqua in
superficie. Per questo ci accaniamo tanto a cercare acqua su Marte: le
prove, ormai acquisite, che un tempo Marte possedeva oceani come i
nostri, consolida la tesi che sul Pianeta Rosso possa essersi un tempo
sviluppata la vita, anche se in forme elementari.
Se tutto ci
appariva fino ad ora banale nell’universo – stelle
come le nostre esistono a miliardi, galassie come la Via Lattea
abbondano, pianeti rocciosi sono la norma e la vita, sulla Terra,
è dovunque –, a un certo punto le cose hanno
iniziato a rivelarsi meno banali. L’esistenza della vita non
è un fenomeno banale. Nel nostro sistema solare potrebbe non
esserci, se non limitata a forme elementari sotto le sabbie di Marte
(magari fossilizzata), o sotto gli oceani di Europa e Titano, lune di
Giove e di Saturno. Sicuramente non esiste vita intelligente oltre la
nostra nel ristretto vicinato spaziale. Ma oltre? Quando,
all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso,
è partito il progetto SETI (dall’acronimo Search
for Extra-Terrestrial Intelligence, ricerca di intelligenza
extraterrestre), su iniziativa dell’astronomo Frank Drake e
dietro suggerimento di due radioastronomi, Giuseppe Cocconi e Philip
Morrison, in molti erano convinti che, non appena le antenne dei
radiotelescopi si fossero sintonizzate verso le stelle, avremmo captato
una miriade di conversazioni scambiate da civiltà
intelligenti sparse nell’universo. Invece, niente. Silenzio.
Naturalmente, si disse poi, cercare un segnale radio prodotto da una
civiltà tecnologica è come cercare il proverbiale
ago nel pagliaio in un universo così sconfinato e pieno del
rumore di fondo prodotto dai fenomeni stellari. Oltre
cinquant’anni dopo, il silenzio continua e in molti hanno
iniziato a disperare. Perché quello “strano
silenzio”, come lo ha definito il fisico e astronomo Paul
Davies in un suo libro di qualche anno, usando un aggettivo, eerie,
che nell’originale inglese ha una sfumatura diversa, che
indica un fenomeno inquietante? Perché gli alieni sono muti?
Questa
domanda ha preso ad assumere maggiore urgenza negli ultimi anni, con
l’incremento nel numero di scoperte relative ai pianeti
extrasolari. Fino all’inizio degli anni Novanta,
l’esistenza di pianeti al di fuori del nostro sistema solare
era teorizzata come estremamente plausibile, in base a teorie sulla
formazione dei sistemi planetari sviluppate a partire dallo studio del
nostro sistema solare, ma non era ancora stato possibile individuarne
nessuno a causa delle enormi difficoltà tecniche. Oggi sono
stati scoperti migliaia di pianeti extrasolari attraverso un ampio
spettro di tecniche osservative dirette e indirette, e nei prossimi
anni questo numero aumenterà in misura esponenziale con
l’inaugurazione di nuovi telescopi terrestri e spaziali in
corso di realizzazione. Sappiamo quindi con certezza che i pianeti sono
la norma, lì fuori: non solo giganti gassosi come Giove, ma
anche pianeti rocciosi come Marte o la Terra. Siamo ancora lontani
dall’aver individuato mondi identici al nostro, con acqua in
superficie e ossigeno nell’atmosfera, ma solo
perché non abbiamo i mezzi per effettuare queste scoperte.
Sappiamo però che esistono parecchi mondi come il nostro
all’interno delle rispettive zone di Goldilocks intorno alle
altre stelle, per cui è estremamente probabile che alcuni di
questi abbiamo una biosfera come la nostra. Nel giro di
vent’anni ne avremo la prova definitiva. Il SETI naturalmente
non si è lasciato sfuggire l’occasione di puntare
i propri radiotelescopi verso quei pianeti, senza però
riuscire a scoprire niente. Nemmeno da lì sembrano provenire
comunicazioni intelligenti. Ma se è vero che cercare queste
comunicazioni è come cercare un ago in un pagliaio (sono
stati “ascoltati” finora solo un centinaio di
pianeti), è vero anche che, sulla base della ragionevolezza,
c’è qualcosa che non va. La ragionevolezza la
dimostrò il nostro Enrico Fermi in una conversazione avuta a
Los Alamos con un paio di suoi colleghi scienziati atomici nel 1947.
Discutendo del dibattito emerso sulla stampa relativo ai primi
avvistamenti di UFO, Fermi sostenne che a suo giudizio i responsabili
degli UFO non potevano essere intelligenze extraterrestri.
Perché mostrarsi proprio allora, e non prima? Considerando
l’età dell’universo, è
ragionevole aspettarsi che civiltà intelligenti siano nate e
cresciute anche milioni di anni prima della nostra e siano giunte
centinaia di migliaia di anni fa al volo interstellare. Se anche solo
una civiltà in tutta la galassia avesse deciso di
intraprendere l’espansione verso altri mondi, da tempo gli
extraterrestri sarebbero stati tra noi. Insomma, dovrebbero essere
già qui, e invece “dove sono tutti
quanti?”
Quella famosa domanda, nota oggi come
“paradosso di Fermi”, deriva naturalmente da alcuni
presupposti logici che potrebbero rivelarsi sbagliati, esattamente come
quelli alla base del progetto SETI. Dopo tutto, non è certo
detto che una civiltà intelligente decida di lanciarsi nella
colonizzazione della galassia, mettendo piede su tutti i pianeti
abitabili che incontri lungo il suo percorso. Potrebbe anche decidere
che non ne valga la pena. La mentalità umana è
legata all’idea della colonizzazione, concetto che ha
dominato la nostra storia a causa dell’esigenza di uno
“spazio vitale” da conquistare con
l’aumento della popolazione e del suo fabbisogno di risorse.
Questa esigenza era ben sentita nel 1947, in pieno boom demografico, e
poco dopo la fine di una guerra mondiale prodotta dal desiderio di
espansione della Germania nazista, bisognosa di spazio vitale. Stava
iniziando la de-colonizzazione, certo, ma a qualsiasi persona dotata di
buon senso, come Fermi, non sfuggiva l’esigenza di
un’espansione nello spazio per conquistare spazio vitale nel
momento in cui la Terra si fosse rivelata troppo stretta. Ebbene, chi
ci dice che sia davvero così? Edward O. Wilson, nel libro
già citato, la pensa diversamente e lancia
un’ipotesi interessante:
“Di sicuro ET abbastanza intelligenti da esplorare lo spazio comprenderanno anche la brutalità e il rischio letale intrinseci nella colonizzazione biologica. A differenza nostra saranno arrivati a comprendere che – per evitare l’estinzione o il ritorno a condizioni intollerabilmente dure sul loro pianeta –, molto prima di viaggiare fuori dal loro sistema stellare, dovevano raggiungere la sostenibilità e dotarsi di sistemi politici stabili. Forse avranno deciso di esplorare – molto discretamente, servendosi di robot – altri pianeti che ospitano la vita, ma non di invaderli. Non ne avevano alcun bisogno, a meno che il loro pianeta non fosse sul punto di essere distrutto. E se avessero sviluppato la capacità di viaggiare da un sistema stellare all’altro avrebbero sviluppato anche quella di evitare la distruzione planetaria. Oggi vi sono, tra noi, alcuni entusiasti dello spazio convinti che l’umanità possa migrare su altri pianeti dopo aver sfruttato ed esaurito quello in cui ci troviamo. Costoro dovrebbero tenere ben presente quello che ritengo essere un principio universale, valido per noi come per tutti gli ET: per una specie esiste un solo pianeta abitabile, e quindi una sola vita possibile per guadagnarsi l’immortalità”. (Wilson, 2015)
L’argomentazione di Wilson mette in crisi
i propositi espressi dai sostenitori dell’espansione
dell’umanità nell’universo: dallo
scrittore Isaac Asimov al fisico Stephen Hawking, secondo il quale se
l’umanità non si espanderà nello spazio
sarà costretta al collasso entro un secolo, fino al recente
film Interstellar di Christopher Nolan (www.quadernidaltritempi.eu/numero52).
Interstellar cerca di spronare la nostra
civiltà a riprendere la corsa allo spazio interrotta
precocemente, se non altro per garantirci un futuro.
L’esaurimento delle risorse e il cambiamento climatico
– danni che abbiamo consapevolmente inflitto al nostro
pianeta – rischiano di rendere invivibile la Terra nel giro
di poche generazioni. Se non possiamo invertire il processo, dobbiamo
allora cercare di sopravvivere lasciando la Terra verso nuove mete. Nel
film, inizialmente, si sostiene che le
“intelligenze” che indicano agli esperti della NASA
l’esistenza del wormhole artificiale nei
pressi di Saturno siano intelligenze extraterrestri. Si
scoprirà poi che in realtà si tratta degli esseri
umani del remoto futuro, che hanno trovato il modo di comunicare
attraverso il tempo. Non ci sono civiltà aliene in Interstellar,
ma solo un universo terribilmente inospitale che gli uomini,
disperatamente, cercano di adattare alle loro esigenze, terraformando i
mondi e costruendo scorciatoie che permettano di raggiungerli
più facilmente. È chiaro che il nostro universo
non è progettato per gli esseri umani. Se lo fosse stato, le
distanze tra i vari sistemi stellari sarebbero state ridotte e la
maggior parte dei pianeti sarebbe stata resa ospitale. Interstellar
sostiene che, nonostante ciò, il nostro imperativo morale
sia espandersi nel cosmo per garantire la sopravvivenza della nostra
progenie. D’altro canto, se lo strano silenzio
dell’universo fosse legato al fatto che la nostra sia
l’unica civiltà intelligente esistente, questo
imperativo morale assumerebbe ben altri contorni. Avremmo davvero
l’obbligo di salvaguardare questa peculiarità
straordinaria del processo evolutivo, che ci ha resi gli unici esseri
viventi in grado di pensare e capire l’universo. Allora
sarebbe anche giusto il principio di colonizzare nuovi mondi, se
ciò fosse possibile. Per questo, il paradosso di Fermi e il
dilemma dello strano silenzio sono grandi domande che ci costringono a
profonde riflessioni sulla vita e l’intelligenza.
Naturalmente,
se invece Wilson ha ragione, e altre civiltà extraterrestri
abbondano nell’universo ma non si allontanano da casa
propria, per vari motivi, ecco trovata una spiegazione al paradosso di
Fermi. In tal caso, guai a noi se decidessimo di colonizzare pianeti
dove abitano altre civiltà. Lo “scontro di
civiltà” teorizzato da Samuel Huntington, che
già ci dà abbastanza problemi sulla Terra,
verrebbe sconsideratamente esteso su scala cosmica. Esistono numerose
spiegazioni alternative al paradosso di Fermi che non fanno a meno
dell’esistenza di altre civiltà, ma riescono anche
a spiegare perché il progetto SETI non ha ancora captato
nessun loro segnale. Il fisico Stephen Webb ne ha elencate ben 50 in un
brillante saggio del 2002, Se l’universo brulica di
alieni… dove sono tutti quanti? La sua lettura
è uno stimolantissimo viaggio nel corso del quale vengono
analizzati tutti i presupposti sulla vita e
sull’intelligenza, basati sull’unico esempio che
conosciamo, quello della Terra. Alla fine di quel viaggio,
però, Webb assume una posizione radicale. La cinquantesima
soluzione, la sua personale, è che dopotutto siamo davvero
soli nell’universo. Questa convinzione ha cominciato a
diffondersi nella comunità scientifica negli ultimi anni,
incrociando l’assenza di evidenze emerse dal progetto SETI
con gli sviluppi della biologia evolutiva, che sta dimostrando quanto
improbabile sia stato il percorso che ha portato alla nascita e allo
sviluppo della vita sul nostro pianeta. Il libro del paleontologo Peter
Ward e dell’astronomo Donald Brownlee, Rare Earth:
Why Compex Life is Uncommon in the Universe (“Terra
rara: perché la vita complessa non è comune
nell’universo”), pubblicato nel 2000, è
diventato un bestseller. “Un quadro del genere viene
criticato spesso perché violerebbe il principio della
mediocrità. Quest’immagine sembra suggerire che la
Terra, e con la Terra l’umanità, siano speciali.
Non è il colmo dell’arroganza?”, scrive
a tal proposito Stephen Webb. “Paradossalmente, almeno a mio
modo di vedere, è credere che altre specie senzienti debbano
esistere e puzzare di arroganza. O, per meglio dire,
quest’idea riesce nell’arduo compito di unire una
modestia estrema a un’indicibile superbia: al centro di
quest’aspettativa c’è la convinzione che
gli adattamenti umani, gli attributi quali la
creatività e l’intelligenza generica, cui
assegniamo una certa importanza, siano qualità cui tendono
gli altri organismi terrestri; e che creature aliene potrebbero
vantarle in misura anche maggiore” (Webb 2002). Nel suo Il
caso e la necessità, pubblicato per la prima volta
nel 1970, Jacques Monod concludeva che “l’Uomo
finalmente sa di essere solo nell’indifferente
immensità dell’Universo dal quale è
nato per caso” (Monod, 2001). In verità non lo
sappiamo ancora, ma certamente conviene che iniziamo ad abituarci
all’idea e a chiederci cosa fare per rendere più
confortevole quest’enorme, forse infinita solitudine.
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